(1084) Crepuscolo

Scende la luce e scende il giorno che si corica sul selciato aspettandosi un po’ di silenzio. Ma il silenzio parla comunque, specialmente a chi non ha voglia di ascoltare. E il silenzio parla di scelte fatte e non fatte, quelle azzeccate e quelle che sono state un disastro. Le scelte disastrose son quelle che fanno più casino, riducono il silenzio in briciole.

Quindi una sta lì ad ascoltare e si arrende al fatto che i conti non tornano, che dovrebbe stare bene e invece no. E si domanda perché no. E comincia a scandagliare il passato e trova tutte le magagne del caso (siamo tutti pieni di sporcizia nascosta sotto il tappeto che dovrebbe scomparire e invece si sedimenta). E non è che hai sempre voglia di star lì a pulire, è sceso il giorno anche per te e tutta la stanchezza del Creato.

Non si sa il perché, ma è al crepuscolo che la polvere si alza. Aspetta di avere tutta la tua attenzione per materializzarsi davanti ai tuoi occhi che si stanno chiudendo ben sapendo di non poter avere riposo. Le cose si squagliano assieme alle motivazioni e ti rimangono in mano tristi rimasugli di conseguenze. E che te ne farai mai di tutta quella roba? Boh.

La si mette sotto al tappeto, ovviamente. Strato su strato. Potrai mai perdonartelo? Il tuo essere quella delle scelte sbilenche, delle motivazioni da torero, delle posizioni granitiche su pavimenti scivolosi. Potrai mai perdonartelo? Al crepuscolo puoi. Sì, perché ne hai piene le palle di giudicare ogni pensiero e ogni passo che hai fatto nel corso di tutta la tua esistenza e meno male che la memoria ti oscura buona parte del vissuto altrimenti non ne usciresti viva.

Ecco: l’intenzione è di uscirne viva. Una volta focalizzato l’obiettivo si fa in fretta a prendere una direzione e – senza guardarsi troppo indietro – si taglia diritto per di là.

Se’… ti piacerebbe. Dai, non ci credi neppure tu. E smettila di ridere!

 

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(1066) Anomalie

Quelle cose, spesso dettagli, che non tornano. Non tornano per un sacco di motivi, non tornano e basta. E vorresti fare le domande giuste per avere finalmente le risposte che ti risolverebbero dubbi e malesseri, ma senti che non puoi, che andresti a toccare delicati meccanismi che a sfiorarli soltanto si innescano disastri.

I disastri spaventano.

Anomalie come se piovesse, ovunque. Domande che non si fermano dentro la testa e che se qualcuno presta attenzione ai tuoi occhi le legge anche, prima di girarsi dall’altra parte. 

I disastri spaventano.

E le occasioni non mancano e, a voler ben vedere, le occasioni si possono anche creare appositamente, perché se uno vuole una cosa non trova scuse, non trova giustificazioni, non trova nascondigli fanciulleschi per poi addossare la responsabilità agli altri. Si fa così se si vuole essere adulti: si guarda negli occhi e ci si espone. Ogni anomalia, molto probabilmente, nasconde un piccolo guasto del meccanismo o uno scollamento del reale a favore di uno stordimento che sfugge e che non fa bene, a nessuno. 

Ma i disastri spaventano, specialmente quelli che sai che non puoi controllare. Quindi si ingoiano le domande, si ingoiano i dubbi e si ingoia il malessere. E il malessere ingrassa. Si deposita sulle gambe per renderle pesanti al passo e sulla pancia per renderci goffi e sgraziati. 

Ogni tanto arriva quel giorno che rende tutto particolarmente leggero e dove le cose scivolano come se non dovessero essere causa di nulla di che. Quel giorno tra le parole si formano le domande e si ricevono anche le risposte e non succede nulla, si va oltre. Il disastro è silenzioso. 

Perché il disastro peggiore è quello a metà, quello che in sé non ha violenza esplicita, quello che non chiarisce tutto, che non toglie i dubbi e un disastro silente non fa che aumentare il malessere. E si ingrassa (perché quella è la prassi e non si scappa).

I disastri spaventano e per una buona ragione. E non c’è cura dimagrante che tenga. Fuck.

