(923) Pugno

Quello che si tira mi interessa particolarmente. Ne sto cercando uno bello forte da dare in faccia a tutti. Senza cattiveria, per una buona causa, giuro. Mi piacerebbe trovare quel pugno e confezionarlo per bene perché non credo ce ne sarà un altro a mia disposizione, comunque non ci sarà un’altra occasione per farne un altro di sicuro. Certe cose capitano una volta soltanto.

Mi ricordo bene i pugni che ho preso, non sono mai riuscita a prevederne neppuro uno. Questo fanno i pugni: arrivano non richiesti, ti prendono alla sprovvista e ti lasciano senza respiro. Non ti uccidono, o almeno non fisicamente, ma ci mettono un bel po’ ad andarsene. Un bel po’.

Ecco, quello che ho in mente io deve produrre un effetto benefico devastante. Prima deve lasciare senza respiro e dopo deve produrre buoni frutti. Lo so, un’ambizione pressocché irraggiungibile. Ma sento dentro di me che ci sono vicina. Molto vicina.

Non mancherò di coraggio, questo è certo. E se mancherò di tecnica dovrò chiedere aiuto, anche questo è certo. In realtà non lo penso come un pugno solitario, costruito soltanto da me, lo vedo più come un lavoro di un team. Il mio team. Li sto coinvolgendo in questo. Un po’ si stanno pure divertendo, spero.

Sarà un pugno memorabile. Questo deve essere.

E che accada ciò che deve accadere.

Mh.

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(698) Empasse

Non so come prenderla, ma mi conviene prenderla bene. Se la guardo come fosse un problema rischio di non uscirne più. Non è proprio un blocco, ma è sicuramente un fermo. Mi sono fermata. O forse, meglio, ho smesso di avanzare e sto girando in tondo come se il tondo fosse tutto quello che ho. Non va bene, lo so, ma per il momento è tutto quello che riesco a fare.

Ho valutato – o almeno ho cercato di valutare lucidamente, cosa che al momento temo sia fuori dalla mia portata – i motivi per cui mi ritrovo in questa situazione emotiva e l’unico che mi sembra solido sembra essere il seguente: sono stanca.

Ho sempre fatto le cose che amavo fare perché mi facevano stare bene, non mi preoccupavo del dove andassero a finire, mi stava bene anche tenerle nel mio cassetto e non pensarci più. Ecco, mi bastava non pensarci più. Ora è diverso, ora non faccio le cose che amo fare perché a parte a me non fanno bene a nessun altro. Piuttosto assurdo, me ne rendo conto, ma grattando via i primi diecimila strati di stronzate sono arrivata al dunque. Questo dunque, rendiamoci conto, non ha vie di uscita. Niente che dipenda da me può essere messo in atto affinché le cose che amo fare inizino a far bene anche agli altri. Il fatto che agli altri non gliene freghi niente è qui davanti ai miei occhi e non posso cancellarlo neppure passandoci sopra una mano di bianco.

Se non riesco a riprendere la convinzione che basta che faccia bene a me, rischio di abbandonare la lista delle cose che voglio fare perché il presupposto del “voglio fare” non regge più. Forse mi arriverà un segno – tipo un pugno in faccia – che mi farà capire che è tempo di riprendere le cose in mano… immagino di stare qui, in questo stato semi-catatonico, aspettando che arrivi. Ho messo il paradenti in ogni caso, non si sa mai.

Oppure.

Eh. Oppure sono in quello stato di demenza pre-creazione che mi preclude visione periferica e riflessi agili e tra poco bypasserò l’empasse. Già è successo, può ricapitare. Magari non è necessario che mi arrivi un pugno sul naso questa volta per darmi una mossa. Magari domani mattina mi sveglio e ricomincio a fare come se fossi sempre la stessa, come se fossi ancora io.

Seh, va bene. Buonanotte.

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(619) Questionario

Fare domande è una cosa seria, delicata direi. L’ho sempre pensato e, di conseguenza, mi sono sempre presa l’onere del fare domande dandogli il giusto peso. In poche parole: so fare domande micidiali. Davvero.

Mi vengono proprio spontanee, domande talmente precise e apparentemente banali che se non le filtro un po’ rischiano di causare reazioni estreme: la totale afasia del mio interlocutore o un bel pugno sul naso da parte dello stesso a mio esclusivo beneficio. L’ho detto, sono domande micidiali.

Non è cattiveria, ma se voglio conoscere una persona non sparo domande a caso per ottenere risposte vaghe, miro meglio che posso, vado sul particolare, sperando di non fare disastri. Così facendo scopro me stessa, mi metto onestamente davanti alla persona che voglio conoscere rendendogli evidente il mio pensiero. Pericoloso? Sì e no, gioco lealmente, non mi spingo mai oltre il limite del buongusto, e non ficco mai il naso nei fatti degli altri. Infatti, qui sta il bello, non sono mai domande invadenti, non sono volte a incamerare informazioni, sono piuttosto una porta da aprire per condividere un pensiero che neppure sapevi di avere. Pericoloso? Sì e no, dipende se mi trovo davanti a un buon diavolo o a un serial killer.

