(638) Fragole

Mi piacciono tantissimo, ma proprio tanto. Mi piacciono così tanto che vado in cerca di quelle migliori: profumate, dolci, succose. Non sempre le trovo, anzi. Negli ultimi anni una volta su dieci, se va bene.

Questa situazione può essere presa benissimo come metafora per qualsiasi cosa che mi piaccia. Ricerco il meglio. Poi non lo trovo sempre, ovvio, ma miro al meglio che c’è. Tanto per intenderci: o mangio una pizza buona o non la mangio, o mi compro un paio di scarpe belle e comode o non me le compro proprio, o ho l’occasione di passare del tempo con persone che per me sono speciali oppure me ne resto da sola. Sono forse un’estremista nella ricerca forsennata della qualità? Sì, e Pirsig sarebbe fiero di me.

Gli escamotage che rendono light le cose che sono in realtà buonissime ma pesanti, li schifo. Piuttosto me ne privo, non è la fine del mondo, ma la Coca-Cola light non la voglio neppure vedere in fotografia. Vada retro.

Stessa cosa per le persone light. E lo so che se lo scrivo sembra ancora più brutto che a dirlo soltanto, ma è la verità. Sono una persona pessima, ma le persone con i neuroni light mi fanno salire la saudade. Non je la posso fa’.

La cosa peggiore? Più invecchio e più ‘sta cosa si radica in me. E non me ne frega niente. Se quand’ero giovane potevo avere un qualche dubbio o rimorso, se riuscivo ancora a valutare la versione sociopatica di me come un problema da risolvere, ora è tutto l’opposto. Ho una sola versione e la versione ribadisce il concetto: solo il meglio. E non è un problema. Un’aggravante che non lascia via di scampo. Lo so.

Fatto sta che il tempo non fa che mettere ancor più in evidenza quei tratti del mio carattere che cercavo di mimetizzare pensandoli orrendi. Mi viene da ridere, ora. Sono probabilmente diventata una persona orrenda e la trovo una cosa superdivertente. A saperlo prima!

Noi prendiamo una manciata di sabbia dal panorama infinito delle percezioni e la chiamiamo mondo.

(Robert M. Pirsig, “Lo Zen e l’Arte della manutenzione della motocicletta”)

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(637) Identico

Stasera faccio una cosa diversa: prima scrivo e poi ricavo dal testo il titolo. Si potrebbe pensare che sappia già cosa scrivere, giusto? No, sbagliato. Soltanto che mi sono un po’ stancata delle gabbie che mi sto costruendo da 636 post, ho bisogno di un po’ d’aria senza filtri.

Potrei parlare di come una volta che ti viene confezionato addosso un abito sia un gran casino cambiarselo. Tipo: ti fai vedere in giro con bermuda hawaiane, canotta fantozziana, calzini con sandali alla tedesca e per tutti sarai per sempre quel disadattato che in una giornata di scazzo s’è fatto quattro passi sovrappensiero mentre cercava una buona idea per pagarsi le bollette. Fa niente se di solito vesti in frac e sei un gran signore, tu sei e rimani per tutti un eccentrico e grottesco fannullone finché muori. Stessa cosa anche fosse la situazione inversa. Funziona così.

Ogni volta che qualcuno mi chiede che lavoro fai, partendo da questo presupposto, vado in crisi. Ho fatto la cameriera, la baby-sitter, la donna delle pulizie, la commessa, la centralinista, la segretaria, l’insegnante di scrittura creativa e ora sono responsabile della comunicazione di una manciata di start-up… ho cambiato abito mille volte ed è probabile che lo cambierò ancora, quindi mi chiedo: che lavoro faccio?

Le varianti confondono. La fluidità, contrapposta alla catalogazione, affatica. La malleabilità viene guardata con sospetto. Il cambiamento infastidisce.

Abbiamo i nostri schemi, i nostri scatoloni in cui infilare tutto, mettiamo ogni cosa al suo posto così la teniamo sotto controllo, così non ci salterà addosso per mangiarci le orecchie durante la notte. Mi viene da ridere, ma che amarezza!

Siamo così impegnati a pretendere pulizia dagli altri che nascondiamo la nostra sporcizia sotto lo zerbino che diventa collina e montagna e noi come se niente fosse domandiamo ancora e ancora: cosa fai? Cosa fai? Cosa fai?

E se cambiassimo la domanda in: chi sei?

E no! Comporterebbe la rogna di andarsi a cercare la risposta in chissà quale anfratto dell’anima. Sempre diversa a ogni occasione. Perché non siamo mai una cosa sola e sola soltanto. Conteniamo moltitudini come Walt Whitman ci ha insegnato, e queste moltitudini ci spaventano a morte. Le nostre, poi, sono le più terrificanti di tutte perché in fondo in fondo le conosciamo bene, anche se ce le nascondiamo. Sappiamo che siamo noi ad averle generate e non riusciamo a perdonarcelo. Ma perché?!