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(996) Spensieratezza

Se dovessi disegnarla non saprei da che parte iniziare. Mi si sporcherebbero le mani dal tanto pensarla senza aver concluso niente. Quella gaiezza di cui parla il dizionario a me scappa via appena ne scorgo l’ombra. Non sono programmata per questo, mi ripeto. Dandomi ragione coi fatti.

Partendo da questi presupposti non è che si va da qualche parte. Si resta fermi lì.

E se fossi obbligata ad andare oltre, cosa dovrei inventarmi? Artifizi. Che non sono altro che il frutto dell’abilità creativa. Dovrebbe essere il mio pane quotidiano, eppure quando le cose le cali su di te cambia tutto. Perdi lucidità e tiri colpi selvaggi come se non ci fosse un domani. Come se non ci fosse un domani, ma un domani c’è. E il domani è qui.

Devi scendere a patti con le tue convinzioni per liberarti dal pregiudizio, probabilmente. Ma le convinzioni fanno capo a lezioni imparate, fossero anche state fuorvianti o una sorta di infiniti fraintendimenti le cose non cambiano. Si chiama imprinting e ci marchia la carne viva che trattiene il ricordo. Così è. 

Un reset completo per ripristinare le funzioni di fabbrica è un’opzione pericolosa, la lobotomia non è una strategia vincente, anzi non è proprio una strategia. 

Spostarsi un po’. Da qui a lì. Si può fare? In linea di massima si può. Mezzo passo basterà? In linea di massima potrebbe bastare. Mi farà sentire meglio? In linea di massima no, ma prima di afferrare la spensieratezza per la collottola e scrollarla come merita mi ci dovrò avvicinare, e ci si avvicina di mezzo passo alla volta o si perde l’equilibrio. 

Ricordarmi che non sono più quella che ero l’ultima volta che ci ho sbattuto contro, andandomene per altre strade, potrebbe essere già quel mezzo passo. Forse prendere in considerazione di concedermi un aggiornamento dell’intima visione che ho di me stessa, a questo punto, visto che è una cosa che mi si impone di affrontare e che è una possibilità per riscrivere la mia storia di oggi e di domani (così come l’ho scritta ieri non funziona più, evidentemente), forse sarebbe il caso. 

Che poi non è mai il caso, spensierato e leggero, che vorrei. È sempre una lotta con le Forze Oscure che si agitano dentro di me.

Evviva.

 

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(975) Stimoli

Sono la cosa più difficile da trovare, giorno dopo giorno dopo giorno dopo giorno… appena smetti cadi giù. Depressione cosmica. Immagino abbia a che fare con l’adrenalina, la serotonina, o qualcos’altro che finisce con -ina (cocaina o stricnina? Scherzo… quasi).

Fatto sta che la curiosità a un certo punto si appoggia da qualche parte e se non le dai una scossa lei si assopisce. Non è che dipende da quello che il mondo attorno a te ti butta addosso, volendo lui non smette mai di scuoterti (non si può stare in pace un secondo). E forse proprio per questo, quando siamo stanchi abdichiamo a qualcun altro la voglia di reagire agli stimoli. Passo.

Il che va bene, ma bisognerebbe farlo con un certo criterio. Cosa che negli ultimi tempi io non faccio. Non faccio le cose con quel certo criterio mio solito, le faccio alla vaffa. Non va bene, ma gli stimoli m’arimbarzano. Non ho ancora capito se è perché sono stanca o perché sto diventando vecchia o perché sono scema e mi lascio scivolare le cose addosso come se non ci fosse un domani. Ancora non lo so. So però che sta arrivando l’estate (dicono) e che la temperatura si alzerà vertiginosamente e che la mia voglia di reagire agli stimoli si azzererà istantaneamente. 

Il mondo vivrà l’estate e io no.

Non è una presa di posizione, come alcuni potrebbero pensare, è proprio un passare. Passo. Semplicemente. Senza colpo ferire. Senza rimorsi, senza rimpianti, senza nulla. Passo e basta.

Gli stimoli sono quelle cose che tu raccogli (da ovunque) per farne qualcosa (qualsiasi cosa). Ecco, faccio fatica a considerarli come un tempo.  

C’è qualcosa che non va. Eh. Forse. Ma sai che c’è? 

Passo.

