(1084) Crepuscolo

Scende la luce e scende il giorno che si corica sul selciato aspettandosi un po’ di silenzio. Ma il silenzio parla comunque, specialmente a chi non ha voglia di ascoltare. E il silenzio parla di scelte fatte e non fatte, quelle azzeccate e quelle che sono state un disastro. Le scelte disastrose son quelle che fanno più casino, riducono il silenzio in briciole.

Quindi una sta lì ad ascoltare e si arrende al fatto che i conti non tornano, che dovrebbe stare bene e invece no. E si domanda perché no. E comincia a scandagliare il passato e trova tutte le magagne del caso (siamo tutti pieni di sporcizia nascosta sotto il tappeto che dovrebbe scomparire e invece si sedimenta). E non è che hai sempre voglia di star lì a pulire, è sceso il giorno anche per te e tutta la stanchezza del Creato.

Non si sa il perché, ma è al crepuscolo che la polvere si alza. Aspetta di avere tutta la tua attenzione per materializzarsi davanti ai tuoi occhi che si stanno chiudendo ben sapendo di non poter avere riposo. Le cose si squagliano assieme alle motivazioni e ti rimangono in mano tristi rimasugli di conseguenze. E che te ne farai mai di tutta quella roba? Boh.

La si mette sotto al tappeto, ovviamente. Strato su strato. Potrai mai perdonartelo? Il tuo essere quella delle scelte sbilenche, delle motivazioni da torero, delle posizioni granitiche su pavimenti scivolosi. Potrai mai perdonartelo? Al crepuscolo puoi. Sì, perché ne hai piene le palle di giudicare ogni pensiero e ogni passo che hai fatto nel corso di tutta la tua esistenza e meno male che la memoria ti oscura buona parte del vissuto altrimenti non ne usciresti viva.

Ecco: l’intenzione è di uscirne viva. Una volta focalizzato l’obiettivo si fa in fretta a prendere una direzione e – senza guardarsi troppo indietro – si taglia diritto per di là.

Se’… ti piacerebbe. Dai, non ci credi neppure tu. E smettila di ridere!

 

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(1014) Amarezza

Che colore ha l’amarezza? Un brutto colore, verrebbe da dire. O forse è il miscuglio di tanti colori, messi alla rinfusa, che si fondono e si confondono e perdono i propri confini. L’occhio scombussolato non capisce più nulla e ti schianti sul divano aspettando che ti passi.

Ma non passa.

Bisognerebbe trovare una cura per debellare questo maledetto sentimento, ma essendo tale non è labile, rimane ancorato in te e ci resta. Testardo, sordo e bastardo. La chimica non lo scalfisce, la meditazione gli fa il solletico. Il bastardo non molla. È un sentimento, è lì per restare.

Allora bisognerebbe agire contro tutto ciò che ti suscita amarezza, combattere contro chiunque, e qualsiasi cosa, osi aprire in te quella finestra maledetta che non si richiuderà mai, nonostante il tempo e le tempeste. 

E l’amarezza non ti fa piangere, non ti fa urlare, non ti fa sfogare, non ti fa sputare il dolore. Ti consuma. Punto.

Certo che ci può mettere una vita a farlo, ma lei ha tempo perché si mangia il tuo tempo e non si fermerà. 

C’è un modo per rallentare l’inesorabile processo? Sì. Riderle in faccia. Si fa fatica, ma si può. Ridere di quello che è stato e di quello che è. Ridere di quel che se ne è andato e di quello che non se ne vuole andare. Ridere di te. Che ti lasci incastrare da un sentimento da niente, nato chissà perché e cresciuto chissà come, e che pensi sia più forte di tutto. Ma che forte non è.

Tu sì, invece. Sei ancora qui. Giusto?

 

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(997) Amicizia

Nella conoscenza e nella vicinanza reciproca si costruiscono anni di amicizia, bisogna volerlo e non per calcolo, solamente perché in quel cammino insieme ci troviamo del buono. E nel tempo cambiano i dettagli, ma il tempo crea una sorta di bolla dove si mantengono ricordi condivisi e piccole altre cose che manco serve dire.