E se non ci fosse nulla da perdonare? Eh? 

Lo sguardo che va a pesare sul collo affossa l’idea che abbiamo di noi ed è una violenza inaccettabile da noi stessi perpetrata. Se, invece, è il nostro sguardo a pesare sul collo di qualcun altro meritiamo lo stesso inferno che stiamo causando. Ma proprio uguale uguale.

Identico.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(636) Spiga

Spiga ha come sinonimi: conseguenza, effetto, esito, frutto, risultato. L’ho scoperto oggi. Cavoli, non lo sapevo. Mi si è aperto un mondo.

Se a frutto ci si può arrivare facilmente, con conseguenza-effetto-esito-risultato è già meno ovvio. Almeno per me. Ed eccomi qui a elucubrare su come poter utilizzare questa nuova risorsa in contesti che mi sono famigliari… che lingua pazzesca abbiamo!

Parliamo allora delle spighe con cui mi trovo a combattere in questi giorni, derivate da brutte abitudini di pensiero: quando ci si accorge che il proprio pensiero è calibrato per distruggerci bisogna cambiarlo. Farlo virare verso felici scappatoie. Detto così son bravi tutti, a mettere in pratica certe acrobazie, però, neppure il Barone Rosso. Mi piacerebbe si potesse fare come con il gesso sulla lavagna: passi il cancellino e correggi. Coreggi il pensiero, gli rendi l’equilibrio, la dignità. Senza accuse né giustificazioni, non servono. Basta correggere la disfunzione, farlo in silenzio va bene uguale. Può essere un gesto privato, non da nascondere, ma da viversi nella propria intimità. Cosa d’altri tempi? Forse, ma il tempo è una questione di percezioni e certi magheggi vengono facili.

Non ho mai fatto nulla pensando di schivarne le conseguenze, non m’è proprio mai venuto in mente di poterlo farlo – va’ a capire il perché! – ma ci sono state conseguenze un po’ esagerate in certi frangenti – va’ a capire il perché!

E ti viene da chiedere: ma quelli che mi sorpassano in tangenziale ai 110 Km/h si prendono la multa o vengono calcolati illegali soltanto i miei 96,5 Km/h anche se il limite è per tutti di 90 Km/h?

Ecco, stessa cosa per gli effetti esagerati di certe azioni da nulla: ma quelli che la fanno ben più pesante di me si sciroppano conseguenze adeguate o la loro parte rimbalza su di me e tanti saluti?

Se stai lì a farti due calcoli ti parte il veleno, meglio glissare. Le spighe più belle sono i frutti della terra, in ogni caso, specialmente quando sono mature e hanno il giallo del sole che le fa brillare. Le più belle, non ce n’è per nessuno.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(635) Calcio

Ci sono stati giorni in cui il calcio lo subivo allegramente, piaceva a tutti quelli che mi stavano attorno (ero bambina) e mi sembrava che piacesse anche a me. Magari anche mi piaceva perché ascoltando i commenti deliranti di mio padre e dei suoi amici, piano piano, iniziai a capire le cose principali: fallo, punizione, fuori gioco, calcio d’angolo, rimessa in gioco, arbitro cornuto… cose così.

Verso i vent’anni mi accorsi che non me ne poteva fregare di meno di quel gioco sopravvalutato e smisi di seguirlo. Senza ripensamenti.

Una volta che capisci che lo puoi fare, che puoi mollare le cose che non ti interessano più, è fatta. Non ritorni sui tuoi passi perché ormai sei andata oltre, ti sei resa conto che sei cambiata, che quella cosa non esercita più alcuna attrattiva su di te e va bene così. Mi sono lasciata alle spalle un milione di cose che ormai non mi interessano più, ma senza mai rinnegarle: sono state divertenti, sono state utili, mi hanno lasciato bei ricordi (e anche brutti), tornassi indietro massì le rifarei, ma basta grazie.

Quello che voglio dire è che pensare che qualcosa che adesso ti piace ti piacerà per sempre può diventare una gabbia scomoda per viverci. Funziona anche con le persone, in realtà. Non è una brutta cosa cambiare gusti, cambiare idea, cambiare interessi, cambiare in generale. Certo, sarebbe bene che il cambiamento comportasse un miglioramento, ma al di là di tutto è una valutazione che si può fare solo a posteriori. Col senno di poi son bravi tutti a sputare sentenze.

Il calcio di adesso non mi piace, è una baracconata. Non ha la purezza del 1982, quando mio padre dalla felicità diede un pugno d’entusiasmo sulla piccola televisione in bianco e nero facendo saltare via la maschera… ma chi se ne frega, abbiamo vinto i mondiali! Campioni del mondo!

