(1060) Palla

Quando sta a te giocare la palla ovviamente le cose cambiano. È tutto nelle tue mani: la tua concentrazione, la tua determinazione, le tue capacità, la tua fortuna (sì, quella ci vuole sempre). Se la giochi bene, non puoi che migliorare, se la giochi male e non ti riprendi dalla delusione autoinferta rischi di schiantarti in un fallimento totale.

Avere una palla da giocare non è cosa ovvia. Potrebbe non succederti mai se pensi che l’occasione ti cadrà magicamente in mano. Conviene darsi da fare. Sempre.

Al di là che nella vita si vince e si perde a fasi alterne, e non è dovuto tanto al talento e alle capacità quanto a una serie infinta di varianti e variabili ambientali che a farne la lista non si finisce più, è anche vero che vincere fa sempre bene e perdere mica sempre. Dipende da come perdi. Ma non è del tutto vero neppure questo, perché se perdi per un soffio ti sale un nervoso che preferiresti esserti classificata ultima piuttosto che seconda a un punto di scarto. Eppure…

La vita non è una competizione a punti, ma a situazioni. Nel senso che se le situazioni che non ti vedono in pole position te le giochi comunque bene, al meglio delle tue possibilità, ti prepari il terreno per una probabile vittoria futura. E allora ci si dovrebbe chiedere: cos’è una vittoria? Uno stagliarsi sopra tutti per far vedere al mondo che sei il migliore, o una gratificazione concreta per un lavoro ben fatto a cui ti sei dedicato con passione? Eccoci. Non lo so.

Sinceramente, non lo so. Ho sempre pensato fosse la seconda che ho scritto, ma poi la realtà – le vittorie celebrate – sono le altre. Quindi una vittoria senza celebrazioni vale niente? Sì, è possibile. Quindi una sconfitta fatta passare per vittoria, celebrata come fosse una grande vittoria, può valere più di una senza celebrazione? Sì, è possibile.

Fatto il giro dell’oca con questo ragionamento del tubo, mi posiziono per giocare la mia palla. Conscia della mia preparazione onorevole, della mia determinazione onorevole, del mio impegno onorevole, della mia fortuna ancora da verificare. Devo però ricordarmi di celebrare, alla fine del gioco, con qualsiasi risultato avrò in mano, o non sarà valso a nulla.

Oppure no?

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(1025) Difesa

S’impara tardi a difendersi dalle parole.  (Erri De Luca)

Giocare in difesa è brutto, stai lì a parare colpi che arrivano random e i nervi saltano da una parte all’altra ad ogni alito di vento. Quindi, quando so che non posso fidarmi, mi allontano.

Certo che so prenderli i colpi, ma dopo un po’ ti stanchi. Non fanno meno male col tempo, fanno più rabbia.

Le cose non dette, le strategie viscide – dove niente è chiaro e non capisci cosa sta succedendo – mi hanno stancata. Prima o poi me ne accorgo e non è che te ne viene in tasca qualcosa, quindi lascia stare. No, non lo dico. Lo penso e basta. Lo penso e mi allontano.

Perché bisogna anche imparare a difendersi, non si nasce già sapendo. Impari con i colpi presi e la cosa più difficile è rendersi conto che non andrà mai meglio, ma che la difesa è necessaria per preservare la tua salute fisica e mentale sempre. Sempre. Credo sia l’unico per-sempre su cui si possa davvero mettere la mano sul fuoco.

La difesa migliore è l’attacco, dicono, e ho imparato anche ad attaccare, ma non riesco mai a essere efficace, manco di cattiveria. Posso però cancellare dal mio presente chi voglio, questo è provato, quando scopro il gioco procedo e via. Un attacco discreto, anche indolore, silenzioso di sicuro. Nessuno se ne accorge, ma io so. E mi basta.

I lucchetti ai cancelli? Sì, ma quelli al cuore pesano di più.

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(908) Biglia

Ogni tanto mi sembra di essere una biglia. Che uno mi può dare un colpo con l’indice ben calibrato dal pollice e zak, parto. In direzione di qualcosa che diventa meta. Quell’uno, credo sia un Essere Superiore che decide di me. Io posso poco. Vengo direzionata e tirata come una biglia. Stop.

Questo potrebbe suonare come una giustificazione, oppure come una resa (del tipo siamo-tutti-in-balìa-del-Destino-avverso), ma ormai dovreste conoscermi, non è così che vivo.