Cosa interessante, però, è stato constatare che nessuno si è mai rifiutato di rispondere, al massimo qualcuno ha ammesso di non averci mai pensato accompagnando la frase con un mezzo sorriso. La parte del sorriso è fondamentale anche nella fase che mi riguarda: non è un interrogatorio, è uno scambio e come tale deve risultare rassicurante – siamo insieme in questo gioco – e quindi sorrido. Se non ho voglia di sorridere significa che le risposte le so già e mi evito di perdere tempo. Succede quando incontro persone che non mi ispirano granché di buono, tanto per essere chiari.

Proprio per evitare situazioni noiose, sto pensando da qualche tempo che potrei creare un breve questionario con risposte a faccette/emoji per velocizzare i tempi. Formulare le domande adatte è più impegnativo di quel che mi ero immaginata, sono molte le varianti da prendere in considerazione. Un’attività che se voglio che mi porti qualcosa di utile mi occuperà giorni interi…

Ne varrà la pena? Ecco, domande come questa sono perfette. Aperte, addirittura vaghe, ma assolutamente rivelatrici.

Mi comprerò un paradenti, comunque. Non si sa mai.

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(549) Show

Ognuno fa il suo. Non è detto sia del tutto edificante, bisognerebbe non darlo per scontato. Bisognerebbe partire da una logica diversa dal solito, quella che ti impone di farti vedere al massimo della forma. Bisognerebbe volare bassi.

Parti a razzo e pensi di sorprendere tutti, sei sicuro che rimarranno a bocca aperta, in estasi. Ti pensi Madonna (se sei ateo) o La Madonna (se sei cristiano praticante), in breve ti pensi come non necessariamente sei, forse a come ambiresti essere. Credo che questo sia il vero peccato.

Se procedessimo invece con altro criterio, quello del volo rasente e poi piano piano risalissimo le correnti ascensionali (citando qualcuno, qualche tempo fa) per farci vedere al massimo del nostro splendore, magari lo stupore sarebbe reale e forse durerebbe più a lungo.

Mi sta bene la grande mascherata, nel senso che la giustifico, ma il buongusto deve avere la meglio sulla baracconata. Sempre. Perché non c’è bisogno di andare oltre, non c’è bisogno di fare i fenomeni, non c’è bisogno di dichiarare la propria superiorità. Se il bisogno c’è è perché non siamo fenomeni e non siamo superiori, tutt’altro.

Ora: che lo si faccia è un dato di fatto, che la maggior parte delle volte il nostro buonsenso non riesca a limitare l’enfasi del nostro show è un dato di fatto, che ci possa andare bene nove volte su dieci è un dato di fatto, ma…

Ma anche la Giustizia Divina è un dato di fatto, ha lastricato di prove ogni secolo d’esistenza del Genere Umano, e arriverà comunque il giorno in cui il nostro show non verrà tollerato, non verrà perdonato, non verrà fatto passare. Verrà il giorno in cui durante uno dei nostri maestosi show qualcuno ci darà un bel pugno sul naso. Quel giorno dovremmo ricordarci di incassare con onore. Non si piange, non si urla, non si bestemmia, non si ribatte, non ci si giustifica, non si incolpa qualcun altro. Quel giorno ci beccheremo il pugno sul naso, il naso sanguinerà, e noi staremo zitti, a testa bassa a prenderci in pieno tutta la vergogna che meritiamo.

Perché “Show must go on” è una canzone dei Queen, e il nostro show dovrebbe terminare ora. Le discussioni stanno a zero. Bisognerebbe capirlo una volta per tutte.

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(545) Proposta

Quando la proposta non è all’altezza delle aspettative… delusione atroce. Vien facile dire “colpa tua che ti crei le aspettative”, guarda che quelle si creano da sole quando dall’altra parte si evocano grandi possibilità e velate premesse. E non sto parlando di promesse d’amore (chi ci ha mai creduto a quelle?), sto parlando di promesse professionali, quelle che partono da discorsi di grande stima e poi si rivelano essere soltanto discorsi di grande interesse personale e basta.

Ci stavo pensando oggi, così, senza nessun appiglio sul presente, in un flashback che mi ha un po’ disturbato. Avevo sempre pensato di essere io quella che si fa prendere dall’immaginazione e vola troppo in alto, e invece potrebbe anche essere che la responsabilità vada dimezzata: 50% per uno. Io che ascolto le tue chiacchiere e che mi creo aspettative, tu che mentre chiacchieri fai in modo di crearmi aspettative. Chi è più infame? Dai, facciamo due conti e facciamoceli bene.