Certe volte, per non rovinare quelli che saranno ricordi inestimabili, bisogna allontanarsi altrimenti ti incattivisci. L’ho fatto con il calcio e l’ho fatto con altre cose ben più importanti.

In fin dei conti, ho un cuore da preservare, e ne ho uno soltanto.

 

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(634) Aculei

Aver cosparso il mio corpo di aculei – energeticamente parlando – mi ha permesso di sopravvivere, il che è già un bel risultato. Dotare di aculei la mia mente e il mio cuore – inteso come sfera emotiva – è stato ben più difficile, ma necessario. Talmente necessario che ormai mi sta bene così.

Lo so, c’è chi ancora proclama “va’ dove ti porta il cuore”, ma in tutta sincerità è uno slogan che poteva funzionare negli anni 90, non certo ora. O comunque può funzionare a 20 anni, ma una volta che superi la soglia della maturità ti conviene usare più il cervello che il cuore. Almeno questa è la lezione che la vita mi ha dato, non piacevole, ma è meglio sapere come vanno le cose, s’impara a desiderare meglio, a sognare meglio.

Tenere una certa distanza con il mondo che ti sta attorno, non significa che te ne freghi, ma che ti cauteli. Il mondo che ti sta attorno, spesso, ti si stringe addosso tanto da toglierti il respiro e bisogna respirare per campare, questo rimane un dato di fatto. Lasciamo stare se il mondo lo fa perché è cattivo o perché non è pienamente consapevole, non è importante. Non a livello di respiro. Quando ti manca, ti manca, a prescindere dai motivi per cui ti manca.

La questione buonafede o cattiveria, invece, diventa importante quando analizzi il tipo di mondo che ti sta addosso: tieni il buono e cerca di eliminare ciò che ti nuoce. Oltre che respirare c’è bisogno di un certo agio di movimento per poter vivere dignitosamente. Lo spazio bisogna farselo, bisogna proprio farselo. Ecco a cosa mi sono serviti gli aculei, non ho trovato alternativa valida. Sì, mi rendo conto che avrei potuto fare di meglio, ma non ho genialità nel mio sangue, al massimo posso avere qualche buona idea ogni tanto. Le buone idee sono spinte, il più delle volte, dalla massima: a mali estremi, estremi rimedi. Che contiene molta molta molta verità, non si discute.

Ritornando agli aculei, e dando per scontato che non me ne voglio disfare perché mi saranno sempre più utili, bisogna che io trovi il modo di renderli retrattili come riesce bene a Wolverine. Un miglioramento necessario, e quando è necessario si fa e basta. Mi serve però un lampo di genio, so che la tecnica c’è, devo solo scovarla.

Amen.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(633) Senso

Certe cose che faccio sembrano senza senso. Agli altri, intendo, non a me (se così non fosse avrei un grosso problema). Non è facile perseverare facendo finta di niente perché il consenso degli altri è un bisogno insito nell’animo umano – chissà perché. Eppure vado avanti.

Questa mia determinazione è considerata presunzione, e anche questo è un dettaglio che mi comporta un certo smarrimento, specialmente quando sono stanca. Ultimamente sono molto stanca, ciò significa che lo smarrimento è cosa di tutti i giorni. Quindi sto imparando a gestirmelo.

Ho notato che per poterlo maneggiare come si deve devo staccarmi da tutto, focalizzarmi sulla meta da raggiungere e valutare soltanto dopo – una volta raggiunta – se sono stata insensata o meno. La chiamerei disciplina, perché non è per nulla istintiva, devo proprio impormi un certo tipo di pensiero e un certo tipo di atteggiamento mentale per poter avanzare. Lentamente, magari, faticosamente, di sicuro, ma comunque avanti.

Questi miei pensieri quotidiani stanno continuando da ben 633 giorni, significa da quasi 2 anni. Giorno dopo giorno, pensiero dopo pensiero. Senza saltarne uno, aggiungerei. Sembra senza senso, vero? Eppure il senso c’è. Non credo sia una buona idea spiegarlo ora, ma forse far presente che la scrittura è disciplina e che è, soprattutto, introspezione crudele può essere un buon punto di partenza per far capire a chi transita in questo diario virtuale che non si parte mai da una storia, si parte sempre dalla propria storia. Chi siamo, da dove veniamo, cosa pensiamo, cosa vogliamo, dove vogliamo andare. Quando creiamo una storia partiamo sempre dalla nostra storia, ma chi scrive davvero non fa della propria biografia letteratura, bensì trasforma la sua visione per farne un’opera d’arte.