Quello di cui sto parlando è una questione un tantino più sottile, che scivola sotto le cose e che in qualche modo fa loro da tapis roulant per trasportarle altrove. Ci sono centinaia di motivi per cui questo scivolare si rivela come una benedizione per la maggior parte delle volte e, uno dei migliori, è che se controlli tutto blocchi tutto. Le cose hanno una loro energia, una loro frequenza, una loro vibrazione (sono i segreti dell’Universo, insegna Nikola Tesla). Tu sei qui per entrarci dentro e comprendere il gioco, non per pilotarlo.

E ogni volta che ti ostini, ogni volta che trattieni, ogni volta che sistemi e risistemi e sistemi ancora, non fai altro che bloccare l’energia, cambiare la frequenza e disturbarne la vibrazione. Un disastro.

La biglia che va a colpo sicuro sul bersaglio non ha scelta, ci va e basta. La forza con cui viene tirata decide per lei e lei va. Non si gira neppure a guardare chi l’ha tirata, se ne frega, va e basta. C’è un senso in tutto questo, può non far piacere, ma un senso c’è. Soltanto una biglia può capirlo davvero, ma ricordiamocelo che una biglia non può sbagliarsi. Soprattutto se centra il bersaglio. E quando il tiro è sapiente, il bersaglio va giù. E la biglia è lì per questo.

E la biglia lo sa.

 

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(879) Loro

Quando da bambini si inizia a capire la differenza tra me e te, tu e gli altri, io e gli altri, cambia tutto. Loro iniziano a essere in tanti, perché tutto il resto del mondo è “loro”. Come si fa a maneggiare questa enorme quantità? Non si può. In fin dei conti, quando è troppo è troppo. 

Si impara, quindi, a ridimensionare quel “loro” per non farsi portare via dall’enormità. Poi si fa una distinzione: i loro simpatici, che diventano con me un “noi”, e i loro antipatici. Quelli antipatici si guardano con distacco, si tengono a distanza e quando hai le palle girate li usi come pungiball (trad. punching ball).

Così ci sono un sacco di “noi” che non vogliono avere niente a che fare con un sacco di “loro”. Si fa fatica a capire chi è dentro e chi è fuori, anche perché le regole del gioco non sono mai state scritte, si va così un po’ alla selvaggia. Puoi starmi sulle palle oggi (e fai parte dei “loro”), domani mi diventi simpatico (e ti invito a far parte del mio “noi”). Ma non farti illusioni, potrei rispedirti con un calcio in culo tra i “loro” in men che non si dica.

Al di qua della rete (o del muro) le cose possono andare bene o male, ma son cose che si risolvono tra di noi. Sono affari nostri, non loro. Altrettanto fanno loro. Ci si protegge così dai nemici, no?

A volte capita che qualcuno, alzando lo sguardo, si accorga che loro non sono poi tanto diversi da noi. Che la rete avrebbe bisogno di un po’ di respiro e un varco potrebbe essere una buona idea. Un atto di ribellione, un atto di libertà. Rischioso? Certo, rischioso. Ma chi se ne frega. Di qualcosa si deve pur morire. Morire di libertà suona bene. Meglio che morire di schiavitù. Sono già morti in troppi con i segni della schiavitù addosso, sarebbe ora di metterci un “basta” sopra. Perché loro non sono così lontani, non sono così alieni. Perché noi per loro potremmo essere una risorsa, almeno quanto loro potrebbero esserlo per noi. Certo, bisogna saper guardare oltre la rete, oltre il muro, oltre l’odio, oltre la paura.

E chi non ha paura alzi la mano.

Sì, nessuno. Proprio come immaginavo.

Nessuno.

 

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(860) Pedina

Ci si sposta di casella in casella, spesso seguendo il volere di un dado che abbiamo tirato o che qualcun altro ha tirato al posto nostro. No, è più complicata di così la vita, ma in certi momenti pensiamo che tutto quello che possiamo fare sia spostarci di casella in casella seguendo il volere di un dado. Non ho mai capito perché, perché vediamo solo le caselle e il dado forse. Non lo so.