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(893) Vita

Quello che ti aspetti da parte della vita, quando sei giovane, e quello che ricevi mentre vivi – il gap può lasciarti davvero con l’amaro in bocca. Ma come si fa a non aspettarsi nulla quando si è pieni zeppi di energia e sogni? Ad averlo saputo magari ci avrei provato, forse mi sarei rovinata tutto quello che di bello m’è arrivato e forse mi sarei difesa meglio ogni volta che il peggio si faceva presente. Non lo so.

E forse parlare di vita significa puntare troppo in alto. Non l’ho capita granché, come faccio quindi a scrivere di qualcosa che non ho ancora chiaro?

Ogni post di questi oltre due anni partono dal presupposto che sto parlando di qualcosa che vivo e quindi la mia versione, la mia traduzione, della questione è in qualche modo giustificata. Sono dettagli, solo dettagli. Quello che è, invece, l’argomento che comprende tutto (il titolo di questo post) è difficilmente affrontabile partendo da basi solide di ignoranza.

Pertanto temo che stasera mi limiterò a ribadire la mia incapacità a comprenderla, a gestirla, a renderla assolutamente mia. Ne prendo sempre e soltanto un pezzetto, il resto mi scivola via. Ne ho una percezione talmente bassa da sorprendermi di non essere ancora stata imbalsamata. Mummificata.

Quando sento la gente parlare di vivere-la-vita-pienamente, mi soffermo a pensare a quanto quel pienamente possa significare. Lo trovo un po’ vago, vorrei un po’ più di precisione. Se mi esorti a muovermi pienamente nella mia vita, pretendo almeno un paio di specifiche in più. A destra, a sinistra, in alto, in basso? Pienamente rispetto a chi o a che cosa? Stare sul vago è poco corretto, dai!

Non so se sarei capace di vivere pienamente comunque, secondo me è troppo. Come fa il mio cuore a tenere il passo? Pienamente è decisamente fuori dalla mia portata, siamo seri!

Posso forzarmi a vivere un po’ di più, questo posso. Ogni giorno un po’ di più. Finché il cuore reggerà. Ovviamente.

 

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(738) Corridoio

Ogni tanto prendo corridoi che non so dove mi porteranno. Spesso è capitato che manco lo avessi scelto io, mi ci sono semplicemente trovata lì e ho dovuto cominciare a percorrerli per capire che diavolo di meta fosse prevista. Camminare senza sapere dove andare non è il massimo della vita, per una come me, ma di solito i corridoi hanno diverse porte che si possono aprire, ben prima di essere arrivati in fondo. Matrix ce lo insegna.

Ci sono strade che son già segnate, percorsi obbligati se si vuole arrivare fin-là dove ci aspetta un posto già conosciuto e magari anche considerato con un certo prestigio dai più. Ecco, io non ho mai voluto andare fin-là, ho sempre scelto alternative poco praticate, o per nulla, e percorsi solitari, anche quando mi sono ritrovata in mezzo alla gente costretta in un budello che sembrava non finire mai. Insomma: il viaggio non è mai stato né facile né rassicurante. Perché non c’era prima, me lo dovevo costruire io – a volte con le piastrelle altre con i mattoni e spesso con i sassolini anche se non sono mai stata una Pollicina.

Fatto sta che un corridoio ha un inizio e una fine – che non è male come certezza. Primo passo e da lì, dopo n-passi arrivi a un altro punto dove finisce la storia. Sapere che la storia finisce può essere un sollievo non da poco.

Un corridoio lo percorri in un verso e anche nel verso opposto, puoi sempre tornare indietro – anche questa certezza fa la sua porca differenza. Mal che vada sai da dove sei venuto e sai che puoi ritornare al punto di partenza, ti auguri non succeda ma sapere che potresti è un ulteriore sollievo.

Un corridoio se è illuminato è meglio, ma se hai visto Shining è peggio. Un corridoio se ha porte chiuse è meglio perché nessuno sbucherà fuori all’improvviso, ma se sono chiuse pure le porte che ti farebbero accedere alla ricchezza dell’esperienza che stai attraversando diventa frustrante.

