(713) Telefonare

Quando non c’era ancora internet – sì, sono piuttosto antica – il telefono era l’unico modo per mantenere i contatti con gli amici. Scrivevo moltissime lettere, giuro, ma se scrivi a chi non ti risponde perché non ama scrivere diventa piuttosto frustrante.

Passavo ore al telefono, per ascoltare e per raccontarmi, amavo il posto che avevo nella vita dei miei amici, mi sembrava fosse importante esserci anche se mi ero trasferita a quasi 500 km di distanza.

A un certo punto, però, ho scoperto che non era un posto per sempre perché la lontananza fisica aveva fatto perdere le mie tracce e la mia voce non bastava più. Facevo fatica a raccontarmi, facevo fatica a farmi capire, facevo fatica a esserci. E dopo anni mi arresi sfinita, come se tutte le energie fossero state succhiate via per sempre.

Non era una questione di pensiero, li pensavo tutti i giorni, né d’affetto perché erano sempre le persone con cui ero cresciuta e avevo condiviso tutto della mia infanzia e della mia adolescenza solo… solo che loro non riconoscevano più me e io non riconoscevo più loro. La vita ci aveva masticato e ci aveva modellato diversi. Riconoscibili solo nei dettagli.

Ora prendere il telefono per chiedere “come stai?” mi fa strano. Il telefono adesso non mi aiuterebbe a riattaccare i pezzi persi, e quei vuoti li temo se si palesano in vuoti di silenzio. Non lo so, sento che raccontarmi a loro – per come sono oggi – andrebbe solo a confondere i ricordi.

Vorrei capirne di più della vita, per fare meno errori, ma al momento tutto quello che posso fare è riconoscere le cose per quel che sono e accettare i cambiamenti per quello che devono essere. Mi fa tristezza, comunque. Da piangere.

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(712) Apparecchiare

Spendo molta della mia energia nella preparazione. Credo sia la parte migliore, il momento in cui le idee possono splendere. Immagini che ogni dettaglio sia perfetto, che ogni cosa sia al posto giusto, che tutto-proprio-tutto vada come vuoi tu. Per me è il momento in cui posso curare le mie idee affinché siano accoglienti e creino benessere per chi ne usufruirà.

A ben pensarci non ho fatto altro che apparecchiare il mio presente per tutta la vita, e non è poco. Davvero non è poco.

Mi sembra addirittura di non saper fare altro, e questo è di certo un limite. Faccio fatica a smettere, non riesco a stare con la testa ferma e godermi quanto ho fatto, sono sempre spinta oltre, devo sempre pensarne una nuova e arrovellarmi per riuscire a rendere il pensiero concreto, reale. Stachanov mi fa un baffo. Su tutta la linea. Non so se esserne orgogliosa o dolermene, sinceramente non lo so.

Tanto per cambiare sto apparecchiando un’altra tavola, e già non mi do tregua: immagino, strutturo, schematizzo, distribuisco il fare… Sì, una macchina da guerra. Non è per la guerra che mi sto preparando, però, questo spero farà la differenza. Fidarsi delle persone – alla mia età – non è facile, ti domandi sempre come e dove stavolta ti colpiranno, ma alla fin fine ci vuole una bella tenuta di nervi a stare perennemente sul chi-va-là. I miei nervi già sono oberati per tutto quello che devono affrontare, non posso trascinarli anche nel girone infernale dei cinici ad oltranza. Eh!

La vita, dopotutto, è un atto di fede. Se ci sei e non ci credi che resti qui a fare?

 

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(711) Presupposti

A volte penso che siamo fatti di anelli, come gli alberi. Ogni persona vive la propria vita a periodi e ogni periodo si sviluppa allo stesso modo: inizio-crescita-apice-decrescita-fine. Un anello. 

Se facessimo attenzione a questo particolare ci renderemmo conto che non è affatto facile leggere gli anelli che compongono una persona, non sono evidenti sulla pelle che la ricopre, bisognerebbe far entrare il nostro sguardo fin nelle viscere e allora sì potremmo avere una mappa veritiera del suo Sé, potremmo dichiarare: la conosco.

Ogni anello è una storia, una storia lunga anche anni perché non tutti i cicli hanno la medesima durata. Ogni storia parte da premesse conosciute per incasinarsi con incidenti di percorso e sorprese varie, leggere ogni anello comporta una conoscenza intima del Essere Umani. Solo pochi possono affrontare un’impresa del genere.

Quando raccontiamo agli altri i nostri anelli ne dobbiamo per forza fare un riassunto, tralasciamo le cose che non ci sembrano importanti e magari ci dilunghiamo su particolari che amiamo o che riteniamo fondamentali. Non siamo obiettivi, non possiamo esserlo. Mettiamoci poi il carico del pudore, della cautela, del buonsenso, del buongusto ecc. – tutto sacrosanto e lecito – come possiamo pensare che il nostro modo di raccontarci sia verosimile? In tutta buona fede, sarebbe comunque impossibile.

Chi riceve il nostro racconto si porta appresso i suoi anelli e il suo modo unico di mettersi all’ascolto – chi più distratto, chi meno – e anche lì in tutta buona fede, come possiamo pensare che riescano a leggerci in modo verosimile?

La comunicazione tra Esseri Umani non si può basare sull’ascolto o sul raccontarsi, bisogna spingerla oltre, bisogna spingerla oltre con l’intento dell’incontro. I nostri anelli e quelli del nostro prossimo se confrontati risulteranno molto simili per forma, non per suono forse, ma per forma sì.

Ogni albero differisce dall’altro, per specie se non altro, ma se li tagli scopri che gli anelli sono gli stessi. Ogni albero è un magnifico esemplare di vita, esattamente come noi. Mi domando, quindi, se non sia una questione di presupposti quella che fa crescere alcuni di noi storti. Se così fosse è da lì che bisognerebbe iniziare a lavorare, sui presupposti. Sarebbe già qualcosa, no?