In diverse circostanze sono stata usata come una pedina da spostare di qua e di là, non dal dado, proprio da qualcuno che mi vedeva così, mi pensava così. Siccome è stato sempre brutto, mi sono sempre guardata bene dal riservare lo stesso trattamento a qualcuno. Non ho mai spostato le persone come se fossero delle pedine sul mio tavolo da gioco. Non gioco in questo modo. Ma c’è chi lo fa, continuamente. Pensa di averne diritto, pensa che così facendo ha il controllo, ha il potere, ha la forza per manovrare la vita degli altri in funzione della propria. E i modi in cui si può fare sono pressocché infiniti. Se è quella la tua intenzione un modo lo trovi. Una vittima la trovi. Eh. Va così.

Per stare tranquilli pensiamo che mettere le cose a posto sia l’unico modo per essere felici. Marie Kondo ormai è diventata l’eroina del millennio: “Tenere in casa soltanto cinque libri è un modo per non rinunciare al piacere del libro e non essere sopraffatti dalla quantità di volumi che teniamo in casa”. Che tenerezza! Senti Marie, ti inviterei volentieri a casa mia ma il solo pensiero che tu sia sopraffatta dalla smisurata quantità di libri che ho in casa mi è insopportabile. Resta pure a casa tua. Senza rancore.

Ma siamo impazziti? Si passa dal possesso compulsivo alla rinuncia a qualsiasi forma di possesso, ragioniamo per estremi opposti come se nell’estremo risiedesse il segreto dell’equilibrio. Siamo, emotivamente parlando, il grande fallimento di Dio. Senza criterio. Follia pura. 

E siccome non riusciamo a controllare la nostra emotività vogliamo controllare quella degli altri. Vogliamo ridurli a pedine, da muovere di casella in casella, da spostare a nostra comodità così da non darci fastidio, così da farci divertire, così da rendersi utili ai nostri fabbisogni. Buttiamo via le persone che sfuggono alla nostra mania di controllo, o cerchiamo di cambiarle perché così come sono non vanno bene. E giochiamo. Da soli. Ma giochiamo. Bravi bambini psicopatici. 

Evviva Marie Kondo.

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(828) Guinzaglio

Serve a portar in giro il cane. Nel senso che lo porti dove vuoi tu. Lui può impuntarsi e farti bestemmiare in aramaico antico se non vuole muoversi, ma – dato di fatto – sei tu che hai il potere e alla fine vincerai. Lo porterai dove decidi che dovete andare. Non glielo chiedi, glielo imponi. Se lui è docile ti seguirà senza fare storie, altrimenti diventerà un fastidio che sistemerai applicando il tuo ruolo di capobranco.

Stiamo parlando di uomo/donna vs cane. E basta.

Non puoi mettere il guinzaglio a un uomo o a una donna, gli Esseri Umani non vanno portati in giro a fare pipì. Loro si scelgono liberamente dove farla, che ti piaccia o no. Pensare che un uomo/donna possa avere in mano il potere di decidere dove un altro Essere Umano deve andare o stare è aberrante. Se si basano le Leggi su questo principio si evitano idiozie e abusi piuttosto importanti per la salvaguardia della dignità umana. Questo è quello che penso.

Dal macro al micro: mi è capitato più volte di essermi ritrovata al guinzaglio, senza manco accorgermi. Ovviamente ho fatto ben altro che impuntarmi per dare fastidio, ho proprio spezzato la corda a morsi e me ne sono andata dove ho creduto bene di andare. Questo perché non sono un cane, anche se non sono proprio sveglissima e ci sono cascata.

Il punto è che ci si casca. Basta che affidarsi alla guida di qualcuno privo di scrupoli, privo di sensibilità, privo di buonsenso, privo di qualsiasi umana accortezza e track, vieni tirata da una parte o dall’altra da un dannato guinzaglio. Che tu sia uomo o donna, adulto o bambino, intelligente o stupido, non fa alcuna differenza, basta essere in buonafede e il rischio si concretizza. Bisogna stare attenti.

Ho intenzione di reimpostare il gioco, ho intenzione di togliermi il collare (da quanto tempo ce l’ho su, ‘sto maledetto?!) per rendere l’acchiappo più difficile, ho intenzione di non aspettare di vedere dove mi stanno portando prima di dare un morso alla mano sciagurata e andarmene via. Non ho più tempo da perdere, né pazienza da impiegare per i giochi idioti di qualche arrogante giocherellone che si crede furbo, più furbo di me.

Non sono un cane. Sono una gatta. Sia chiaro.