Trovarsi una sera a un tavolo e ritrovarsi vicini, per quel cammino che è stato mantenuto vivo, non è un caso. E ridere delle debolezze, degli errori, delle idiosincrasie, degli azzardi, delle volte che si è riso o che si è pianto, insieme anche nelle distanze normali del vivere, è prezioso.

Accogliere pensieri che sono anche spinosi senza per questo sentire il bisogno di difendersi, credo sia un piccolo miracolo. Ci si basa sull’affetto che ha resistito e che in un barlume di lucidità sai che resisterà.

Ridere insieme: ogni volta che succede le anime si toccano senza farsi male. Un istante basta per sempre.

Ci sono passaggi disconnessi che a volte rendono tutto più faticoso, ma non può essere questo che allontana o respinge. Credo che sia forte la ricostruzione che facciamo del nostro sentimento, il luogo che ci impegniamo a curare perché sappiamo che se lo trascuriamo lo perderemo per sempre. E ci sono cose che si perdono – anche per sempre – è vero, ma quelle davvero importanti causano una mancanza che non viene mai più colmata. E si allarga e si allarga…

Invece, quando ci si trova a un tavolo e nell’ascolto si sorride, sottolineando con ironia già ben collaudata i momenti salienti di ogni racconto, si ricostruisce il passato e si rinsalda il presente, sapendo che si sta contribuendo ad assicurare al futuro un piccolo miracolo come questo che non si dissolverà facilmente.

Il sentimento così resta. Saldo e sfrontato.

Un piccolo miracolo.

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(892) Top

La maggioranza delle persone ambisce a raggiungere una posizione dove la visibilità sembra giocare un ruolo fondamentale. Essere visibili è l’ossessione di quest’ultimo decennio. Non è importante il motivo per cui lo sei, l’importante è che lo sei. Devi essere il Top.

Una pressione non indifferente, devi inventartene una al giorno per riuscire a mantenere il tuo Top, perché la concorrenza è considerevole e anche sconsiderata.

Avere a che fare con persone che alimentano ambizioni come questa è sempre un gioco a perdere, bisogna passare la mano e farli giocare da soli. Almeno, io ho sempre fatto così e non me ne sono mai pentita. La questione non mi tocca particolarmente se non per il fatto che quando mi accorgo di essere presa nella rete devo ingegnarmi per sgattaiolare via. Un fastidio che subisco.

La visibilità è una brutta bestia, ti fa mettere da parte scrupoli e pudore e così nudo ti aggiri di quartiere in quartiere a mendicare attenzione. Povero te. Essere al Top, poi, è una di quelle partite di cui non puoi garantire il risultato: dipende dai giocatori in campo, dipende dalle tue condizioni fisiche e da quelle del tuo avversario, dipende dal meteo, dipende da quanto è tondo il pallone. Un calcolo delle probabilità approssimativo non risolve. Un terno al lotto, insomma.

Nella lista delle mie priorità, essere visibile a tutti ed essere al Top non ci sono mai state come voci da flaggare. Pigrizia? Modestia? Distrazione? Massì, mettiamoci sopra anche un chilo di patate e la spesa è completa. Condirei con un mezzo litro di disinteresse puro e archiviamo tutto.

Tirarmi da parte non è mai stato un problema, farlo sempre in tempo lo è stato (manco d’agilità, probabilmente). Ho imparato credo. Non benissimo, ma ho ancora margine di miglioramento. Prima di raggiungere il Top ne ho di scalinate da fare e non sono neppure convinta che le farò tutte. Appena vedo che ne ho abbastanza mi fermerò. Controllerò il vento. Guarderò l’orizzonte e riderò della visibilità che ho ottenuto, mentre volevo soltanto rifugiarmi in un angolo a scrivere.

Eh. Per come va la vita, certe volte, ci sarebbe da tirare giù le ostie.

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(821) Famiglia

Dovrebbe essere il nostro rifugio, il luogo prediletto, dove poter essere noi stessi sicuri di essere accolti in ogni momento e accettati in ogni circostanza. Dovrebbe, ma non tutti sono così fortunati. Io lo sono.