Un corridoio se ben pavimentato può essere percorso a piedi, sui pattini a rotelle, in bici, in motorino, in auto, in Tir/autobus/pullman, pure in elicottero e in aereo o in aliante/parapendio e chi-più-ne-ha-più-ne-metta. Lo si può fare più o meno velocemente, più o meno agilmente, ma se il terreno è dissestato meglio che lo fai a piedi. Ricordare che un corridoio non è un tunnel è doveroso, con i tunnel è tutta un’altra cosa, chi ne ha uno lo sa.

Insomma, queste considerazioni del sabato sera sono piuttosto ridicole – danno l’esatta consistenza del mio livello neuronale attuale e della mia capacità di discernere e anche di socializzare. Immaginiamo che anziché scriverlo io lo stessi raccontando a qualcuno che sta seduto a mezzo metro da me, cosa potrei rischiare? Come minimo non sarei arrivata neppure a metà discorso. Invece, eccomi qui a scrivere e non so chi stia leggendo, ma so che anche se mi odierà con tutte le sue forze non potrà lanciarmi fuori dalla finestra con un calcio nel sedere. Non ora almeno.

La scrittura può salvarti la vita. La mia di sicuro.

 

 

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(707) Traffico

Il mio personale traffico mentale spesso sovrasta ogni cosa che mi riguarda. Mi impone l’immobilità più che estatica attonita. Guardo i pensieri che si tagliano la strada senza curarsi della segnaletica e mi domando: “Com’è possibile che ancora non si sia verificato il più grande e catastrofico crash della storia stradale planetaria all’interno del mio umile cervello?!”.

Niente, sembra che tutto abbia un suo senso che viaggia in concerto con il senso degli altri e anche se alcuni sensi unici si risolvono in nulla, ad un certo punto, come se niente fosse, arriva l’Epifania. Mi appare l’immagine o il concetto o l’idea che non solo è soluzione, è addirittura soluzione efficace e definitiva. Con una logica, con una solidità, con una ricchezza di contenuto che mi lascia senza parole… come se fossi una piccola Einstein che si ridesta dopo secoli di pensiero obnubilato. Non so se rendo: è una sensazione particolarmente vicina a quella che si può provare quando ti chiudi un dito nella portiera dell’auto. Stelle e cosmogonia in un istante ti si palesano come fossero sempre state lì – solo per te – ad aspettare quel momento con la tua stessa trepidazione. Commovente.

Al di là di tutto questo, riprendendo il concetto di traffico mentale, voglio precisare che anche se le mie non sono in realtà delle genialate, il fatto che prima sia un casino e ad un tratto tutto sia chiaro, lucido, cristallino, rimane. Ripeto: prima un casino – che ti viene voglia di sbattere la testa contro il muro tanto per sincerarti che ci sei ancora – poi il Nirvana. Non è un episodio che sto sintetizzando, è la prassi. Cioè io vado da momenti in cui non so neppure come mi chiamo a istanti in cui il senso del tutto prende forma manifestandosi nella sua giustezza – senza fare una grinza – e mi permette di avanzare. Sarà pure solo un passo, ma intanto è un passo avanti e non indietro. Mica poco, no?

Arrivata alla fine della scorta di energia della giornata, posso concludere con un’affermazione pregna di significato (almeno per me): so solo io quanto sia impegnativo e snervante essere me stessa. Non lo auguro a nessuno.

Buonanotte.

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(497) Oro

Mantenere la tua posizione quando senti che è giusta, vale oro. Fare un passo indietro quando ti accorgi che ti sei sbagliato, vale oro. 

Guardare negli occhi chi ti sta di fronte mentre affermi il tuo essere libero, vale oro. Fermarti e riconoscere che stai abusando della tua libertà per mortificare quella di chi ti sta di fronte, vale oro.

Ma quale oro? Non quello che si gratta dalle viscere della Terra, quello vale poco, non quanto le vite di chi consuma i suoi giorni affondato laggiù. L’oro è quel filo che ci percorre dai piedi alla testa e che ci tiene su, ci sorregge. Non si mescola al sangue, non lo puoi confondere con nient’altro. Lo vedi brillare in superficie in un bimbo che sbatte i pugnetti sul pavimento quando piomba giù al suo primo passo. Una bella culata, parata dal pannolone, non fa altro che rinvigorire il bagliore. Tempo due secondi ed è in piedi, quel nuovo tentativo non vale oro, è oro.