[ma se fossi un piccione saprei benissimo su che testa focalizzarmi]

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(726) Altezza

Non è che soffro di vertigini, è che l’altezza – se la guardo dal basso – mi disorienta. Dall’alto la gestisco, dal basso no. Questo dà il quadro perfetto di come io sia fatta al contrario – e in un certo senso saperlo può essere pure rassicurante. 

Non ho mai pensato di dover scalare un’ipotetica montagna o un grattacielo per arrivare chissà dove nella vita. Non ci ho mai pensato ma in fin dei conti è quello che ho fatto. Non ho fatto altro che arrampicarmi, santidddio! Una sorta di freeclimber drogato di adrenalina. Presente. Ecco spiegato perché la questione del No Limits e degli sport estremi non mi tocca minimamente, già do e non mi serve altro.

Dall’alto si vede meglio, le cose si ridimensionano. Se plani sulle cose, queste non ti possono crollare addosso – e già qui ci metterei la firma. Quindi quello che faccio è un quotidiano esercizio per restare in quota. Non per essere sempre al top ma per evitare di perdere i punti di riferimento e ritrovarmi a girare a vuoto tra sensi unici, rotonde e incroci inverosimili. Ammetto che ci riesco abbastanza, mai perfettamente, ma abbastanza a lungo e con una certa costanza. Questione di allenamento, senza dubbio. E c’è anche un altro elemento da tenere in considerazione: bisogna non aver paura di cadere. Contando sbucciature e contusioni che mi hanno accompagnato negli ultimi quarantasei anni, cadere non è più una paura per me è una certezza. Io cado. Cado spesso. Cado anche frantumandomi, altroché, quindi lo do per scontato e anziché temerlo me lo aspetto. Quando non cado mi preoccupo: com’è possibile?!

Un paio di volte son precipitata mentre stavo davvero in alto – con l’umore intendo – e forse il mio ironico cinismo è nato per evitarmi la terza volta. Me ne sono bastate due, grazie, la terza me la posso risparmiare – so già quanto male fa.

Quindi, ricapitolando: meglio in alto che in basso. Si cade comunque, inutile procedere con paura, magari dei paraginocchia e un paracadute possono aiutare. Non so davvero se basti un po’ di filosofia e due attrezzi tecnici per affrontare i prossimi mesi, ma visto che non ho altro per le mani è così che procederò. Ci sono tante cose che spingono per entrare in gioco, chi sono io per vietare loro l’entrata? Eh.

Ai posteri l’ardua sentenza.

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(725) Testa

Se ti parte la testa son cazzi amari. In tutti i sensi. Conviene tenersela stretta e comunque attaccata al collo. Sarà pure un’affermazione banale, ma tutti la perdono prima o poi e non tutti riescono a ritrovarla, perciò ricordarci dei cazzi amari che ci siamo smazzati a suo tempo – e ringraziare per essere riusciti a ritornare interi – non è poi così banale. 

Perdi la testa quando sei in urgenza di lucidità e quella s’è data perché le circostanze sono tumultuose. Non riesci a controllare quello che ti sta cadendo addosso e neppure te stesso, indifferente che si tratti di catastrofe naturale o innamoramento, le conseguenze sono le stesse: fai e dici cose che non stanno né in cielo né in terra.

Quando la ritrovi, la testa, ti auguri di non aver detto e non aver fatto quello che invece hai detto e fatto e speri che i testimoni superstiti siano stati colpiti da amnesia totale e non tengano memoria alcuna di te sul luogo del misfatto. Non è mai così. Ci saranno sempre foto e video ad immortalare certi momenti, che tu lo voglia o no.

Perdere la testa non è un gioco, non lo fai apposta, ti capita e basta. Non è nelle tue intenzioni, vorresti proprio scansarlo, ti capita e basta. E per quanto tu possa evitare di infilarti in situazioni maledette, non sei mai al sicuro. Certe cose non sono preannunciate da messaggeri dell’Olimpo, ti piombano addosso e ti atterrano. E basta.

E non ti sarà sufficiente l’intelligenza, la sensibilità, la compostezza, l’indifferenza e neppure la saggezza quando ti ci troverai in mezzo, in quel momento sarà la disperazione a spingerti oltre per farti sopravvivere. Sì, anche quando ti innamori.

Detto questo: si salvi chi può.