In famiglia si impara a relazionarsi con la gerarchia, con le regole, fondamentali passi per inserirsi in società. In famiglia si impara a dosare il linguaggio, a mitigare il nostro comportamento, a chiedere scusa e ad accettare le scuse di chi ci ha ferito (più o meno volontariamente). In famiglia si impara la compassione, si assorbono valori come il rispetto e persino la stima. Si fa i conti con la nostra capacità di comprendere gli altri e noi stessi, di capire le situazioni, di risolvere i problemi e chiedere aiuto, oltre che dare aiuto.

In famiglia si impara a stare ognuno al proprio posto, specialmente a tavola, a sistemare le proprie cose in modo che non diano fastidio agli altri, a pulire quello che altri hanno sporcato come gli altri puliscono quello che noi sporchiamo. In famiglia si impara che a un certo punto puoi anche urlare e far valere le tue ragioni quando pensi che ti si sta facendo un torto. Non rischi l’amore di nessuno, non rischi botte né umiliazioni. Al massimo qualche broncio per qualche settimana. quando particolarmente pesante ci sta pure la punizione a tempo determinato.

In famiglia impari a ridere assieme agli altri e non alle spalle di qualcuno o a spese di qualcuno. In famiglia impari ad ascoltare e a tenere la bocca chiusa quando i grandi parlano. A volte devi dire signorsì, altre devi metterti in tasca l’orgoglio, la pigrizia, l’indolenza. Così si fa quando si vive insieme, ci si vuole bene, ci si guarda le spalle gli uni con gli altri. Si fanno tanti errori, vero, ma mai così definitivi da ritrovarsi soli.

In famiglia ci sono sorrisi e abbracci, anche non detti, e ci sono spesso perché l’amore è fatto di questo. In famiglia va così, non è sempre uguale, ci sono alti e bassi e giorni proprio storti. In famiglia si vive così, un po’ si programma e un po’ si improvvisa, e si sbattono le porte, si rompono le palle e le si riattacca per quieto vivere. In famiglia c’è sempre un mondo, composto da tanti mondi, che si trasforma cambiando colori oltre che stagioni.

Le famiglie sono così. Quando non sono così iniziano i guai.

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(786) Caricatura

Spingersi oltre per forzare una convinzione che non ci serve più, che forse non ci è mai servita, ma che ora si rende con evidenza nel suo peso e nel suo carico. Senti che non va bene, così non va bene, non è mai andato bene ma per qualche motivo che-dio-solo-sa-e-forse-neppure-lui ti eri fatta andare bene. A cosa stavi pensando? Che cosa ti aspettavi? Che diavolo pensavi potesse accadere di diverso? Che film t’eri fatta, santo-di-un-dio?!

Ma che ne so. Davvero che ne so.

Credo sia soltanto una questione di carico. Bisogna caricare, forzare l’immagine fino a distorcela, fino a farla deforme e orrenda e ridicola, soprattutto ridicola. Anche quando non ti viene da ridere. Anche quando ti viene solo da tirare calci. Anche quando hai voglia di andartene, di mollare quella dannata situazione e metterci una pietra sopra. Un masso sopra, meglio.

Quindi, considerato che la vedi arrivare da lontano ‘sta fine, perché non la acceleri? Bella domanda.  N-O-N-L-O-S-O. Se lo sapessi non starei qui a scrivere, non mi servirebbe scrivere se già sapessi i perché e i percome. Serve ripeterlo?

Aspetto perché voglio vedere fin dove si arriva. Aspetto perché voglio sperare che non serva finire. Aspetto perché vorrei non dover finire. Perché a forza di finire ci si fa il vuoto attorno e nel vuoto mi viene mal di testa.

Ma che ne so. Davvero che ne so.

So cosa faccio per finire: spingo e forzo le immagini finché non si trasformano e acquistano la loro reale identità. Le guardo e le digerisco. Ed è finita, da quell’istante lì è finita.

Adelante Sancho.

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(780) Correggere

Si sta un attimo a sbagliare, a correggere – a farlo bene – ci si può mettere una vita. Non si cancella nulla, rimane sempre sotto una traccia e quella traccia ti ricorda l’errore. Forse il ricordo dell’errore è ancora più bastardo dell’errore stesso, è quella cosa che non ti permette di perdonarti.

Non è che tutti gli errori che facciamo dipendando totalmente da noi, ma sta a noi correggerli, comunque, non a qualcun altro. Forse è per questo che non si correggono mai del tutto, mai troppo bene. Correggerli, quindi, ha davvero senso? Eh. Che ne so. Immagino non sia per tutti uguale e per tutto uguale, come al solito. L’Abracadabra senza buonsenso può peggiorare la situazione, bisogna tenerne conto.