Mi sconvolge vedere che qualcuno lo ignora, che c’è chi non prende in considerazione quel filo d’oro che lo attraversa. Mi chiedo il perché. Forse non lo vede? Forse lo vuole negare? Forse pensa di averlo perso?

Se sto su, se sono in piedi, è per quel filo d’oro che sorregge ogni osso del mio corpo. Quel filo è sottile, sta facendo una fatica della miseria, ma ancora non si spezza. Sono sbalordita dalla sua forza. Riconoscerla ora, con la stanchezza che è sparsa ovunque, vale oro. Questa volta il mio.

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(487) Onore

Come molte parole contenitori di importanti, se non fondamentali, valori umani, anche “onore” è stata depredata e ridotta a una cosa da nulla o addirittura una cosa sporca, cosa di CasaNostra. Spaventoso. Se svuoti le parole migliori del loro significato, svuoti l’anima dell’uomo che trova nelle parole la traduzione del proprio sentire.

Credo fortemente nel decoro della persona, che è onore, nella dignità, che è anch’esso onore. Sono sinonimi, i sinonimi possono aiutarci a riportare le cose nella giusta prospettiva ecco perché mi piacciono.

A un certo punto della propria crescita personale si inizia ad avere un’idea – dapprima abbozzata e poi sempre più precisa – del tipo di persona che si vuol diventare. Non sto parlando di che lavoro fare, di chi vuoi sposare (se ti vuoi sposare), di quanti figli vuoi (se li vuoi dei figli, mica è obbligatorio) e via di questo passo, sto parlando di una questione intima, di una decisione che riguarda solo te e che dal momento che la inquadri bene e la indossi, tu sai se le stai rendendo onore oppure no. Nessuno può giudicarti meglio di te stesso, in tutto quello che fai e che pensi. Nessuno può. Se tu te lo eviti, allora significa che la persona che hai deciso di diventare è una persona che poco lotta, poco cresce, poco sceglie liberamente e poco vale.

Sono contenta di essere cresciuta in una famiglia dove mi si sono palesate per bene le diverse conseguenze di ogni scelta: ho conosciuto chi ha saputo essere dignitoso e chi no. Ho imparato sia dall’uno che dall’altro, ho deciso con i modelli davanti agli occhi a chi volevo assomigliare. Ho scelto bene, ma non ho scelto la via più facile. Cos’ha significato per me? Tutto. Ogni passo è stato segnato da quella mia scelta, ogni passo fino a ora. Non me ne sono mai pentita, mai.

In questi giorni ho fatto un altro passo, segnato più fortemente che mai da quella mia scelta originaria. I dubbi che prima si accompagnavano a me per mettermi alla gogna, ridendo dei miei mancati goals, si sono zittiti. Per questa volta, ho agito senza tremare, senza pensare che forse stavo sbagliando. Forse perché mi sono stancata di guardare a me stessa come se fossi sempre sbagliata. O forse, prima o poi, anche i dubbi si prendono una vacanza.

Non lo so. So che per me un no è sempre un no, un sì è sempre un sì, ed entrambi hanno i loro solidi perché. Adesso come adesso, i miei perché sono indistruttibili.

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(430) Metodo

Ci vuole metodo per far avanzare le cose. Significa avere un piano, significa costanza, significa fede in quello che stai facendo. Non sono cose che si inventano dal nulla, bisogna che tu ci metta del tuo e che impari a non farti abbattere dalle avversità.

L’arte della sopravvivenza – insita in noi in quanto Esseri Umani – prende il sopravvento quando sembra che le risorse ci manchino. Arriva lei e ci fa intravedere una strada – sterrata, ovviamente, sia mai che non si riveli troppo facile percorrerla – che se disponiamo di una sufficiente dose di coraggio e magari anche sangue freddo potrebbe insegnarci il metodo che fino a quel momento ci è mancato per attraversarla e arrivare chissà dove.

Non significa che il divertimento ti sia precluso, ma ammetto che la questione del metodo non funziona quando si tratta di divertirsi. Puoi bere e strafarti con metodo, è vero, ma se lo chiami divertimento hai un po’ frainteso il senso di tutto (secondo me).

Avere un metodo non significa che tu lo possa adottare da qualcun altro, non funziona. Devi creartene uno tuo, personalizzato, altrimenti è più la fatica che fai a seguirlo che quella impiegata per fare qualche passo avanti. E qui casca l’asino.