 

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(714) Decantare

E poi ci sono quei verbi che ti lasciano un po’ di stucco. Decantare le qualità del tuo ristorante preferito e lasciar decantare il giudizio per non mancare di obiettività. Usato nel primo modo enfatizza lo slancio e nel secondo modo posa a terra lo slancio per la riflessione e la rivalutazione della faccenda. Eh.

Ci sono periodi in cui pratico la decantazione e sembra che il mio cervello sia partito per altri lidi. Funziono per metà. Succede perché tutto quello che ho assorbito vivendo ha intorbidito le acque del mio delicato ruscello mentale e non ci capisco più niente. Ma non è uno stato che riconosco coscientemente, quindi ho sempre paura che il rincoglionimento sia definitivo.

Fino a ora m’è andata bene. Speriamo il gioco regga ancora per un po’.

La parte interessante arriva quando l’acqua ritorna quasi limpida e il vederci attraverso mi fa riprendere il nervo giusto. Ecco: penso di trovarmi in quel preciso momento. Non è la prima volta, ma questa volta vorrei proprio scriverlo perché è una sensazione intensa e gratificante e mi dispiacerebbe dimenticarmela alla prima incazzatura in programma – che potrebbe verificarsi tranquillamente anche tra cinque minuti a mia insaputa.

Non so come spiegarlo, però, perché spesso le parole lasciano troppo spazio vuoto e invece mi piacerebbe saperlo colmare. Sì, è una sensazione che potrebbe essere paragonata a quella di quando hai le mani sporche e te le lavi con un sapone profumato. Ti cambia l’umore, ti cambia i pensieri. Come nuova. Ecco, in questo momento mi sembra che a vederci meglio, capendo meglio, gestendomi meglio, io abbia iniziato un nuovo periodo della mia vita. Non so ancora dove mi porterà, ma lo riconosco come inizio e posso abbracciarlo come tale. Perché? Semplicemente perché mi fa stare bene. Anche se sono stanca morta, anche se andrei a Bali a farmi una vacanza, anche se domani le cose da fare non saranno mille ma duemila. Pazienza.

Questo è un inizio vero, non dev’essere facile perché nessun inizio è facile, dev’essere intenso. E questo inizio lo è.

Un bel respiro e via!

 

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(700) Frutto

Il risultato della mia attività mentale, spesso, dà un + o un – (raramente un x e di tanto in tanto un : ) questo riduce le possibilità d’azione e mi costringe a valutare fin nel dettaglio la rosa delle scelte a mia disposizione. Non è piacevole, non è comodo, non è facile, eppure un allenamente di questo tipo ti prepara bene non solo a quello che sarà ma anche a quello che è.

Il guadagno che ottengo lo re-investo e dopo decenni sto vedendo dei risultati. Dove voglio andare a parare? Semplice: prima semini e poi raccogli. Concetto di una banalità sconcertante, ma che molti giovani oggi pensano di poter ignorare soltanto perché loro sono già bravi, già pronti per la conquista del mondo. Lo so che quando parlo così posso essere scambiata per una ottuagenaria brontolona (chi ve lo dice che io non lo sia davvero?), ma com’è possibile che il frutto dell’esperienza sul campo sia ritenuto soltanto un dettaglio? Il sapere dei libri è una base fondamentale per affrontare il percorso lavorativo, ma non si ferma tutto lì… è lì che tutto inizia! 

Altri scopi, altre motivazioni, altre ambizioni, altri campi da esplorare. Tanto altro. 

E si prendono di nuovo in mano i libri, sì perché non si finisce mai di imparare, e al contempo si fa. Farefarefarefarefarefarefare… con la testa e con il corpo, si fa senza scuse, senza giustificazioni, senza paraocchi, senza perdere un colpo. Prendi in mano l’orgoglio e lo usi per non farti calpestare non per smettere di imparare. Quello che sai già non basta, non basta mai. Sai solo una parte, una piccola parte, il bello deve ancora venire, fidati. Fidati. 

Gioca d’umiltà. Fidati. Gioca pulito. Fidati. Gioca per ampliare la tua conoscenza e vedrai che vincerai. Non puoi che vincere partendo dai giusti presupposti. Quando guardo certi giovani talenti e li confronto con la me adolescente di un tempo vedo il salto quantico che la nuova generazione ha saputo compiere – suo malgrado, temo – e al contempo il vuoto di significati con il quale si trova a combattere. Una desolazione. Da dove iniziare per arginare il danno e aiutarla a colmare il vuoto? Io credo fortemente nell’ascolto e nella presenza, anche quando sembra impossibile, anche quando sembra una perdita di tempo, anche quando il feedback è mortificante. Col tempo, con la pazienza, con la voglia di essere utile. Secondo me si può. Possiamo raccogliere i frutti della nostra semina, prima o poi (ovvio).