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(710) Sassi

I sassi si possono tirare. E fanno male a riceverli, se non li prendi al volo. I sassi che ti colpiscono ti vien voglia di rimandarli al mittente in presa diretta, se non lo fai è perché non sei fatta così, tu i sassi non li tiri.

Non li tiri un po’ perché non ti viene in mente, nel senso che sei impegnata a fare altro, un po’ perché sai che fanno male e alla fin fine fare il male con intenzione non ti farebbe dormire bene la notte, e un po’ perché i sassi son come boomerang, tornano indietro facendo un bel giro largo e ti colpiscono con precisione svizzera.

Con i sassi ricevuti ho riempito diversi vuoti, soltanto perché non sapevo dove metterli e li ho messi lì dove pensavo mi sarebbero stati utili a qualcosa. In realtà, i sassi non si deteriorano, si fanno prove eterne di ciò che hai ricevuto e non è un bel servizio che ti fanno, ricordare fa persistere il dolore.

Fatto sta che con tutti questi sassi non sapevo che fare, e li ho messi un po’ qua e un po’ là. Ogni tanto li conto e non ne manca mai uno. Si sono proprio affezionati. Vorrei trovare un posto lontano da me per lasciarli liberi, per farli respirare un po’, ma non è che posso buttarli addosso a qualcuno come se la cosa non mi riguardasse. C’è scritto il mio nome sopra, eh.

Quando li guardo vorrei rilanciarli ai mittenti, perché non sono buona e il pensiero vendicativo lo conosco bene, ma poi lascio sempre perdere e non lo so neppure io il perché. Ora che ci penso: e se li togliessi dai miei vuoti e li raggruppassi per farne una montagnetta? Dall’alto la visuale migliora…

Ecco, forse ho capito a cosa mi possono servire. Ora mi arrampicherò fin lassù per vedere che aria tira. Una volta raggiunta la cima un’altra idea mi verrà di sicuro. Sono pronta.

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(709) Veliero

Mi sento come un veliero parcheggiato. La baia è carina, certo, ma stretta. Niente venti, niente profumo di mare, non arriva fino a qui. 

E non è il periodo, non è una sensazione passeggera, mi sento così da sempre. Non so dire altro, l’immagine della baia e del veliero penso che sappia rendere l’idea. Ciao.

(…)

Sarebbe un ***Giorno Così*** troppo breve se finisse qui, devo per forza metterci ancora qualche riga e temo di aver preso diretto un bel vicolo cieco.

(…)

Qualche tempo fa scrissi un romanzo dove il vento era il protagonista silente della storia, comprai un libro per saperne di più e più leggevo quelle pagine piene zeppe di informazioni più ne volevo leggere. Sentivo che sapere tutto quello che potevo sapere sull’argomento sarebbe stato per me di vitale importanza al di là del romanzo che stavo scrivendo. È stato come scoprire di punto in bianco una mancanza che ignoravo di sentire.

Le vele accolgono il vento opponendogli quella giusta resistenza affinché il veliero possa muoversi. Se il vento è troppo si squarciano, se è poco non si gonfiano e lo stallo permane. Semplice. Quindi ognuno di noi ha bisogno del suo vento per muoversi, giusto?

Rimanere al sicuro nella baia ti può consumare di nostalgia. Il fatto che ogni viaggio – in realtà – sia consumato nella solitudine piena di noi stessi è la contraddizione più affascinante che c’è perché raramente quando viaggiamo siamo davvero soli. Come al solito più cerco di chiarirmi le idee e più queste mi ballano attorno la macarena. Dovrei rassegnarmi allo sberleffo. Prima o poi lo farò.

Va bene, ora le righe sono sufficienti – pure troppe – e mi stanno cascando le dita sulla tastiera dallo sfinimento. È venerdì e anche questo è un tema.

Già.

 

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(708) Chicchessia

Oggi, in una presentazione di un piano di comunicazione aziendale, ho davvero usato il termine chicchessia. L’ho fatto con la mia solita quieta spavalderia e l’ho fatto solo perché suonava talmente opportuno che qualsiasi sinonimo mi risultava cacofonico.

Non nascondo che qualche dubbio l’ho avuto, dopo. Durante la revisione mi sono domandata se fosse il caso di lasciarlo lì. Mi rendo conto che è una leziosità per certi versi fastidiosa, mica sto facendo letteratura è un umile documento informativo, ma in quella frase, per il contesto che stavo descrivendo… no, non riuscivo a sostituirlo. Così l’ho lasciato.

Già mi immagino la faccia del cliente, già mi immagino il sorriso che mi nascerà e già immagino cosa dire a mia discolpa, eppure non lo toglierò.

Credo sia proprio una questione di amore viscerale per quello che sto facendo. Solitamente devo rimaneggiare idee e lavori per accontentare chi pagando vuole avere qualcosa che gli risuoni perfettamente anche quando non funziona, anche quando è una mossa catastrofica in fatto di comunicazione. In quei casi sfodero la mia migliore dialettica cercando di far comprendere le mie ragioni di professionista, spesso devo ritirarmi in silenzio nonostante gli sforzi profusi perché chi paga ha sempre ragione. Ecco, oggi ho voluto essere libera. Completamente libera di gestire la situazione, dopo tanto tempo mi sono detta: “Se per te va bene, significa che va bene e basta”. E dopo tanto tempo a sacrificare concetti e parole per volere altrui, è stato un delizioso sollievo. Decido ed eseguo. Liberamente eseguo… meraviglioso.

Mi rendo conto che sto parlando di cose piccole, eppure se applico questa mia piccola libertà una volta al giorno mi sento meglio. Un esempio? Ok, decido di farmi un toast e qualcuno mi dice: “Perché sistemi in quel modo il formaggio?”. La risposta ovvia (“Perché lo voglio esattamente così”) e l’affermazione della scelta continuando sulla mia strada, è un altro esempio di come voglio fare le cose: A-MODO-MIO.

Il vecchio Frank (Sinatra) lo ha cantato e io nel mio piccolo ho raccolto la sua eredità mettendola in pratica sempre a-modo-mio.