Crearsi un metodo è questione di calcolo (tensione che sei disposto ad affrontare, tempo ed energia che vuoi impiegare, focalizzazione dei tuoi limiti e delle tue potenzialità, analisi dei mezzi che hai a disposizione e via di questo passo) e se i calcoli non li sai fare devi imparare a farli perché altrimenti il fare-le-cose-come-capita (a meno che tu non sia fornito di quintali di fortuna sconsiderata) non ti porterà da nessuna parte se non a fare un bel giro-giro-tondo.

Sperimentato sulla mia pelle. Tutto il resto è storia.

 

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(409) Pacemaker

Regolare il passo, è un concetto che mi affascina. Fossi capace di regolare il mio passo non mi troverei semprea altrove rispetto al passo che sto facendo. E no, non è una cosa che riesco a spiegare, è soltanto quello che è. Non ci posso fare niente, non riesco a stare al passo con me stessa. Amen. 

Però, regolare il passo sarebbe la soluzione a tutto. Non so da che parte si cominci, se qualcuno lo sapesse e me lo volesse far sapere mi farebbe un gran favore, ma la cosa importante, per ora, è rendermi conto che esiste una via e che questa via si chiama “regolare il passo” tradotto “pacemaker” (in inglese fa più figo, come al solito).

Regolare ha valore di “gestire”, cioé calibrare le energie, l’attenzione, le forze ecc. ecc. ed è sicuramente il modo giusto per fare le cose, soltanto che nel mio quotidiano le cose non seguono la programmazione, vanno come vogliono e senza criterio. Ho speso anni a cercare di domarle, nessun risultato. In questi ultimi mesi (più che altro per sfinimento) mi sono arresa: “Fa un po’ quel cazzo che te pare!” – per dirla alla Osho. E comunque le cose accadono, si sviluppano, crescono e si sistemano da sé. Anche senza il mio controllo, senza la mia programmazione, senza la mia resistenza alle catastrofi. Questa cosa mi sconvolge.

Dando per scontato che il controllo che ho sempre cercato di mantenere è totalmente ininfluente e rasenta il ridicolo, a questo punto una gestione del passo potrebbe essere quella santa via di mezzo che tanto aspettavo. Seppur forte di questa nuova presa di coscienza, però, sto sempre ferma sul: da dove si comincia?

Perché non è che fermo il mondo, sistemo il passo e poi lo rimetto in moto. Non credo sia una cosa alla mia portata. Quindi, ragionando, dovrei scoprire qual è il passo del mondo e adeguarmici. Non funziona, anche se mi ci mettessi di buona lena lo perderei dopo un nanosecondo, perché non è il mio. Cosa rimane da fare? Lo ignoro bellamente.

Le teorie stanno a mille  e la realtà se la ride, a mie spese ovviamente. Senza fare troppo la Will il coyote della situazione, vorrei comunque trovare il sistema più alla mia portata per regolamentare l’afflusso di sangue al cuore e al cervello (po’racci) perché ho come la sensazione che così non possa durare a lungo.

Forse un po’ me la tiro addosso, è sempre andata così e non vedo perché adesso dovrebbe essere diverso. Forse certe riflessioni fanno più male che bene. Forse preoccuparsi del fatto che non c’è una soluzione non è troppo intelligente. Forse non posso pretendere troppo da me. Forse è meglio che me ne vada a letto, la mancanza di sonno mi è deleteria.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               

 

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(233) Zavorra

Mollare la zavorra dovrebbe essere l’imperativo. Appena t’accorgi che ce l’hai proprio attaccata al collo, zak! Mollala lì, all’istante.

Ok, per qualche strano motivo che ancora non ho capito, io ho la predisposizione ad affezionarmi spasmodicamente alla zavorra che, di volta in volta, mi si appende addosso. Ecco, valutando quanto io sia poco incline a mollarla (sia mai, ne sentirei troppo la mancanza) si dà il caso che la zavorra prenda spesso possesso di ogni mio sciagurato passo.

Ebbene: l’ho capita ‘sta cosa e ne farò tesoro.

Ora devo solo trovare una discarica abbastanza capiente dove poter depositare all’istante i miei primi quarant’anni di zavorra accumulato compulsivamente e caparbiamente. E poi via dal chiropratico.