Non tutti i vuoti devono essere colmati, ma alcuni vuoti non possono essere ignorati. Mai.

 

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(672) Ovvietà

Ultimamente ho cambiato idea: scansare le ovvietà è un gioco pericoloso, bisogna invece abbracciarle e diffonderle. Perché? Perché l’ovvio viene magistralmente ignorato dalla gran parte delle persone. Ci si sente superiori, talmente superiori che lo si cancella, si fa come se non esistesse, come se se ne potesse fare a meno. La conseguenza di questa scelleratezza è che si fanno cose e si dicono cose che partono da presupposti meravigliosamente fantasiosi e creativi, ma totalmente sballati. Come usciti freschi freschi da un rave di tre giorni sull’isola di Mokua con funghi allucinogeni chimicamente addestrati a spappolarti il cervello.

Certo, facciamo finta che ogni ovvietà sia frutto di un cervello troppo basic per noi, facciamo i fenomeni e raccogliamoci nel delirio.

In un solo colpo ci facciamo beffe dell’esperienza (è lei che ti permette di dare per scontato certe ovvietà), del buonsenso (che ti fa guardare alle conseguenze con occhio critico per mantenerne memoria), della cautela (visto che è ovvio, che lo sappiamo, e decidiamo non sia importante, tanto vale buttarsi a testa in giù nelle cose). Siamo un vero, abnorme, disumano disastro. Sul serio.

Noi voliamo troppo in alto per soffermarci sulle ovvietà. Noi capiamo ancor prima che l’ovvietà si estrinsechi su quel che sarà. Noi vediamo più lungo, sentiamo meglio, annusiamo le situazioni  ben oltre lo standard che affonda i comuni mortali. Noi siamo troppo avanti.

E potrei fare una lista infinita di ovvietà che dovremmo recuperare, ma sono davvero stanca e il caldo mi sta uccidendo, quindi la evito. Ovviamente ognuno di noi ne ha una di lista e ovviamente riprenderla in mano non ci farebbe male per rivalutare di tanto in tanto l’opportunità di ciò che vi abbiamo inserito. Ovviamente nessuno lo fa, ovviamente sarebbe una perdita di tempo, ovviamente noi sappiamo sbagliare meglio e senza bisogno di aiuto.

Ovviamente tutto questo non ha alcun senso e, ovviamente, non ce ne frega niente.

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(629) Fuori

Fuori può essere accompagnato da una moltitudine di piccoli e grandi concetti che vanno a rafforzare il suo stato: sei fuori quando non sei dentro. Eh, sembra facile, ma forse non lo è.

Fuori dalle regole, fuori dal mondo, fuori porta, fuori serie, fuori dal seminato, fuori fuoco, fuori sede, fuori dal coro, fuori orario, fuori tema, fuori di testa, fuori casa, fuori controllo, fuori dal tempo, fuori dal comune, fuori strada, fuori posto, fuori classe, fuori servizio… fuori dalle balle! – è un’esortazione forte e richiede sempre il punto esclamativo.

Il mio stato normale è proprio questo essere fuori, ed è una cosa sottile sottile sottile, che più cerchi di tenere in mano e più ti sfugge. Ho pensato molto al fatto che volevo venirne a capo, volevo capire, volevo trovare delle ragioni, volevo volevo volevo. Forse troppo.

La mia fortuna è che certe volte mi stanco di essere ostinata e lascio andare. No, non è che lascio perdere, mi sale il nervoso se penso a tutte le cose che ho dovuto lasciare andare o addirittura allontanare da me, lasciare perdere non è nelle mie possibilità – il rimurgino sì, quello è uno sport in cui do il meglio di me stessa. Ripenso a quello che ho lasciato andare e mi dico che avrei potuto fare diversamente, magari mi sono persa un’occasione. Stronzate, lo so benissimo, ma per un istante ci credo davvero e mi sento un’inetta. Poi passa, ma non passa mai il mio essere fuori.