Mi è difficile, ora, dare altre spiegazioni, ma so che il senso che accompagna tutto questo mi porterà alla meta: tre anni di giorni così, raccontati a nessuno/tutti in un blog che non reclamizzo e che al massimo avrà una manciata di lettori silenti. Non mi serve altro se non la mia determinazione, al di là di ogni risultato possibile, perché non inseguo un risultato, percorro la mia strada. Questa è la mia storia, non un romanzo, e per chi mi pensasse presuntuosa… bé, non m’importa nulla.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(632) Liscio

Quando va tutto liscio io mi stupisco. Mi esce lo stupore quello puro. In un istante benedetto mi rendo conto che è possibile, che può succedere anche a me, che a ‘sto giro sono io la miracolata. Oh!

L’ordine delle cose, nelle cose, tra le cose ecc., prevede un flusso di energia che non ha interruzioni e dal punto A si scivola al B e al C e al D e l’Universo si compie. Così dev’essere, e così tante persone vivono la loro esistenza. Liscio, tutto liscio come l’olio. Che benedizione!

Io, invece, inciampo ovunque e ad ogni passo. Non c’è verso, il percorso dei flussi energetici che mi coinvolgono porta in sé tumulti e tempeste. Fedele alle Leggi di Murphy, se una cosa può andare storta lo farà. Poi magari si risolve tutto, ma intanto ti fa sputare l’anima per venirne a capo. Così è. Dagli eventi più insignificanti a quelli più importanti, così è.

Graziealcielo, anche per me esistono le eccezioni. Sono quelle cose che accadono a sorpresa, che mi fanno dire: oh!

Oh! Sono riuscita a trovare parcheggio in due secondi!

Oh! Non c’è traffico oggi!

Oh! Sono riuscita a trovare le scarpe che mi piacciono e sono pure comode!

Oh! Il camion che poteva travolgermi è riuscito a schivarmi!

Ecco, cose così. Sono le eccezioni benedette, quando va liscio qualcosa su cui non ci avresti scommesso un centesimo. Quando una piccola fortuna ti cade in mano e tu la usi nell’immediato per creare benessere per te e per chi ti sta attorno. Liscio come un valzer, il suo 1—2-3 giro 1—2-3 giro che segue la melodia e non ci sono rimbalzi, non ci sono rinculi, non ci sono sbattimenti. Sulla pista tutti seguono lo stesso ordine di passi e non c’è neppure il rischio di scontrarsi. Oh!

Per una come me, abituata agli autoscontri, un bel valzer ogni tanto pacifica il cuore. Liscio come l’olio.

Oh!

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(631) Balsamo

Il buon vecchio Manzoni definiva la benevolenza un balsamo, ovvero un rimedio portentoso contro la sofferenza. Ognuno ha il suo, alcuni ne hanno più d’uno. Bisogna ammetterlo: un rimedio portentoso contro la sofferenza non è cosa di tutti i giorni. Balsami che abbiamo la potenza di rimediare a certe abominevoli ferite non sono facili da trovare. E più li cerchi e più questi ti si celano.

Non è che ‘sto pensiero mi stia portando molto lontano, credo di essere troppo stanca perfino per riflettere – anche se le dita sulla tastiera vanno dove sanno andare perché hanno ormai vita propria. In momenti come questo, a fine giornata, quando la giornata è stata intensa come quella di oggi ho solo voglia di buttarmi a letto e dormire tutte le ore che posso. Potrebbe essere che in questo periodo il mio balsamo sia il sonno?

Allora ben venga! Ci sono montagne di sonno perso che mi devo scalare, un mese non basterebbe. Le cose più ovvie sembrano quelle meno importanti, non ho mai capito il perché. L’ottusità umana – che appartiene anche a me – è un mistero, oltre che una vergogna. Ci vorrebbe un balsamo per guarire la vergogna o l’ottusità? No, non ora, non riesco neppure a tenere gli occhi aperti, figurati se riesco a tenere collegate le sinapsi.

Buonanotte a chiunque si sia fermato qui per leggermi, mi scuso, ma stasera meglio di così proprio non riesco a fare. Davvero.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(630) Occupazione

Occupare non è un verbo che mi piace, ma avere un’occupazione mi piace. Mi piace pensare che avere un’occupazione – inteso come avere qualcosa che ti occupi il tempo per sollevarti dai pensieri – sia un grande privilegio. Avere niente da fare tutto il giorno sarebbe per me la galera. Durerei due giorni due, poi mi butterei dalla Rupe Tarpea.

Ho impegnato ogni giorno della mia vita tentando di occupare le mie giornate in modo che mi fossero di giovamento. Per questo ho fatto parecchi lavori diversi da ragazza, appena quell’occupazione diventava noiosa routine mi davo da fare per trovarmi un’altra situazione. Continuavo a scrivere, è vero, ed era la cosa migliore che potessi fare. Quindi mi sono tatuata nel cuore le parole di Italo Calvino:

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Così ho fatto. Inseguendo il bene, attraversando l’Inferno di tutti.