Quello che si evoca ha grande peso nella mente nostra e degli altri, manovrare le evocazioni per proprio interesse (e magari a danno dell’altro) è criminale. Mano a mano che arrivano proposte indecenti (che non si possono neppure sentire, ma vengono portate a te come fossero grazie ricevute e solo in parte meritate) e tu scopri l’inganno, si chiude una porta dentro di te, poi una finestra, poi un’altra finestre e via di seguito. Rimanere chiusa dentro al buio è un attimo.

Pertanto, bisognerebbe che le proposte fossero soppesate bene, bisognerebbe fossero calibrate bene, bisognerebbe smetterla di pensare che le persone siano sempre troppo stupide e quindi pronte per essere prese in giro. Bisognerebbe. Non lo dico solo per un fatto di pulizia morale, ma anche per un mero calcolo delle probabilità: prima o poi qualcuno potrebbe rispondere alla tua proposta con un pugno in faccia. Questo ti auguro, chiunque tu sia, perché approfittarsi dei sogni degli altri è criminale. Tu sei un criminale, e anche se un pugno non sarà certamente abbastanza per farti cambiare intento, almeno per un paio di giorni non starai proprio benissimo. Un paio di giorni son poca cosa rispetto al buio che tu hai contribuito a creare dentro una persona che sta solo cercando la sua piccola felicità.

E sto pensando a tutti i ragazzi e le ragazze che si fanno abbindolare e che si danno in mano a psicopatici viscidi e schifosi. Bastonate sui denti, ogni mattina, per ogni vittima macellata. Dovete per forza sentire il dolore, se non quello dell’anima almeno quello della carne.

Sbang.

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(505) Trucco

Il trucco serve a mascherare, a nascondere. Serve a renderci diversi all’apparenza, a renderti più bella o più brutta dipende se devi sedurre qualcuno o se sei lo zombie a una festa di Carnevale. Il trucco a un certo punto va via, sbiadisce. Tu che stavi sotto sei costretta a tornare in superficie. Con sollievo o vergogna, questo lo deciderai tu, di volta in volta.

Quando il trucco c’è e non si vede, la meraviglia è una magia. Quando il trucco viene smascherato, la delusione ti fa scivolare il sorriso e chi s’è visto s’è visto.

Credo che il trucco, quando c’è, è meglio che non si veda, perché gestirsi la delusione è una brutta rogna. Credo che mettersi addosso un po’ di trucco, o anche tanto, sia sacrosanto se ne senti il bisogno, perché non ci hanno fornito alla nascita un’armatura capace di proteggerci da tutto e da tutti e invece ne avremmo tanto bisogno.

Poi c’è chi, come me, non ne usa, né trucco in faccia né trucchi in sala, e non è neppure una scelta ragionata, è soltanto pigrizia. Si sa che la pigrizia la si paga cara e i miei conti son sempre stati piuttosto salati, però…

Però vivendo già in superficie, a pelle scoperta, non riservo brutte sorprese a me stessa e neppure sgambetti fastidiosi a chi mi sta attorno. Ho imparato a mollare pugni sul naso, però, e piano piano alcuni se ne stanno rendendo conto. Eh, va così! La vita in superficie ti indurisce la pelle e ti rafforza il cuore. Che sia un bene o un male, questo non è dato saperlo e a dirla tutta non me ne frega niente.

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(60) Delicatezza

Delicatezza è uno dei sinonimi di “sensibilità”. Ho il sospetto che ormai la distanza tra le due attitudini non sia più questione di sfumature. Tutti si reputano sensibili, anzi, si offendono quando qualcuno dubita del loro essere sensibili.

Io penso che lo siamo davvero tutti, tutti molto molto sensibili, ma non significa che tutti i sensibili siano anche dotati di delicatezza. La sensibilità è un “sentire” molto personale, ritagliato e cucito su di noi, sui nostri bisogni, i nostri desideri, le nostre priorità. Lo tradurrei così: io io io io io io io io io io io (ad lib.).

Appena qualcuno ci tocca il nervo scoperto, zak! La nostra sensibilità ha un’impennata. Automatico. Sicuro. Immediato.

La delicatezza presuppone una predisposizione allo spostare quel maledetto “io” in “tu”. Tu come stai? Tu come ti senti? Tu cosa vuoi? Tu come la pensi?

Delicatezza è quando metto da parte il mio “sentire” per occuparmi del tuo. Non perché io debba prendermene carico, solo perché voglio prendermene cura per quello che posso. Magari evito di dire o di fare qualcosa che in quel momento ti risulterebbe come un pugno in faccia.

Essere delicati con gli altri non ha ricompense. Spesso gli altri neppure se ne accorgono, non subito almeno, ma quel “non sferrare il colpo”, quel “guardare da un’altra parte” quando vedi il nervo scoperto che potresti toccare e far sanguinare… ecco quella cosa lì, la delicatezza, è un premio che diamo a noi stessi. Non per essere stati buoni, ma per aver avuto il coraggio di avvicinarci a un altro essere umano disarmati.

Chi agisce con naturale delicatezza può sollevare pesi indicibili. Praticare la delicatezza è un esercizio durissimo e allo stesso tempo leggero e bellissimo.

b__

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