Guardare l’errore e riderci sopra? A esserne capaci magari aiuta, poi si analizzano i cocci e si cerca di capire cosa riattaccare e cosa no. Rimane un dato di fatto: ti rode sempre e comunque, quel danno non te lo toglierai mai di dosso. E sì, certo, ci possiamo anche voltare dall’altra parte e fare finta di niente, ma quante altre-parti esistono? Quante ne abbiamo a disposizione?

Ok, sono andata a infilarmi nel solito monologo squinternato, è più forte di me, ma la questione del correggere e cosa correggere rimane. Rimane qui, lì, là, ovunque. Correggere perché oggettivamente così non va bene, oppure correggere perché le conseguenze sono troppo pesanti e se lo sapevamo prima manco lo avremmo fatto o lo avremmo detto? Correggere per amore della Giustizia o della nostra comodità?

Chi vede il Giusto e non lo fa manca di Coraggio. (Confucio)

Il Giusto, però, non è comodo e non è questione di punti di vista. Per questo il Coraggio che ci vuole è considerevole. E soprattutto: non è mai finita. Le conseguenze del nostro mettere le cose a posto rimarranno con noi fino a farci maledire il momento in cui siamo stati coraggiosi e puri.

Ecco perché i SuperEroi a noi anime comuni ci fanno un baffo: loro non hanno scelta. E poi fatemelo scrivere: so’ bravi tutti a fare la cosa giusta quando il mondo ti implora di mettere le cose a posto, prova a farlo quando tutti pensano che invece così va benissimo e che sei tu che vuoi soltanto rompere le palle.

Eh. Auguri.

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(693) Piangere

Ci sono cose che fanno piangere, e anche persone che sanno come far piangere. E ci sono almeno mille modi diversi di piangere e un milione di ragioni diverse per cui si piange. Ogni lacrima versata si porta via con sé un intricato garbuglio di sentimenti. Non piangi mai per una cosa soltanto, inizi con una motivazione – certo – ma poi a valanga vieni sommerso da tutto quello che fino a quel momento stava in piedi per miracolo. E quando l’incantesimo si spezza: addio.

Addio nervi, soprattutto.

Io piango quando rido di cuore. Nel senso che anche quando rido piango. Questo fa di me presenza fastidiosa per esempio al cinema: se un film mi piace piango. Fosse anche un film comico, fa niente, io piango. Che poi il mio non sia un pianto becero è un dato di fatto. Piango in silenzio. In un certo qual modo il mio pudore ha la meglio. Decoro innanzitutto, sono pur sempre friulana. 

La questione ha anche un’altra faccia: piango raramente per me. Mi faccio piuttosto compassione in diversi momenti, ma più che piangere per me mi viene naturale ridere di me. Questa cosa mi stordisce. Voglio dire: è una cosa positiva o una cosa negativa? Lo ignoro bellamente. Non lo so proprio, non riesco a capirlo dalle conseguenze che mi porto addosso perché è così da molto tempo e le conseguenze sono diventate parte di me. Forse è un male e sono malata, o forse non sono del tutto fuori di testa perché questa dinamica mi fa bene. Boh.

Riassumendo: piango per gli eventi, per le persone (e a causa di certe persone), piango per le storie che ascolto/vedo/incontro, piango per le cose che mi fanno incazzare. Non piango per me, anche se credo che esistano buone ragioni che lo potrebbero giustificare (un bel pianto ognittanto, mica sempre). Eh. Quindi? Niente, era soltanto per fare il punto della situazione. Facciamo che ora che l’ho scritto lo possiamo serenamente archiviare, ok? 

Bene, buonanotte a tutti e grazie per l’ascolto (e buonanotte anche a me).

 

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(691) Rinfrescare

Credo sia un verbo pieno di positività: mi rinnovo, mi rivitalizzo, mi ridipingo! Significa che ho perso freschezza, manco d’energia, mi si sono sbiaditi i colori… è necessario metterci mano e rinfrescare tutto. Ecco: mi sento così.