Quello a cui pensavo stasera è che avere qualcosa che ti occupi la mente, qualcosa che ti doni gioia, per poi magari metterlo in atto e renderlo concreto, è un diritto di tutti. Chi lo scansa pensando che il fare-niente, il pensare-a-niente, sia la grande libertà, la liberazione da tutti i mali, si sta ingannando. E non lo so perché tanti si vogliono rifugiare in questo inganno, non so se sia per paura o per pigrizia, so soltanto che si tolgono il sale della vita. Stai sognando il niente, mentre potresti sognare di fare tutto. Tutto. Fare tutte quelle cose che la vita ti offre affinché tu possa superare ostacoli e limiti superabili, per stare bene. Soltanto per stare bene. Stare meglio.

Fare niente, non suona brutto? Il niente chiama il niente, è un dato di fatto. Il niente non ti riempie, non ti soddisfa, non ti fa arrivare prima al Nirvana. Il niente ti annienta. E mi domando: come puoi pretendere che persone che affrontano l’ignoto perché hanno fame di vita, una volta superato ogni limite possano resistere nel niente assoluto in attesa che qualcuno decida per loro? Tu lo faresti? Quel tipo di persone nel niente non ci stanno. Lo hanno dimostrato affrontando l’Inferno più atroce, non c’è bisogno di chiedere loro alcuna ulteriore prova. Si sono guadagnati la vita, definitivamente.

Oltre le apparenze, quella loro fame vale molto più del niente anelato da chi ha tanto, fin troppo. Molto di più di chi sogna quel niente lamentandosi di quel troppo che ha.

Occupare la tua mente, le tue mani, le tue gambe con i desideri che alimentano la tua vita: non pensi che debba essere e che sia una benedizione dal Cielo? Io sì.

 

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(629) Fuori

Fuori può essere accompagnato da una moltitudine di piccoli e grandi concetti che vanno a rafforzare il suo stato: sei fuori quando non sei dentro. Eh, sembra facile, ma forse non lo è.

Fuori dalle regole, fuori dal mondo, fuori porta, fuori serie, fuori dal seminato, fuori fuoco, fuori sede, fuori dal coro, fuori orario, fuori tema, fuori di testa, fuori casa, fuori controllo, fuori dal tempo, fuori dal comune, fuori strada, fuori posto, fuori classe, fuori servizio… fuori dalle balle! – è un’esortazione forte e richiede sempre il punto esclamativo.

Il mio stato normale è proprio questo essere fuori, ed è una cosa sottile sottile sottile, che più cerchi di tenere in mano e più ti sfugge. Ho pensato molto al fatto che volevo venirne a capo, volevo capire, volevo trovare delle ragioni, volevo volevo volevo. Forse troppo.

La mia fortuna è che certe volte mi stanco di essere ostinata e lascio andare. No, non è che lascio perdere, mi sale il nervoso se penso a tutte le cose che ho dovuto lasciare andare o addirittura allontanare da me, lasciare perdere non è nelle mie possibilità – il rimurgino sì, quello è uno sport in cui do il meglio di me stessa. Ripenso a quello che ho lasciato andare e mi dico che avrei potuto fare diversamente, magari mi sono persa un’occasione. Stronzate, lo so benissimo, ma per un istante ci credo davvero e mi sento un’inetta. Poi passa, ma non passa mai il mio essere fuori.

Fuori tiro, fuori dagli schemi, fuori rotta, fuori gioco, fuori luogo, fuori dai binari. Fuori. Nel mio essere fuori raramente lo sono in compagnia. Ma proprio rarissimamente. A chi sta fuori come me la compagnia non fa sempre bene, il silenzio invece sì. La compagnia ideale è quella che non ti obbliga  a rientrare, quasi fosse un dovere che cerchi di schivare. Ma non è così semplice. Se stai fuori soffri il vento e il sole e la pioggia e la tempesta e non si smette mai di cercare rifugio. E quando lo trovi dura poco. Stare fuori è una condizione dell’Anima e l’Anima non si cambia, ma l’Anima – se l’ascolti – ti cambia.

Non è che è sia meglio stare fuori che stare dentro, non lo potrei mai affermare perché non so come si sta dentro. So solo che va bene comunque, basta saperlo, basta potersi vivere la propria condizione con un certo equilibrio e onestamente.

E poi c’è chi finge, in quel caso non c’è proprio niente da dire.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(628) Presenza

Oggi è stato un giorno di presenza. Presenza piena. Non sono mai stata altrove, sono rimasta attaccata a quello che stavo vivendo, su più livelli, ma sempre ben focalizzata sullo stesso istante: il presente.