A me sta bene il consiglio, la condivisione, il fare meglio, l’imparare… va tutto bene, ma ci sono delle cose che preferisco fare a-modo-mio. Scrivere è una di queste, quindi se qualcuno vuole mettere mano a qualcosa che ho scritto io non la prendo benissimo. Magari la migliori, ma diventa tua e non mia. Nonostante i tanti anni di scrittura è ancora così. Quindi oggi mi sono ribellata e ci ho messo un bel chicchessia dove nessun altro al mondo avrebbe osato.

Sì, è una cosa da nulla, una sciocchezza è vero. Ma l’ho fatto. E l’ho fatto a-modo-mio. Grazie Frank.

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(707) Traffico

Il mio personale traffico mentale spesso sovrasta ogni cosa che mi riguarda. Mi impone l’immobilità più che estatica attonita. Guardo i pensieri che si tagliano la strada senza curarsi della segnaletica e mi domando: “Com’è possibile che ancora non si sia verificato il più grande e catastrofico crash della storia stradale planetaria all’interno del mio umile cervello?!”.

Niente, sembra che tutto abbia un suo senso che viaggia in concerto con il senso degli altri e anche se alcuni sensi unici si risolvono in nulla, ad un certo punto, come se niente fosse, arriva l’Epifania. Mi appare l’immagine o il concetto o l’idea che non solo è soluzione, è addirittura soluzione efficace e definitiva. Con una logica, con una solidità, con una ricchezza di contenuto che mi lascia senza parole… come se fossi una piccola Einstein che si ridesta dopo secoli di pensiero obnubilato. Non so se rendo: è una sensazione particolarmente vicina a quella che si può provare quando ti chiudi un dito nella portiera dell’auto. Stelle e cosmogonia in un istante ti si palesano come fossero sempre state lì – solo per te – ad aspettare quel momento con la tua stessa trepidazione. Commovente.

Al di là di tutto questo, riprendendo il concetto di traffico mentale, voglio precisare che anche se le mie non sono in realtà delle genialate, il fatto che prima sia un casino e ad un tratto tutto sia chiaro, lucido, cristallino, rimane. Ripeto: prima un casino – che ti viene voglia di sbattere la testa contro il muro tanto per sincerarti che ci sei ancora – poi il Nirvana. Non è un episodio che sto sintetizzando, è la prassi. Cioè io vado da momenti in cui non so neppure come mi chiamo a istanti in cui il senso del tutto prende forma manifestandosi nella sua giustezza – senza fare una grinza – e mi permette di avanzare. Sarà pure solo un passo, ma intanto è un passo avanti e non indietro. Mica poco, no?

Arrivata alla fine della scorta di energia della giornata, posso concludere con un’affermazione pregna di significato (almeno per me): so solo io quanto sia impegnativo e snervante essere me stessa. Non lo auguro a nessuno.

Buonanotte.

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(706) Giudizio

Il giudizio scatta quando c’è una valutazione da fare. Va bene-non va bene, quando va bene-quanto non va bene, quanto va male… Ci serve per muoverci, per prendere delle decisioni, per attrezzarci. Ci fa muovere con cautela laddove il giudizio non si palesa con chiarezza perché mancano elementi per valutare la complessità della situazione, del contesto, delle questioni umane. Il giudizio è una forma di cautela che ci aiuta a proteggerci. Stop. 

Quando perdiamo il controllo e lo facciamo diventare un’arma per aggredire chi differisce da noi – per qualsiasi ragione – si trasforma in un problema. Un problema personale, una questione che va a toccare la nostra autostima che si scopre debole e tentennante. In poche parole: abbiamo un problema Houston di gestione emotiva interna. Se rimanesse questione interna i danni sarebbero circoscritti alla persona, il punto è che questa rabbia che monta la vomitiamo addosso agli altri. Da interno il problema diventa esterno, totale, globale. Un disastro. Letteralmente un disastro. Si confondono i confini del va bene-non va bene, del mi piace-non mi piace, del lecito-non lecito. Non c’è più discernimento, non c’è più ascolto, non c’è più voglia di comprendere. Un disastro.

Se ci posizioniamo in modalità Giudizio, dovremmo per lo meno essere certi di non essere portatori di pecche, perché mettiamo in circolo una dinamica  a boomerang che ci potrebbe vedere perdenti. “Chi è senza peccato scagli la prima pietra” – e non l’ho detto io – è un monito che spesso dimentichiamo ma che faremmo bene a riprendere in considerazione.

Siamo ben al di là dell’essere Divini, siamo tutti bucherellati da vuoti, mancanze, cedimenti, vulnerabilità, limiti, incertezze, collassi più o meno evidenti: giudicare le magagne degli altri è quanto meno incauto. 

Ho imparato a disciplinare quel tipo di pensiero che fa del confronto la sua bandiera. Non sempre mi riesce perfettamente, ma almeno riconosco il pericolo e inizio col prendermi meno sul serio. So che mi scoccia cadere nella trappola del dito puntato, piuttosto mi astengo dal formulare una sentenza che infognarmi in questioni che non conosco. E ci sono anche gli alibi, perdio! Ne vogliamo parlare?

No, non adesso, magari in un altro ***Giorno Così***, sono sfinita. Buonanotte.

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(705) Monumenti

Ci siamo abituati a guardare certe cose come se fossero lì per rimanere. Per sempre. Un tempo parlavano di noi, ora non più, ora ci ricordano chi eravamo (forse), ma potrebbero tranquillamente andarsene anche dalla nostra memoria che non cambierebbe quel “chi siamo” di cui tanto abbiamo bisogno per vivere.

Sono dei monumenti che abbiamo adottato, o abbiamo costruito, apposta per appenderci un pezzo di noi. Per sicurezza, per scaramanzia.