Fuori tiro, fuori dagli schemi, fuori rotta, fuori gioco, fuori luogo, fuori dai binari. Fuori. Nel mio essere fuori raramente lo sono in compagnia. Ma proprio rarissimamente. A chi sta fuori come me la compagnia non fa sempre bene, il silenzio invece sì. La compagnia ideale è quella che non ti obbliga  a rientrare, quasi fosse un dovere che cerchi di schivare. Ma non è così semplice. Se stai fuori soffri il vento e il sole e la pioggia e la tempesta e non si smette mai di cercare rifugio. E quando lo trovi dura poco. Stare fuori è una condizione dell’Anima e l’Anima non si cambia, ma l’Anima – se l’ascolti – ti cambia.

Non è che è sia meglio stare fuori che stare dentro, non lo potrei mai affermare perché non so come si sta dentro. So solo che va bene comunque, basta saperlo, basta potersi vivere la propria condizione con un certo equilibrio e onestamente.

E poi c’è chi finge, in quel caso non c’è proprio niente da dire.

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(583) Sudoku

La vita è come una partita a Sudoku, l’ho capito oggi. Ci sono dei numeri (dall’1 al 9) per il Sudoku e anche per la vita di ognuno di noi, bisogna cercare di incastrarli in un quadrato 3×3 contenuto da un altro quadrato 3×3 in modo che non si ripetano (errare humanum est, perseverare autem diabolicum).

Insomma: c’è una griglia grande che ne contiene nove piccole da cui non si scappa, ci sono un numero finito di numeri che si vanno a ripetere – ma non all’interno di ogni mini-griglia – e finché non hai capito dove mettere mano vai a scontrarti con la dura realtà del non-quaglia. Non serve che ti giustifichi, che spergiuri che non capiterà più, che d’ora in poi ti impegnerai al massimo. Se non quaglia, non quaglia. 

E ci passi le giornate a cercare di capire dove sta l’inghippo, ma non è detto che tu lo trova. Mentre ci provi, però, ti convinci sempre di più che l’inghippo c’è e che sta proprio sotto il tuo naso e che prima o poi lo potrai acciuffare.

Per la cronaca: oggi l’ho acciuffato. Voglio dire che ora so come risolvere il maledetto Sudoku aggrappandomi a un puntello, ora lo so. Eppure… non funziona ogni volta, c’è sempre qualcosa che mi scappa. E non ho intenzione di mentire dicendo che fatta una volta è fatta per sempre, ma per me questo è il nuovo inizio. So che come sono riuscita a farcela di tanto in tanto con questo stramaledetto gioco, così ce la farò di tanto in tanto anche con la mia vita. Perché ci sono vicina, solo a un passo, so che sto per raggiungere il senso di questo inghippo e che, una volta trovato, riuscirò a giocare meglio al gioco della vita. Magari anche a vincere, chi lo sa!

[per la serie: la speranza è l’ultima a morire]

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(576) Espediente

In qualche modo si deve pur fare, in qualche modo si deve andare avanti. Le persone creative, quelle che riescono a raccontarsela bene e sanno inventarsi accorgimenti ad hoc per superare il giorno e la notte e ritrovarsi qui il giorno seguente, sanno come fare. Chi non ne ha bisogno perché ha una vita soddisfacente, può impegnarsi nel raggiungimento della felicità. A ognuno la sua sfida. Qual è la migliore? Mah.

Ci vuole anche un po’ di fortuna, come negarlo, ma la fortuna in mano a un idiota si può trasformare in rovina o può rivelarsi inutile, quindi guardare alla fortuna con intelligenza aiuta.

Superare i giorni e le notti a suon di espedienti, però, logora e toglie piano piano la gioia dal petto. Bisognerebbe provarlo per capire esattamente come si sta, ci sono persone che dovrebbero davvero provarlo e farlo nelle condizioni peggiori che esistano perché conoscendo soltanto l’opulenza le lezioni non le imparerai mai, perché quelle lezioni non ti toccano. Ci sono fantocci di potere che dovrebbero trascorrere anni di miseria prima di meritarsi un pallido risveglio. Ma questi sono dettagli filosofici perché quei fantocci sanno come manovrare la fortuna e sanno farsi forti della miseria degli altri. Un gioco già deciso, già vinto, già fatto e per nulla divertente se sei gli altri.

E qui, però, si potrebbe anche parlare di condizioni, di premesse, di presupposti che ritornano sempre al concetto di privilegio e quasi mai di merito. La Giustizia è un’idea che non ha nulla a che vedere con la realtà, lo sappiamo bene.