Sembra una cosa da niente, me ne rendo conto, ma per una come me che è sbrindellata in diversi istanti in contemporanea con grande beffa dello spazio e del tempo – per tutto il tempo che vive – questo è un giorno importante. Che se fossi meno stanca mi scolerei una Guinness per festeggiare.

Posso farlo, posso essere presente, pienamente presente e in controllo di quello che sto vivendo (di ogni cosa che penso e che dico/faccio) senza perdermi pezzi, battiti. Non lo so se è perché stamattina mi sono svegliata strana e ho continuato a esserlo per tutto il giorno, oppure perché le situazioni che si sono verificate oggi mi hanno facilitato la cosa. Non lo so. So soltanto che non mi sono distratta, non ho pensato “vorrei essere in Islanda a pescare ghiaccioli”, non ho avuto la tentazione di appuntarmi qualcosa che non c’entrava nulla con quello che stava accadendo davanti a me. Più ci penso e più mi sconvolgo. Sarò stata posseduta dallo Spirito del Presente in anticipo rispetto al rito natalizio? Lo ignoro bellamente.

Fatto sta che è stata una giornata intensa, che mi ha fatto viaggiare in mondi umani che non conoscevo e mi ha aperto a pensieri nuovi. Come se mi fossi fatta una bella respirata in pieno Oceano. Se riuscissi a vivermi tutta la settimana in questa condizione benedetta avrei risolto ogni malumore. Non credo che riuscirò a bissare domani, ma se riesco a ricordarmi esattamente come mi sento ora forse avrò voglia di riprovarci. Magari la prossima settimana, chi lo sa.

Essere presente anche quando l’appello non è obbligatorio… lo consiglierei a tutti.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(627) Multitasking

Va bene, lo so fare. Ho dimostrato al mondo e a me stessa che lo so fare, so essere anch’io multitasking. So seguire tre progetti in contemporanea, so ascoltare qualcuno che mi parla (capendo quello che sta dicendo) e nel contempo scrivere un’email importante senza fare errori, rispondere al telefono, prendere appunti, farmi mentalmente la lista della spesa e calcolare quanto mi rimarrà dello stipendio del mese dopo aver pagato tutte le tasse. Sorprendente? No, normale amministrazione. So fare acrobazie che manco al Cirque du Soleil avete visto. E allora?

Allora alla fine della giornata ho un mal di testa epocale, non ricordo più neppure come mi chiamo e odio tutto il mondo – isole comprese. Un bel risultato no?

Non è umano, il multitasking non è umano: non puoi fare tutto bene se fai tutto contemporaneamente, è provato dalla scienza. Anzi, dalle neuroscienze. La vogliamo smettere o no di fare i fenomeni e recuperiamo il rispetto per  noi stessi e per il nostro povero cervello prima che questo ci dia un calcio in culo per abbandonarci alla demenza senile? Sì o no?

Ho deciso che sì. Sì, Sì, Sì, Sì, Sììììììììì!!!!

D’ora in poi se faccio una cosa voglio concentrarmi solo su quella. Non voglio essere interrotta da nessuno, non voglio che mi si diano altre incombenze, non voglio sentir parlare di urgenze, di scadenze scadute e di cose importanti all’ultimo secondo. Voglio riprendermi la mia sacrosanta scaletta del giorno e fare la spunta di ogni voce con criterio rigoroso: dalla prima all’ultima per ordine di urgenza. Sarà lei, e solo lei, il mio dio per i prossimi mesi. Nessun altro.

Non voglio più avere questo mal di testa dannato, non voglio più avere amnesie imbarazzanti e non voglio più odiare il mondo terracqueo soltanto perché non riesco a dire: non adesso, più tardi. O domani. O la prossima settimana. O il prossimo mese, il prossimo anno, il prossimo millennio-e-nel-frattempo-potrei-anche-aver-cambiato-idea, occhio!

Devo riprendermi il mio sacrosanto diritto a fare una cosa per volta, a farla bene, a farla una volta sola, a farla con piacere. Sono pronta.

 

 

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(626) Scomodità

Nomina una scomodità (mi sono detta oggi). Una sola? (mi sono risposta). Già, anche se sono diventata una specialista dei telegrammi, una sola è davvero poco. Posso scriverne cento di scomodità che ho abbracciato fin da piccola senza neppure accorgermene. Mi sembrava fosse normale, fosse una cosa da tutti. Crescendo ho capito che non era così.

Però anche alle scomodità ci si può affezionare, pensi che alla fine non è proprio ‘sta gran cosa e vabbé, va bene così. Sbagliato.