Facciamo fatica a staccarci, facciamo fatica a pensarli sorpassati, facciamo fatica a distruggerli. Eppure non ci servono più. Facciamo fatica anche ad ammettere questo dettaglio da nulla, in fin dei conti darci torto ci rode un bel po’. Piuttosto li teniamo lì e li spolveriamo, piuttosto facciamo finta che gli assomigliamo ancora. Se così non fosse ci mancherebbe un puntello, ci sentiremmo scivolare via come sabbia, saremmo costretti a chiederci “E ora chi sei?” e dovremmo arrovellarci per trovare una risposta plausibile, credibile, utilizzabile. Panico.

Ma noi siamo diversi da quello che eravamo, seppur gli stessi, siamo cambiati. In meglio o in peggio non fa differenza, siamo comunque diventati altro anche se chiunque si fermi alla superficie ci riconosce e ci riporta al monumento che si è fatto di noi. Un gioco che è una gabbia. Difficile uscirne, difficile restare dentro. E allora ci pieghiamo un po’ per non dare troppo nell’occhio. Non sappiamo neppure il perché, forse lo abbiamo visto fare e lo stiamo riproponendo come da istruzioni date ai nostri neuroni specchio, piccole inconsapevoli scimmie come siamo… mah!

Non mi piaccioni i monumenti eppure ne ho costruiti tanti e ne ho avvallati altrettanti durante i miei anni. Che brutta abitudine, che squallido modo di pensare a me e al mondo che mi gira attorno…

Ora prendo martello e scalpello e inizio a ritoccare quel che posso, quel che non può essere modellato lo butto giù. Facciamo un po’ di spazio, è tempo.

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(704) Violino

Si dice “essere tesi come una corda di violino”, ma il violino non è l’unico strumento a corde che se non le tendi non riesci a suonare. Hanno preso il violino come esempio? O la tensione delle corde del violino – producendo un suono secco e lamentoso – sono le uniche che necessitano di una tensione spasmodica per poter suonare come suonano?

Ebbé, se qualcuno si basasse su questi miei pensieri per capire l’intensità della mia intelligenza sarei spacciata. Lo so. Per fortuna un Essere Umano è molto più di quello che dice, di quello che scrive e persino di quello che pensa – anche se un Essere Umano che pensa da schifo fa venire zero voglia di indagare sul resto che lo riguarda.

Ormai tutti sanno della mia incapacità congenita di fermarmi e restare immobile a meditare, così mi sono scaricata un’app splendida che ti permette di entrare nel mirabolante mondo della meditazione come in un sogno e farti vivere questa esperienza come mai prima l’hai saputa immaginare. Fantastico.

Ok, oggi potevo iniziare. Me l’ero pure imposta, l’avevo programmato, non vedevo l’ora di iniziare… non so cos’è andato storto, ma mi sono persa nel vortice di pensieri spumeggianti di questa prima domenica di fine estate dove vorrei che il tempo si fermasse perché si sta così bene e… mi sono scordata dell’app e della promessa che mi ero fatta.

Non è detto che prima di dormire io non lo faccia, ma per il momento ho altre dieci cose in programma e nessuna la coinvolge. Non è cattiveria, credo, è proprio che mi sembra una perdita di tempo. Odio perdere tempo e una voce nel mio cervello mi dice che posso fare altro anziché perdere tempo meditando… magari sfidarmi a Parole Collegate (un giochetto idiota eppure impegnativo, che mette in crisi anche chi con le parole ha una certa dimestichezza). Cosa si vince? Nulla. Allora si perde tempo? Ehmmmmm… ni… quasi… insomma…

Ok, la mia tensione cerebrale ha molto a che fare con le corde di un violino, lo ammetto. Ora mi faccio una doccia e poi inizio con l’app meditativa, programma: anti-stress. Se entro due minuti non funziona mi butto su Netflix.

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(703) Spirale

Arriva la pioggia, scende la temperatura e il mio cervello si rifà vivo. Molto rincuorante, giuro, pensavo di averlo perso per sempre. Un’afosa e infinita estate questa, temevo non sarei più stata la stessa, invece ho fatto l’appello e i neuroni che c’erano son rimasti e stanno ricominciando a respirare. Bene.

E a settembre si ricomincia a progettare. Inevitabile. Bene pure questo.

Per un anno me ne sono rimasta buona in disparte perché volevo concentrarmi su quello che stavo professionalmente vivendo. Non è stato facile, pensavo non sarebbe stato un problema, ma probabilmente zittire la mia parte artistica è stata una sofferenza pesante che ha influito sulla mia capacità di ritenermi soddisfatta di me stessa, intera. Ora, sembra, io possa ricominciare a esserlo: soddisfatta e intera.

Basta già questo pensiero a mettermi di buon umore, pare impossibile ma è così. E non lo so perché questa spirale non si rassegna e non mi fa scappare, non lo so, so soltanto che se le cose stanno così significa che così deve andare. Ogni volta che mi sono rimessa in gioco è stato un salto nel vuoto, questa volta no. So cosa posso fare, so cosa voglio fare, so dove voglio andare e so che non voglio andarci da sola ma con le persone giuste, quelle con cui si viaggia volentieri, quelle con cui si può condividere, quelle che se ci sono rendono tutto più bello.

Ho ancora e sempre bisogno di bellezza, avvolgente e appagante, e sono ancora convinta che la bellezza si possa creare con la forza delle visioni ben nutrite e con il fare insieme. Non ho intenzione di cambiare idea perché sarei infelice. Smettere di credere in quello in cui credo mi renderebbe cinica, arida, rabbiosa, pronta a scagliarmi contro tutto e tutti. Non voglio trasformarmi in un recipiente di amarezza e veleno. Voglio continuare a credere.

Come andrà? Eh. Se avessi la sfera di cristallo mi farei chiamare Madame Babsie e venderei le mie consulenze magiche come noccioline. Dico, però, che andrà bene. Comunque andrà bene. Per le premesse, per le possibilità, per la musica e per i sentimenti che il viaggio ha in sé. Sarà faticoso? Eh. Anche senza la sfera di cristallo posso rispondere senza dubbi che: sì, dannatamente faticoso. Eppure ne varrà la pena. Come lo so? Non è mai stato diversamente da così nella mia vita. Non vedo perché dovrebbe cambiare proprio ora.