Facile a dirsi, meno a farsi. Se mi sono ridotta così ci sono motivi che non basterebbe un mese a scriverli tutti, ma alla fine non è poi così importante intignarsi nei perché. Oppure sì? Avendo presente i perché e non potendo farci nulla ormai, bisogna solo correre ai ripari. Seh, si fa presto a dirlo, ma da che parte cominciare? Rinfrescare il cervello che in questi mesi di temperature allucinanti si è bollito? Oppure rinfrescare il corpo che in questi ultimi anni si è rammollito? O basta rinfrescare il cuore che in questa vita si è sbrindellato mica da ridere? 

Non lo so, mi sembra tutto molto faticoso. Ricordiamoci che io sono una pigra conclamata pertanto già il solo pensare di mettermici d’impegno mi costa fatica. E poi tutta la questione del bisogna-volersi-bene che continua a tormentarmi in sottofondo… mica sono una fan del bisogna-volersi-male, ma neppure del ci-sono-io-e-il-resto-non-conta. Devo pur sempre fare i conti con i miei limiti, e questo aggiunge fatica alla fatica.

Bastasse una doccia a rinfrescarsi sarei a bolla, vivrei sotto la doccia. Le cose però non sono mai facili né troppo piacevoli per chi deve percorrere certe strade, sarà che bisogna essere tagliati per godersi la vita? Non lo so. Forse già la fine dell’estate potrebbe bastare, almeno a farmi passare un terzo della pigrizia e iniziare una mini-programmazione per il recupero delle forze.

Va bene, appena rinfresca, mi rinfresco, ho deciso!

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(678) Nonsense

Ognuno di noi ha i suoi nonsense, assurdità brandizzate e spesso originali – ma meno spesso di quel che ci si immagina. La mia lista è lunghetta, non lo nego, ma non è un vanto. Tutt’altro.

Mi piacerebbe essere coerente e tutta d’un pezzo, per certi versi lo sono (in modo impressionante), ma per alcuni dettagli no. ‘sti dannati mi scappano via e mi trascinano dove non vorrei: nell’assurdo.

Quello che trovo più fastidioso di tutti è che non riesco a essere incazzata per più di un tot. Cioè, me ne dimentico proprio. Soltanto per tre volte in tutta la mia vita ho mantenuto fede alla promessa: mai più. Nel senso mi-hai-fregata-una-volta-e-la-seconda-non-è-prevista-manco-se-muoio. Tutte e tre le volte si trattava di cose basilari spinte all’ennesima – come la fiducia, l’onestà, la lealtà. Ecco, tutte le volte nelle quali l’entità delle cose era molto meno pesante io… me le sono dimenticate.

Cavoli, c’è gente che riesce a tenermi il muso per settimane intere, e io? Non duro manco un giorno. Neppure se me lo impongo, se mi controllo, se mi faccio i ragionamenti giusti. Niente.

Sospetto sia il gap dell’essere-per-forza-amabile-per-poter-essere-amata che mi porto dietro da sempre, ma non voglio dargli molto peso altrimenti chissà dove finisco. Devo far finta di niente, ridere di me e tirare avanti.

Ok, dopo questa deplorevole confessione aggiungo anche che: non faccio fatica a incazzarmi, anzi, mi incazzo almeno dieci volte al giorno con modalità diverse – so essere creativa – faccio solo fatica a ricordare. Difetto di memoria non di indole combattiva. D’altro canto sono del segno del toro, inutile ricordarlo.

Siete avvisati.

Peace&Love

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(637) Identico

Stasera faccio una cosa diversa: prima scrivo e poi ricavo dal testo il titolo. Si potrebbe pensare che sappia già cosa scrivere, giusto? No, sbagliato. Soltanto che mi sono un po’ stancata delle gabbie che mi sto costruendo da 636 post, ho bisogno di un po’ d’aria senza filtri.

Potrei parlare di come una volta che ti viene confezionato addosso un abito sia un gran casino cambiarselo. Tipo: ti fai vedere in giro con bermuda hawaiane, canotta fantozziana, calzini con sandali alla tedesca e per tutti sarai per sempre quel disadattato che in una giornata di scazzo s’è fatto quattro passi sovrappensiero mentre cercava una buona idea per pagarsi le bollette. Fa niente se di solito vesti in frac e sei un gran signore, tu sei e rimani per tutti un eccentrico e grottesco fannullone finché muori. Stessa cosa anche fosse la situazione inversa. Funziona così.