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(117) Buongusto

buongusto (o buon gusto) s. m. [grafia unita di buon gusto], solo al sing. – 1. [attitudine a gustare ed apprezzare le cose belle] ≈ classe, eleganza, finezza, gusto, raffinatezza, ricercatezza, stile. 2. [capacità di valutare l’opportunità di azioni e parole] ≈ accortezza, buonsenso, delicatezza, discrezione, garbo, sensibilità, tatto. ‖ intelligenza, perspicacia.

Ho voluto andare a cercare nella Treccani il significato preciso, perché volevo rileggermelo e farmelo scivolare dentro. Ne avevo bisogno.

Non frega nulla a nessuno, evidentemente, ma essere in balìa di persone che ignorano totalmente l’importanza di questo termine e l’enorme valore aggiunto che un Essere Umano acquista quando gli si attiene… mi rende furibonda.

Se l’eleganza, la finezza, lo stile, sono doti naturali – e poco le puoi inculcare in chi è tagliato grosso – l’accortezza, il buonsenso, la delicatezza, la sensibilità, il garbo si possono insegnare. Rientra nell’ambito dell’educazione.

Il buongusto ci fa fermare un secondo prima di diventare fastidiosi, molesti, fuori luogo, indisponenti, cafoni e anche teste di cavolo. Un passo prima. Ti fermi, valuti la circostanza e ti tiri indietro.

Questa accortezza ti rende un amabile Essere Umano con cui aver a che fare. Non sto parlando di essere buoni, quella è cosa dei santi, sto parlando di buongusto. Fa parte dell’amor proprio, di quel sentimento che se lo calpesti ti fa vergognare di esserti lasciato andare e esserti comportato da buzzurro, cafone, troglodita, idiota e testa di cavolo.

Ti fermi prima, giusto un passo prima, perché ti vergogni di mostrarti per quel che sei e decidi di dare al mondo la parte migliore di te.

Ecco. Lo possiamo fare tutti. Basta fermarci un misero passo prima. Non è mentire, è gestirsi con accortezza. Rendersi odiosi non è una scelta intelligente, neppure per un troglodita testa di cavolo.

 

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(88) Passo

Si dice “segnare il passo”, ognuno dovrebbe segnare il proprio passo, ma alla fine della fiera non è così. Quasi mai riesci a segnare il tuo passo, al massimo tieni botta per un po’, ma poi ti lasci travolgere dal passo degli altri o del mondo in generale.

Ok, quando riesci a segnare il tuo passo, però, ti senti bene. Ammettilo.

Ecco, quando riesco a segnare il mio passo menefregandomi allegramente del passo degli altri mi sento veramente bene. Non migliore, ma bene. Il tempo ognuno lo sente come vuole e il mio passo segue un tempo tutto suo. Si dilata e si sospende quando faccio le cose che amo fare e si accorcia drasticamente quando ricado nel dovere (quello pesante).

Non c’è cura, immagino, se non quella di concentrarsi sul segnare il proprio passo. Fai attenzione, però: se attorno a te perdi qualcuno (per un’ovvia ragione di passo sfasato rispetto al tuo) non ti lamentare. Non ho mica detto che non ci saranno conseguenze, quelle ci sono sempre. Attrezzati e procedi.

Ripeto: attrezzati e procedi.

Passo e chiudo.

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(40) Sospeso

Restare in sospeso: che rottura di palle!

Voglio che questa storia finisca ora. Non voglio stare qui ad aspettare che finisca, voglio proprio che finisca ora: non ci siano più cose vecchie in sospeso per me.

Non sto parlando di uno stato definitivo, quella è un’altra questione, sto parlando di sospensione, di quella condizione dove deve succedere qualcosa e questo qualcosa ha tempi giurassici.

Stai lì e sai che sta per accadere, ma il ponte che stai attraversando non finisce più… è lunghissimo.

Guardi giù: tutto bello sì, ma adesso avanzo. Guardi su: bellissimo il cielo da qui, ma ora andiamo avanti. Guardi dritto davanti a te e vedi che laggiù c’è la terraferma, ma… fai il passo e rimani lì.

In sospeso.

Verrebbe voglia di buttarsi giù in picchiata, sant’Iddio!

Andiamo avanti, dai!

b__

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