I’ll sleep when I’m dead… e si ricomincia a cantare.

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(702) Rischio

Corri il rischio se pensi che ne valga la pena. Corri il rischio quando il danno che ne potrebbe derivare è comunque maneggiabile, sopportabile. Il rischio calcolato non lo è mai fin nei dettagli, arriva fino a un pezzo e poi boh. Sia quel che sia.

Se giochi con la tua vita e non coinvolgi nessun altro, hai carta bianca per quanto mi riguarda e in certi casi hai anche la mia ammirazione. Se non sei solo, se il danno cadrebbe addosso a chi non c’entra nulla, allora dovresti fermarti. Se non ti fermi qualcuno dovrebbe farlo, dovrebbe fermarti. Con le buone meglio che con le cattive, in ogni caso non si tratta solo di te se ti trascini dietro un’intera nazione. Ci siamo capiti?

Ruba, inganna, mistifica, ingrassati di soldi e potere, ma non decidi con la tua misera coscienza malata per milioni e milioni di Esseri Umani – trattandoli come insetti da schiacciare – impunemente. Qualsiasi troglodita che ti ha votato, e ti ha permesso di arrivare nella posizione di potere in cui ti trovi ora, ha il diritto di essere protetto da te e dalla tua scelleratezza. Un troglodita è pur sempre un Essere Vivente, anche se si meriterebbe una mazzata in testa. 

Alzare lo sguardo al cielo e vedere sfilare sopra le nostre teste le flotte armate come se fossimo stati catapultati dentro un colossal storico hollywoodiano mi sembra semplicemente assurdo, semplicemente inammissibile, semplicemente inconcepibile. E chi pensa il contrario deve essere fermato. Fermato da chi? Da chi ha coscienza civile, umana direi, da chi sa guardare lucidamente le conseguenze e non vuole far finta di niente. Da noi. Siamo in tanti, noi. 

Io lo so che ‘sta cosa del votare democraticamente è una questione delicata, ma bisognerebbe votare a neuroni sani e non andare giù di rabbia e violenza come se non ci fosse un domani. Perché un domani c’è ancora e faremmo meglio a pensare ai rischi e alle conseguenze prima di consegnare le nostre vite nelle mani sbagliate. 

Non credo in chi urla di più e in chi alza di più i pugni o digrigna meglio i denti. Preferisco il ragionamento trasportato su un piano dialettico corretto e pulito, preferisco il confronto onesto allo storytelling da Game of Thrones. Preferisco l’incontro allo scontro, la pace al conflitto, la vita alla morte. E poi detesto i bugiardi cronici che ti pensano un idiota e ti tirano matto con le diverse versioni della stessa minestra. Ah, è vero, dimenticavo: questa è la politica, così dicono. 

No, questa è la brutta politica, e bisognerebbe recuperare quel concetto di buona politica che manca da troppo tempo. Eh, anche questo è un tema che dovrebbe essere affrontato prima o poi e non certo da me. 

In ogni caso, rischiare perché? Perché il margine di miglioramento a beneficio di tutti a cui accedere è talmente certo da riuscire a farti sognare. Anzi: sperare.

  

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(701) Ribellione

Disobbedire con criterio: quando si palesa un’ingiustizia, quando chi comanda è un despota insensato e/o crudele, quando veniamo schiacciati nei nostri diritti di Esseri Umani, e via di questo passo. Così si possono cambiare le cose.

Ribellarsi a regole disumane non è una scelta, è l’unica scelta. Perché ormai lo sappiamo che con le regole si parte bene e si può finire molto male, si possono rovesciare i concetti e si possono verificare bestialità inaudite. Questo non significa che le regole siano inutili, il Regno del Caos non prevede superstiti. 

Quindi la ribellione usata con intelligenza strategica, con uno scopo puro, con la pace nel cuore e la voglia di far avanzare il mondo verso un futuro onorevole per tutti è la pratica che tutti dovremmo adottare per sistemare le cose. Recuperi il coraggio dalla cantina, gli dai una bella rinfrescata, lo indossi e fai le scelte che sai che devi fare. Tieni botta e persegui l’obiettivo.

Il punto è: in cosa credi? Credi in qualcosa?

Quando credi, fortemente credi, ti muovi. Indossi il coraggio senza smettere di ascoltare la paura, evitando possibilmente il panico, e procedi con il piano di liberazione. Puoi osare, puoi. Puoi restare dritto davanti al sopruso e far sentire la tua voce, puoi dichiararti contrario, puoi affermare la tua posizione. Fallo in modo da poter essere ascoltato, però: non insultare, non sputare, non umiliare. Gioca pulito e ribellati. 

Prima di procedere, mi raccomando, chiediti di nuovo “in cosa credo?” e ascolta la tua risposta. Se credi che vali più degli altri, se credi di essere la vittima che ha diritto alla sua vendetta, se credi che prima tu e poi gli altri, se credi o io o gli altri, se credi di poterti ergere sopra le regole e le leggi morali, allora forse la tua non è ribellione e te la stai raccontando per accomodare la tua coscienza bucherellata. Lascia stare. Chiamati cialtrone, filibustiere, delinquente – farai una figura migliore, fidati.

Perché le parole definiscono e lucidano sia le menzogne che le verità, e usarle bene dà una grande soddisfazione, ma a reggere la ribellione sono i fatti. I fatti dimostrano chi sei, in cosa credi e cosa sei disposto a fare. Sono i fatti che contano. E non si scappa.

 

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(700) Frutto

Il risultato della mia attività mentale, spesso, dà un + o un – (raramente un x e di tanto in tanto un : ) questo riduce le possibilità d’azione e mi costringe a valutare fin nel dettaglio la rosa delle scelte a mia disposizione. Non è piacevole, non è comodo, non è facile, eppure un allenamente di questo tipo ti prepara bene non solo a quello che sarà ma anche a quello che è.