Ogni volta che qualcuno mi chiede che lavoro fai, partendo da questo presupposto, vado in crisi. Ho fatto la cameriera, la baby-sitter, la donna delle pulizie, la commessa, la centralinista, la segretaria, l’insegnante di scrittura creativa e ora sono responsabile della comunicazione di una manciata di start-up… ho cambiato abito mille volte ed è probabile che lo cambierò ancora, quindi mi chiedo: che lavoro faccio?

Le varianti confondono. La fluidità, contrapposta alla catalogazione, affatica. La malleabilità viene guardata con sospetto. Il cambiamento infastidisce.

Abbiamo i nostri schemi, i nostri scatoloni in cui infilare tutto, mettiamo ogni cosa al suo posto così la teniamo sotto controllo, così non ci salterà addosso per mangiarci le orecchie durante la notte. Mi viene da ridere, ma che amarezza!

Siamo così impegnati a pretendere pulizia dagli altri che nascondiamo la nostra sporcizia sotto lo zerbino che diventa collina e montagna e noi come se niente fosse domandiamo ancora e ancora: cosa fai? Cosa fai? Cosa fai?

E se cambiassimo la domanda in: chi sei?

E no! Comporterebbe la rogna di andarsi a cercare la risposta in chissà quale anfratto dell’anima. Sempre diversa a ogni occasione. Perché non siamo mai una cosa sola e sola soltanto. Conteniamo moltitudini come Walt Whitman ci ha insegnato, e queste moltitudini ci spaventano a morte. Le nostre, poi, sono le più terrificanti di tutte perché in fondo in fondo le conosciamo bene, anche se ce le nascondiamo. Sappiamo che siamo noi ad averle generate e non riusciamo a perdonarcelo. Ma perché?!

E se non ci fosse nulla da perdonare? Eh? 

Lo sguardo che va a pesare sul collo affossa l’idea che abbiamo di noi ed è una violenza inaccettabile da noi stessi perpetrata. Se, invece, è il nostro sguardo a pesare sul collo di qualcun altro meritiamo lo stesso inferno che stiamo causando. Ma proprio uguale uguale.

Identico.

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(434) Imprevisto

Senza peso, senza misura, senza sostanza. Senza.

Certe volte agire “senza” causa danni e sofferenze, altre volte permette il fluire della vita, tutto sta nel valutare quando e se mettere in atto un “senza”. Credo entri in gioco un certo tipo di sensibilità, ai pieni e ai vuoti o anche al qui e lì – che ne so, e anche un certo tipo di intelligenza. Quel tipo che è raro e che non ha un posto preciso dove mettersi, la trovi volteggiare sopra le cose per posarsi sempre un po’ più in là, come per caso anche se per caso non è.

Ho valutato sommariamente quanti “senza” ci sono stati nella mia esistenza, quanti sono ancora qui e quanti se ne sono rimasti appesi come calzini spaiati appena usciti dalla lavatrice in cerca di un po’ di calore che li faccia sgocciolare sempre meno, finché non ho smesso di fare i conti perché tanto non arrivavo a nulla. Quello che c’è è quello che posso vedere, tutto sommato può bastare.

Allora perché quel non-so-che di imponderabile mi ha determinato e soffocato così pesantemente, come ho potuto permettere che accadesse? Se è un Tir che ti blocca il passaggio allora un motivo per fermarti ce l’hai, ma se è un granello di polvere cosa ti inventi per giustificare il tuo stop?

Ti fermi per un niente, ti struggi per un niente, di annienti per un niente. Ridono i tanti “senza” e ridono anche gli imponderabili ritorni di coscienza, mentre annichilita ti guardi la punta del naso dove si poggia il tuo amabile quanto inutile Sé che gioca con la polvere come se niente fosse.  Ma niente non è.

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(400) Humour

Ci sono proprio nata, l’ho ereditato per geni e l’ho perfezionato nel tempo grazie alla vicinanza della mia famiglia. Non sto dicendo che sono una simpatica umorista, tutt’altro, ma che nel mio sangue c’è la risata. Anche quando fa male perché serve soltanto a sollevare le sorti di una giornata, di una settimana, di un mese, di un decennio tragico. 