Mantenere salde certe scomodità non va bene, non va bene affatto. Metti che hai un materasso che ti spacca la schiena. Cambialo, subito! Metti che hai le scarpe strette. Ma sei matto? Buttale, ora! Ecco, siamo tutti d’accordo che bisogna disfarsi di certe scomodità, giusto?

Non è così in effetti, ci sono delle situazioni estremamente scomode che teniamo strette e queste maledette ci rosicchiano i nervi, fino a staccarceli come corde di violino spezzate dal logorio dell’archetto. Non siamo qui per soffrire, ce lo dicono a messa, ma è una balla. Siamo qui per vivere, fare in modo che il vivere non sia un fastidio è compito nostro.

E il nostro diritto alla comodità è il diritto di tutti. Ovunque.

Non significa calpestare le comodità degli altri per stare più larghi, neppure togliere di mano le comodità altrui per averne di più. Ci vuole misura, come sempre, ci vuole misura e rispetto, come sempre deve essere.

Ho deciso che toglierò di mezzo alcuni fastidi, il primo fra tutti è il silenzio obbligato, poi verrà il turno del sorriso forzato, poi penserò al sì stretto tra i denti. Uno dopo l’altro cadranno da me per farsi seppellire come meritano.

È tempo di prendersi la comodità di essere soltanto quella che sono. Adesso.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(625) Confronti

I confronti sono una brutta bestia. A forza di comparazioni ci si fa un torto difficile da lavar via, per quanto tu possa grattare resta sempre una macchia. Ci cadiamo tutti, continuamente. Ed è quel continuamente che bisognerebbe contenere, costruire un bel argine per non perdere la brocca. 

Il confronto che ci vede vincitori, ci dà l’illusione di essere superiori, migliori. Soltanto un gioco di prospettive, un abbaglio, che però incalza l’ossessione di noi stessi e ci rende arroganti, supponenti, prepotenti. Non va bene, stiamo un attimo a montarci la testa e una vita a farcela smontare (qualcuno lo farà, prima o poi, anche se non glielo chiediamo – una sorta di Giustizia Universale, chiamiamola così).

Il confronto che ci vede perdenti, purtroppo, non ci dà soltanto un’illusione ma ci costruisce una mina antiuomo dentro lo stomaco, che appena ci mettiamo il piede sopra: bum. Iniziamo a guardarci con occhi brutti, con disprezzo. Cominciamo da lì ad analizzare ogni dettaglio che ci riguarda come se non vedessimo l’ora di trovarci ulteriore materiale per denigrarci, per raderci al suolo. Solitamente ci riusciamo, siamo maghi in questo, nessun rivale.

I confronti sono una brutta bestia che ci costruiamo da noi, quotidianamente, con mattoni piombati che ti vanno a pesare sul cuore. Non riesci a guardarti con disincanto, a considerarti un Essere Umano normale, ti vedi o come Superman o come un atomo di niente. E non va bene, lo sappiamo che non va bene, ma lo facciamo, sempre. Un eterno Io vs. Resto-dell-Umanità che neppure quando ha senso fa capo a un valore.

Non sto qui a dire che siamo tutti unici e irripetibili, anche se lo penso, eppure siamo quello che siamo e siamo qui per fare del nostro meglio, soltanto questo. Fare del nostro meglio ci mette in una posizione di imparagonabilità magnifica. Ammirare le qualità o le vittorie degli altri e osservare i loro limiti e le loro debolezze, senza marce funebri né sambe indiavolate, sarebbe già un bel modo per tenersi d’occhio, no?

Virtualmente parlando, non fa una grinza. Bastasse questo sarei a posto.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(624) Gongolare

Ho imparato a farlo con una certa eleganza, lo faccio nel mio intimo e nessuno se ne accorge, ma lo faccio. Questa la mia confessione. Ecco.

Lo faccio quando vengo mal tarata, mal valutata, mal considerata e poi – alla luce dei fatti – si viene a scoprire che oggettivamente avrei potuto essere io quella giusta. Ossì, è capitato, molto molto spesso, e ho gongolato. Non sempre felice, spesso con amarezza, come se avessi perso importanti treni che mi avrebbero portato chissà dove, e magari mi avrebbero davvero fatto fare il giro del mondo, chi lo sa? Ma le cose vanno come vanno e mi sono anche andate bene, non posso lamentarmi.  

Eppure, questi giudizi e pregiudizi prima mi mortificavano, mi mettevo in discussione fino a disintegrare ogni cellula di amor proprio e finivo con lo sposare io stessa quella visione svilente che mi era stata cucita addosso – anche senza motivazioni solide – dando per scontato la giustezza di quello sguardo. Mi facevo convincere, ecco. E siccome non sono una che sgomita, che alza la voce, che si appella al diritto di essere trattata equamente (vedi alla voce: sessismo, machismo), venivo messa da parte senza neppure un “sarà per la prossima volta” – così, come gentilezza effimera eppur utile. 