Il guadagno che ottengo lo re-investo e dopo decenni sto vedendo dei risultati. Dove voglio andare a parare? Semplice: prima semini e poi raccogli. Concetto di una banalità sconcertante, ma che molti giovani oggi pensano di poter ignorare soltanto perché loro sono già bravi, già pronti per la conquista del mondo. Lo so che quando parlo così posso essere scambiata per una ottuagenaria brontolona (chi ve lo dice che io non lo sia davvero?), ma com’è possibile che il frutto dell’esperienza sul campo sia ritenuto soltanto un dettaglio? Il sapere dei libri è una base fondamentale per affrontare il percorso lavorativo, ma non si ferma tutto lì… è lì che tutto inizia! 

Altri scopi, altre motivazioni, altre ambizioni, altri campi da esplorare. Tanto altro. 

E si prendono di nuovo in mano i libri, sì perché non si finisce mai di imparare, e al contempo si fa. Farefarefarefarefarefarefare… con la testa e con il corpo, si fa senza scuse, senza giustificazioni, senza paraocchi, senza perdere un colpo. Prendi in mano l’orgoglio e lo usi per non farti calpestare non per smettere di imparare. Quello che sai già non basta, non basta mai. Sai solo una parte, una piccola parte, il bello deve ancora venire, fidati. Fidati. 

Gioca d’umiltà. Fidati. Gioca pulito. Fidati. Gioca per ampliare la tua conoscenza e vedrai che vincerai. Non puoi che vincere partendo dai giusti presupposti. Quando guardo certi giovani talenti e li confronto con la me adolescente di un tempo vedo il salto quantico che la nuova generazione ha saputo compiere – suo malgrado, temo – e al contempo il vuoto di significati con il quale si trova a combattere. Una desolazione. Da dove iniziare per arginare il danno e aiutarla a colmare il vuoto? Io credo fortemente nell’ascolto e nella presenza, anche quando sembra impossibile, anche quando sembra una perdita di tempo, anche quando il feedback è mortificante. Col tempo, con la pazienza, con la voglia di essere utile. Secondo me si può. Possiamo raccogliere i frutti della nostra semina, prima o poi (ovvio).

Non tutti i vuoti devono essere colmati, ma alcuni vuoti non possono essere ignorati. Mai.

 

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(699) Mappamondo

L’impressione che il mondo stia andando un po’ a farsi benedire è supportata fortemente da tutto quello che del mondo oggi vediamo – più che da quello che sappiamo. Sapere è una parola grossa, vedere è più appropriato perché dalla televisione siamo passati a internet e le immagini e i video ci tengono gli occhi in ostaggio. No, il cuore no, al cuore succede una cosa strana: viene avviluppato nel cellofan. Attutisce i colpi e dimezza la sensibilità. 

Negli occhi si impressiona una gallery spropositata di immagini più o meno in movimento, il nostro cuore non sente come dovrebbe sentire, il cervello si dimentica di funzionare perché è distratto dalle informazioni visive che deve in qualche modo archiviare e… e il mondo seppur vicino, seppure intero, seppur variegato, ci scappa di mano. Rotola via. Non lo sentiamo più, non lo capiamo più, non lo valutiamo più come l’organo che ci permette di vivere. 

Il mondo è fatto di cose e di persone. Cose vive e persone vive. Ricordarlo sarebbe utile e saggio.

Quando smettiamo di considerarlo vivo, il mondo inizia a farci paura. Tutto quello che contiene è come se fosse lì per avere la meglio su di noi. Per difenderci pensiamo che dovremmo sentire meno per assicurarci l’invulnerabilità. E se non ci riusciamo? Ci dobbiamo armare e combattere, ovvio. Combattere chi? Chiunque ci capiti davanti, chiunque ci risultasse pericoloso, minaccioso. Faticoso, logorante e davvero tanto inutile e poco saggio. 

Dovremmo, a volte, evitare di affidarci alla vista e imporci un ascolto minuzioso di tutto ciò che di vivo ci ruota attorno. Dovremmo togliere il cellofan dal cuore e monitorarlo con attenzione per capire quanto può sopportare e di quanto supporto ha bisogno per funzionare meglio. Dovremmo rispolverare le sinapsi e rimetterle in azione, dovremmo rafforzarle per riuscire a sostenere l’ammasso di immondizia che ci viene buttato addosso quotidianamente.

Dovremmo. Ci farebbe male eppure bene. Talmente bene che poi il mondo smetterebbe di farci paura. Inizieremmo a rispettarlo. Bello no?

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(698) Empasse

Non so come prenderla, ma mi conviene prenderla bene. Se la guardo come fosse un problema rischio di non uscirne più. Non è proprio un blocco, ma è sicuramente un fermo. Mi sono fermata. O forse, meglio, ho smesso di avanzare e sto girando in tondo come se il tondo fosse tutto quello che ho. Non va bene, lo so, ma per il momento è tutto quello che riesco a fare.

Ho valutato – o almeno ho cercato di valutare lucidamente, cosa che al momento temo sia fuori dalla mia portata – i motivi per cui mi ritrovo in questa situazione emotiva e l’unico che mi sembra solido sembra essere il seguente: sono stanca.

Ho sempre fatto le cose che amavo fare perché mi facevano stare bene, non mi preoccupavo del dove andassero a finire, mi stava bene anche tenerle nel mio cassetto e non pensarci più. Ecco, mi bastava non pensarci più. Ora è diverso, ora non faccio le cose che amo fare perché a parte a me non fanno bene a nessun altro. Piuttosto assurdo, me ne rendo conto, ma grattando via i primi diecimila strati di stronzate sono arrivata al dunque. Questo dunque, rendiamoci conto, non ha vie di uscita. Niente che dipenda da me può essere messo in atto affinché le cose che amo fare inizino a far bene anche agli altri. Il fatto che agli altri non gliene freghi niente è qui davanti ai miei occhi e non posso cancellarlo neppure passandoci sopra una mano di bianco.