Sei lì, in mezzo al vuoto che t’inghiotte e mentre ti guardi scomparire spari una cazzata. E ridi. La capisci solo tu, ma non lo stai facendo per un pubblico, per un applauso, per una pacca sulla spalla. Soltanto per accompagnare il tuo affondare.

E quando scopri che funziona, smetti di sentirti in colpa. Perché se stai male e ridi sembra che tu non stia così male. Potresti risultare mostruosa agli occhi del mondo, gelida per chi ti sta accanto, idiota persino. Sono giudizi superficiali, devono scivolare via subito perché rovinano l’operazione di salvataggio che la tua anima sta portando avanti nonostante te.

Se riesci a farlo, se riesci a restare attaccato a quell’amaro che ti fa storcere la bocca e che si trasforma in risata per un pensiero stupido che ti fa uscire di botto dalla situazione che stai vivendo e ti rende disumano anche solo per due secondi… se ti riesce l’acrobazia, diventa la tua arma segreta. Tanto lo sai che non è finita, lo sai che poi passa, lo sai che il dolore è uno stato mentale limitante, lo sai. E allora ridici sopra, fallo a pancia all’aria, fallo in mezzo al vuoto e che sentano tutti. Fallo. Non pensarci, fallo e basta.

Che son bravi tutti a fare gli scemi a Zelig, prova a farlo quando stai per essere inghiottito dal vuoto. Lì che ti voglio. Non ti scappa da ridere? Dovrebbe. Fidati, dovrebbe.

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(324) Calendario

Li guardo passare e li sto vivendo, ma li sento lontani. I giorni non si fermano – grazie al cielo – sono io che mi fermo ogni giorno a guardare il calendario. 

Primo pensiero del mattino: che giorno è?

Secondo pensiero del mattino: cosa devo fare?

Terzo pensiero del mattino: quanto posso ancora dormire?

E mi alzo per far iniziare la giornata, per rispetto al calendario, per restare al passo con la vita – la mia? – o soltanto per non essere calpestata dalla vita degli altri. Sono prigioniera anche quando il calendario urla vacanza. Ci sarebbe da riderne, ma è venerdì e il proverbio recita:

Chi ride di venerdì piange per tre dì.

Che trappola mortale.

 

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(320) Terra

Un pianeta piccolo, il nostro, eppure enorme. Enorme per quante meraviglie contiene, impossibile non innamorarsene o smettere di esserne innamorati. Vero?

Gli Esseri Umani hanno saputo creare e prosperare, usando tutto quello che il pianeta aveva a disposizione. Impossibile non essergliene grati, impossibile non prendersene cura, impossibile non fermarsi a deporre le armi quando si è decisamente andati oltre. Vero?

Ora ci sono due piccoli esseri vermicefali velenosi che scuotono la Terra come se fosse un salvadanaio da cui estrarre monete risparmiate. La Terra che ci ha riempito le mani con la sua incredibile ricchezza ci guarda attonita: “Ma come? Non vi basta? Tutto quello che c’è non vi basta?”.

Noi alziamo le spalle come se non ci riguardasse. La Terra trema, frana, s’indigna e noi ci lamentiamo per quanto la troviamo crudele. I due vermicefali ridono. Noi andiamo in vacanza. Se fossi la Terra mi sbarazzerei dell’intera Umanità. Subito.

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(262) Cerotto

Serve a unire i lembi della ferita per farli cicatrizzare dalle fide piastrine. Un’idea geniale. Fa quello che le parole possono fare quando le ferite non sono visibili, ma sanguinano nell’Anima. Quando le parole non sono sufficienti, forse, gli abbracci possono aiutare. Dipende.

Se smetto di credere a questo ho la sensazione che mi gioco gran parte di quel che sono oggi. Mettere parole-cerotti qua e là per permettere al tempo di sanare le ferite dell’Anima è un’occupazione no-stop che mi ha tenuta impegnata per gran parte della mia vita.

A volte, quando mi rendo conto su che filo sottile è sorretta la mia essenza di Essere Umano mi viene da ridere. Altre volte muoio di paura.

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(80) Pagliacci

Tristezza. Tristezza. Tristezza.