Se volessimo, invece, ritornare agli espedienti allora potremmo approfondire il discorso cercando di rispondere a una domanda semplice: che limite ci poniamo? Proporzionale al bisogno? Alla disperazione? Alla sete di rivalsa? O di vendetta? Eh, sì, ce n’è per tutti i gusti e per tutti gli scrupoli. Certo che se è vero che noi siamo il frutto della fortuna che abbiamo saputo sfruttare, allora cadono le regole del bene e del male e anche quelle del pudore e della vergogna. Un gran casino da cui non si esce più. A pensarci m’è venuto mal di testa.

Da qualche tempo, molto tempo in verità, l’espediente che funziona meglio con me è quello di pensare che andrà meglio, che è solo una questione di tempo e andrà meglio. Una sorta di speranza travestita da traballante fiducia in quel modo strano che ha la vita di darti qualcosa, quel tanto che basta per non abbandonarti a te stesso finché ce n’è.

Come canta Ligabue, sì. Finché ce n’è.

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(431) Alto

Guardare le cose dall’alto ti fa sentire potente, una visione che solo gli Déi possono avere. Bisogna fare uno sforzo d’immaginazione, mettersi per un istante là sopra e adeguarsi a quello sguardo, a quel guardare. Lo spettacolo potrebbe non essere esaltante, ma la dinamica della situazione si espliciterebbe nell’immediato lasciandoti di stucco. Bam.

Come pedine ci muoviamo, come pedine mangiamo e siamo mangiati, come pedine scansiamo o siamo saltati, come pedine raggiungiamo – forse – l’altro lato guadagnandoci il trono. Soltanto una partita a disposizione, che può essere poco o tantissimo, dipende da chi ti si oppone.

Se c’è un significato in tutto questo dall’alto non lo si può capire. Non partecipi ai maremoti emotivi, guardi distaccato ciò che accade e trovi i flussi energetici che il movimento tattico alimenta o rallenta o inverte o blocca o tutto o niente. L’osservazione fredda, di questo tipo, ci aiuta ogni volta che siamo travolti dagli eventi, quando siamo sbattuti a destra e a manca e non abbiamo più punti di riferimento. Fermati – bloccati proprio – fai un respiro profondo, salta con la mente là sopra e guarda. Goditi lo show.

C’è quasi da ridere vero? Adesso capisci meglio l’intero Olimpo, vero? Ok, torna giù e agisci di conseguenza: prendi sul serio solo il gioco e non gli accadimenti. Il resto passa, perché deve passare, sono le regole del gioco.

Baby.

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(194) Password

Mi sono accorta, con grande divertimento, che da molto tempo sto usando una password che mi permette l’accesso a luoghi privati che non mi appartengono ma di cui mi posso prendere cura – e farlo per bene – senza farmi notare.

Bellissimo.

Allo stesso tempo, mi sono accorta che ho impostato una password decisamente a prova di bomba affinché nei miei luoghi privati possano avere accesso solo un certo tipo di persone. Persone che senza che io gliela sveli, questa stessa password ce l’hanno già dentro – nel proprio DNA – e naturalmente ne fanno uso. Anche e soprattutto inconsapevolmente.

Bellissimo anche questo.

Lo consiglio a tutti: createvi delle password e usatele con criterio, la vita diventerà un gioco di meraviglia e gioioso calore. Davvero.

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(165) Carte

Tempo fa – molto tempo fa – pensavo che uno nascesse con delle carte da giocarsi e che la partita si risolvesse in una mano soltanto. Ero convinta di essere fregata, avevo delle carte veramente pessime.

Avevo frainteso la questione: ci sono più mani da giocare e le carte vengono ridistribuite più volte (certo, un po’ alla cavolo – bisogna dirlo) per offrirti nuove possibilità di sfangartela.

Il punto è, però, che se non impari a giocare, puoi anche avere le carte migliori del mondo ma non te ne accorgerai mai. L’imparare occupa gran parte della nostra vita e il continuo cambio di carte può portare all’annichilimento. Bisogna imparare e bisogna capire come gestire le carte. E maneggiare dignitosamente la tensione del gioco. E leggere meglio volti e ambienti per intuire eventuali mosse e bluff.

Dimenticavo: si gioca per vincere, non per evitare di perdere o perdere troppo.

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