Se non riesco a riprendere la convinzione che basta che faccia bene a me, rischio di abbandonare la lista delle cose che voglio fare perché il presupposto del “voglio fare” non regge più. Forse mi arriverà un segno – tipo un pugno in faccia – che mi farà capire che è tempo di riprendere le cose in mano… immagino di stare qui, in questo stato semi-catatonico, aspettando che arrivi. Ho messo il paradenti in ogni caso, non si sa mai.

Oppure.

Eh. Oppure sono in quello stato di demenza pre-creazione che mi preclude visione periferica e riflessi agili e tra poco bypasserò l’empasse. Già è successo, può ricapitare. Magari non è necessario che mi arrivi un pugno sul naso questa volta per darmi una mossa. Magari domani mattina mi sveglio e ricomincio a fare come se fossi sempre la stessa, come se fossi ancora io.

Seh, va bene. Buonanotte.

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(697) Brindisi

brindisi /’brindizi/ s. m. [dal ted. bring dir’s “lo porto a te (il saluto o il bicchiere)”, cioè “bevo alla tua salute”, attrav. lo sp. brindis]. – [il bere alla salute di qualcuno o di qualcosa] ≈ cin cin, cincin.

Un brindisi me lo farei volentieri. Tra tutte le paranoie e le menate senza senso, tra tutte le incazzature e i problemi da risolvere, tra tutto quello che ho vinto e quello che ho perso, tra tutto quello che ho lasciato andare e quello che ho accettato di portare avanti… insomma, tra tutto questo, a quest’ora avrei potuto essere morta. E invece sono qui. Cincin!

Il fatto che siamo vivi e che lo siamo non per un caso fortunato ma perché siamo degli ossi duri, lo diamo troppo per scontato.

Già il barcamenarsi non è una scelta ma l’unica via, mettici pure il fato e la sfiga, insomma, c’è di che rimanere soddisfatti: vivere non è per tutti. Il fatto che siamo in tanti vivi – il mondo è piuttosto affollato – non significa che sia una cosa da poco. Infatti, ci stiamo talmente tanto addosso che non vediamo l’ora di scagliarci gli uni contro gli altri per farci saltare in aria reciprocamente. C’è da esserne orgogliosi, vero? Una massa di inenarrabili teste di cazzo.

Madre Natura fa pulizia ogni tanto, il punto è che non sceglie i più meritevoli – ovvero i grandissimi infami – per toglierli di mezzo una volta per tutti, lei va giù di grosso: dove piglia piglia. Migliaia e migliaia di persone normali se ne vanno al Creatore e gli infami stanno ancora qui. Non va bene, ma non è che puoi discutere con Madre Natura (né in quanto Natura né tantomeno in quanto Madre). Chi resta resta. Chi resta dovrebbe vivere con gratitudine sparsa e senza condizioni, invece sputiamo su tutto, come se niente avesse valore.

Ci vorrebbe un po’ di coscienza, di tanto in tanto, perché siamo orrendi quando agiamo come se ci meritassimo il meglio e stiamo ricevendo il peggio. La verità fastidiosa è che non ci meritiamo un bel niente che stiamo ricevendo di tutto e di più e tutto insieme perché le cose son così per tutti. E siamo tutti uguali.

Un brindisi a me, quindi, e a chi come me vuole prendersi un bel respiro, vuole guardarsi attorno, vuole sentirsi parte di quel grande miracolo che è la vita, vuole condividere la sorpresa dell’esserci ancora con chi la può capire e può farla sua alzando il calice e con un sorriso affermare: brindo a te.

Cin cin!

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(696) Palindromo

Il numero 696 di questo ***Giorno Così*** rimane invariato anche se letto al contrario. Detto l’ovvio, stavo riflettendo su come io sia solita leggermi correndo all’indietro (nel tempo e nello spazio) per cercare di capirmi meglio. Questa pratica se da un lato m’ha dato più di una soddisfazione, ora sta perdendo la sua carica positiva. In poche parole: mi annoio.

Conosco i passaggi a memoria, mi sembra tutto banale e privo di significato.

Dovrò cambiare tattica. Anziché all’indietro potrei leggermi di traverso. Questa interessante intuizione comporta parecchi problemi d’equilibrio, sono ancora titubante sul da farsi, non vorrei amplificare certe mie deviazioni sinaptiche e non ritrovarmi più – magari pensandomi Marilyn Monroe (mica si possono prevedere le conseguenze di una autoletturatrasversale, eh!).

Un po’ mi dispiace, perché davvero la mia vita letta dall’anno 1972 al 2018 e dal 2018 al 1972 non cambia di una virgola e in questa perfezione di forma mi crogiolo da un bel po’. Certo, non ho un’esistenza da immortalare in un’autobiografia capace di scalare le classifiche di vendita di tutto il mondo, ma conosco persone che hanno avuto possibilità ben più ricche delle mie e quando raccontano di se stessi ti vien voglia di buttarli al macero per quanto siano riusciti a non capire una benemerita mazza riguardo la vita. Le mie persone preferite, invece, sono quelle che hanno capito tanto e senza bisogno di molto e te lo porgono come fosse un dono da niente, con umiltà. Vabbé, ora sto uscendo dal seminato però, ripigliamoci.

Diamo per scontato che cambiando punto di vista, cambiando prospettiva, potrei trovare angoli interessanti del mio vissuto di cui ancora non mi sono presa carico, varrebbe la pena tentare, ma dal basso ci sono già passata, dall’alto ormai è un’abitudine, all’indietro è cosa nota, in avanti è decisamente pericoloso – considerato che il mezzo del cammin di mia vita è stato superato da un po’ e l’idea di aver così pochi anni ancora da vivere non mi mette di buon umore – non mi resta che prenderla in trasversale – come dicevo qualche riga fa. Non so ancora cosa significhi nel concreto, ma mi sono ripromessa di pensarci in questi prossimi giorni per vedere se riesco a venirne a capo.

Non so di tutto questo a voi cosa possa interessare, voi che gentilmente e pazientemente mi state leggendo, ma spero che qualcosa di utile in tutte queste cialtronate voi possiate trovare e magari usare meglio di come sto facendo io.