Sant’Iddio quanta tristezza c’è dentro un pagliaccio. Insopportabile. Far ridere gli altri è una maledizione che ti prendi addosso perché pensi che solo così potrai essere amato. Ho sempre pensato questo, dal Circo di Moira Orfei (le tre volte che mi ci hanno portata da piccola, poi mi sono rifiutata) al cinema di Fellini e oltre. Nemmeno le “Opinioni di un clown” mi hanno aiutato granché ad ampliare la visuale sulla questione, se devo dirla tutta, o il saggio di Tristam Remy o Slava Polunin. No.

Sì, perché mi sono documentata prima di cristallizzare la mia posizione, mica le sparo così tanto per dire. Eh!

[No, non parlo di IT perché è fuori tema]

Ecco. Ho cambiato idea. Oggi ho visto dei clown far sorridere dei bambini, e di solito li fanno sorridere quando sono in ospedale e stanno malissimo, bambini che anche se con problemi seri non sono messi a paranoie come lo ero io alla loro età – evidentemente, e i bambini quando sorridono sono belli da togliere il respiro.

La lezione? Non prendere mai troppo sul serio quello che pensi. Non è mai definitivo, e spesso non è neppure granché intelligente.

Amen.

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(55) Sottosopra

Ci sono giorni in cui mi sento completamente sparpagliata. Un mucchietto di lettere senza arte né parte, buttate lì alla rinfusa.

Non sono bei momenti. Mi capitano sempre cose assurde, cose che mi fanno sentire un’idiota. A buona ragione, visto che le cose assurde mi capitano perché sono sparpagliata e non faccio attenzione.

Mi chiedo dove sono in quei giorni e in quale livello multidimensionale sto vivendo una vita fantastica per avere qui su questo piano risultati così disastrosi.

Non ho risposte.

Devo solo far finta che sia una giornata sottosopra e basta, che domani sarò più in ordine e farò meno idiozie. Una speranza non una certezza, beninteso. Eppure, non ho mai pensato di buttarmi dalla rupe Tarpea benché effettivamente io possa considerarmi a tutti gli effetti una goffa traditrice di me stessa. Insomma, sono oggettivamente autoboicottaggi inquietanti, senza se e senza ma.

Se non ci fosse da ridere mi preoccuperei. Deve esserci qualcosa che s’inceppa in me, a volte. Appena scopro cos’è lo scrivo.

b__

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(51) Ridere

Non è detto che io debba sempre essere intelligente. Neppure arguta e verbalmente agile. E preparata, attenta, sicura di me stessa. Non è detto.

Non so dove io lo abbia sentito che doveva essere così, essere sempre impeccabile, anche perché impeccabile non lo sono mai. Proprio mai. Neppure dentro la mia testa, neppure nei miei voli pindarici. Proprio mai.

Quindi tutte le volte mi devo ricordare che non devo esserlo, se capita ogni tanto va bene, ma in realtà non devo essere niente di più di quel che sono (che già è una bella fatica essere quello che sono).

D’accordo, fin qui ci siamo.

A sensi di colpa, però, come siamo messi? Sparati alle stelle. Nonostante tutto e nonostante tutte le imperfezioni degli altri. No, quelle degli altri vanno bene, le mie no. Le mie sono imperdonabili. C’è da ridere, no?

Infatti, l’unica a salvarmi è l’autoironia. E’ quella cosa che si fa quando estrai quel pezzo biasimevole da dentro te e lo getti fuori, lì davanti a te. E ci ridi. Non è più roba tua che nascondi, è roba che esce da te e quindi (per assurdo) potrebbe anche non appartenerti più una volta che l’hai fatta uscire. Infatti ora sta lì e tu la guardi e ci ridi. La riconosci, è tua, ma non sei tu.

La riconosci, ti appartiene, ma non sei tu.

Risultato: il pezzo che ti sei tolta ti ha tolto pesantezza (Che sollievo! Che leggerezza!) e ora che te lo guardi meglio e te la ridi scoprendo che non è poi così imperdonabile.

Esercizio da ripetere più volte al giorno con caparbietà.

Funziona.

Il comico si rivolge all’intelligenza pura; il riso è incompatibile con l’emozione.

(Henri Bergson, “Il Riso” (1901)

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