In ogni caso: grazie.

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(695) Calorie

Tutto quello che di buono esiste al mondo – che si possa mangiare – è un assalto calorico al fisico. Bisogna fottersene per riuscire a godersi la vita, non ce n’é per nessuno. La questione golosità è una cosa che mi tocca sporadicamente e senza attecchire troppo, credo sia una fortuna, ma ciò non basta per influire efficacemente sul mio peso. Nella fortuna la sfiga, come al solito.

Filosofeggiando potremmo anche riconoscere in questa perenne lotta (non di tutti, certo, soltanto di chi si ritrova portatore di metabolismo pigro) la lezione più importante che dobbiamo prima o poi imparare: bisogna fottersene e alla grande. 

Del giudizio di chi ci guarda e apre bocca per dire la sua, e anche del nostro giudizio quando ci analizziamo mortificandoci l’anima. Stare lì a contare, a togliere, a piangerci su, a innervosirci e a bestemmiare contro chi può ingozzarsi senza colpo ferire, non serve a niente se non a farci cadere in depressione. Chiarito questo concetto base – ovvio, ma piuttosto utile – in queste settimane di caldo assurdo mi viene ben facile fottermene. Sul serio, non me ne frega nulla neppure di mangiare, figuriamoci di calcolare le calorie che ingerisco. Certo che sono conscia che tra poco mi cadrà in testa l’autunno e dovrò in qualche modo gestire meglio questa questione, ma sono anche fiduciosa sul fatto che ci riuscirò. Magari non tutto subito, magari non con grandissimi risultati, ma fottermene alla grande e totalmente e senza sensi di colpa, sono sicura che lo potrò fare sempre meglio e con sempre più soddisfazione. Sì, ci riuscirò. Perfettamente.

Augh!

 

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(694) Alieno

Essere un alieno può significare che provieni da un altro mondo, che appartieni a un altro mondo, ma anche che sei refrattario rispetto a qualcosa o a qualcuno: come al solito la lingua italiana si riempie di colore appena la sfiori. Quante volte al giorno ci succede? Centinaia. A tutti per di più. Siamo tutti goffi alieni che si muovono a tentoni e che fanno finta di avere tutto sotto controllo. Balle.

A me piacerebbe tanto incontrare un alieno capace di affermare non-lo-so quando davvero non sa qualcosa. Mi piacerebbe parlare con un alieno che non si vergogna di ammettere che non-può-fare qualcosa o addirittura che non-sa-fare-qualcosa. Sarebbe liberatorio. Non sarei sola in questo pianeta dove tutti sanno tutto e tutti sanno fare e possono fare tutto.

Io no. Ci sono milioni di cose che non so – anzi, miliardi – e altrettanti milioni di cose che non so fare o che non posso fare, eppure vivo. Forse non me lo merito, ma respiro lo stesso, anche se sono lontana dall’essere come vorrei, anche se la gran parte delle mie aspirazioni son finite in cantina e non c’è nulla di che vantarsi. Sono un Essere Umano finito, ho confini precisi e alcuni limiti che non mi sarà possibile superare neppure in cento vite. Pazienza. Non odio nessuno per questo, non c’è nessuno con cui prendersela, neppure chi può tutto, sa tutto, fa tutto e pure bene. Eh! Beati loro. Io no.

La cosa migliore di tutte? Nessuno si aspetta da me grandi cose. A tutti basta la mia normalità, quando ne hanno abbastanza se ne vanno liberamente, per andare a dimostrare altrove che sanno, che possono, che fanno. Magari ne danno annuncio sui social, perché se non lo racconti a qualcuno la questione perde il luccicore. Dal mio angolo alieno osservo: a volte ammiro e altre mi dissocio con fermezza.

Qui da me l’ordinario ha un sapore buono, che sazia, e quando qualcosa di straordinario accade lo si festeggia. Potrebbe non accadere più.

Noi alieni siamo fatti così. Portate pazienza.

 

 

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(693) Piangere

Ci sono cose che fanno piangere, e anche persone che sanno come far piangere. E ci sono almeno mille modi diversi di piangere e un milione di ragioni diverse per cui si piange. Ogni lacrima versata si porta via con sé un intricato garbuglio di sentimenti. Non piangi mai per una cosa soltanto, inizi con una motivazione – certo – ma poi a valanga vieni sommerso da tutto quello che fino a quel momento stava in piedi per miracolo. E quando l’incantesimo si spezza: addio.

Addio nervi, soprattutto.

Io piango quando rido di cuore. Nel senso che anche quando rido piango. Questo fa di me presenza fastidiosa per esempio al cinema: se un film mi piace piango. Fosse anche un film comico, fa niente, io piango. Che poi il mio non sia un pianto becero è un dato di fatto. Piango in silenzio. In un certo qual modo il mio pudore ha la meglio. Decoro innanzitutto, sono pur sempre friulana. 

La questione ha anche un’altra faccia: piango raramente per me. Mi faccio piuttosto compassione in diversi momenti, ma più che piangere per me mi viene naturale ridere di me. Questa cosa mi stordisce. Voglio dire: è una cosa positiva o una cosa negativa? Lo ignoro bellamente. Non lo so proprio, non riesco a capirlo dalle conseguenze che mi porto addosso perché è così da molto tempo e le conseguenze sono diventate parte di me. Forse è un male e sono malata, o forse non sono del tutto fuori di testa perché questa dinamica mi fa bene. Boh.

Riassumendo: piango per gli eventi, per le persone (e a causa di certe persone), piango per le storie che ascolto/vedo/incontro, piango per le cose che mi fanno incazzare. Non piango per me, anche se credo che esistano buone ragioni che lo potrebbero giustificare (un bel pianto ognittanto, mica sempre). Eh. Quindi? Niente, era soltanto per fare il punto della situazione. Facciamo che ora che l’ho scritto lo possiamo serenamente archiviare, ok? 

Bene, buonanotte a tutti e grazie per l’ascolto (e buonanotte anche a me).

 

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