Anche ora vengo messa da parte, ma… non me ne frega niente. Anzi, in certe situazioni spero di non essere presa dentro perché sarebbe soltanto una grandissima perdita di tempo. Me ne sto in un angolo e penso: “Meno male che mi ritengono un’inetta, buon per me!”. 

La soddisfazione che mi fa gongolare deriva semplicemente dalla mia consapevolezza interiore: so che potrei fare un buon lavoro, so che potrei essere la persona giusta, ma non serve né dirlo, né dimostrarlo, né sottolinearlo, né farlo presente in altro modo. Non serve. Fatica inutile, spreco enorme di tempo e di energie. Però, gongolo. So che potrei, non sarà, ma potrei. E allora non c’è più mortificazione, non c’è più autoflagellazione, non c’è più svilimento. C’è solo la realtà delle cose che è complicata e che sfugge al controllo e che può cambiare di secondo in secondo e che va così come deve andare. Sempre al rovescio.

Gongolo perché ho imparato a valutarmi con obiettività. Una grande grandissima crescita per una bambina complessata che, comparandosi agli altri, pensava di essere sempre lei quella sbagliata.

Gongolo, in silenzio, abbracciandomi un po’. Eh.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(623) Conti

Bisogna saper fare i conti. Detto da me, diplomata fantozziana che ha ben pensato di fare altro nella vita, è tutto un dire. Fare i conti e farli bene, questo ti fa fare passi in avanti costanti e solidi. 

Forse il Perdite e Profitti che alle superiori mi ha fatto sputare sorci verdi, grazie a una prof che voleva farmi capire per bene che quella non era la mia strada, mi è entrato così bene nel sangue che circola-oggi-circola-domani mi ha aiutato a fare i passi giusti, anche se non sempre consapevolmente. La mia coscienza si è rifiutata più volte di mettersi lì con il pallottoliere a spostare di qua quel che andava spostato di qua e di là quello che stava di qua e non doveva starci, eppure alla fine ‘sto lavoro infame si è rivelato utile.

La parte mortificante, per me, arriva quando devo portare a terra i progetti e capire quanto sono effettivamente geniali come io mi racconto e, soprattutto, quanto sono fattibili come io auspico. I conti non tornano mai come dovrebbero, come io vorrei che tornassero. Da lì la caterva di problematiche da risolvere, che può semplicemente mandare all’aria entusiasmo, buoni propositi, fiducia nella tua buona stella, speranza nell’aiuto Divino, offerte di sangue all’altare della botta di culo. Tutto quanto in un colpo solo.

Mi ritrovo, pertanto, sempre lì con lo Stato Patrimoniale del Dare e Avere, a capire dove posso dare di più (come cantava il trio Raf-Ruggeri-Tozzi) e dove di meno, dove è il caso di Avere e dove scordarselo proprio. Non riesce a piacermi, è sempre la parte peggiore di tutte, eppure è necessario. Far tornare i conti  è necessario. Ti fa capire quello che c’è e quello che manca. Ti rende evidente dove manca qualcosa e dove ce n’è troppo. Ti svela arcani interessanti tipo: perché sono sempre al verde-dove sono sparite le risorse-cosa mi resta da fare ora? Cose così, di poco conto, vita-o-morte.

No, niente da fare, neppure a scriverla ‘sta cosa riesco a digerirla. Puah!

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(622) Spinta

Ci vuole una spinta, che parte dal plesso solare che porti il tuo corpo in avanti. Una spinta che ha motivazioni che non serve neppure capire, ma è importante sentirne la potenza, la grandezza delle cose ineluttabili. Ecco, quella spinta ti fa superare tutto: deserti, oceani, mancanze, violenze. Tutto.

Non è che sei più forte degli altri, non sai neppure quanta forza ti è rimasta nelle ossa. Non te lo sai spiegare, eppure tu sei qui e altri no. Lo chiamano Destino. Chi dice che sia lui a decidere di te, chi dice che sei tu che ne abbracci uno o l’altro decidendo per te. Va’ a capire chi dei due comanda. Si è comunque inseparabili, sembra.

Nasci, vivi e muori. Tra il vivi e il muori il Destino si compie. Tutto lineare, tutto molto semplice. Tutto così come deve essere.

Dicono che te lo puoi costruire il tuo Destino, piano piano. Dicono anche che il Destino è uno solo e per quanto tu faccia non gli puoi sfuggire. Dicono che ognuno ha quello che si merita, va’ a capire la tabella del merito chi la compila. Dicono che alcuni non si meritano il Destino che hanno avuto, ma non si sa se è detto per compassione o convinzione.

Penso che sia la spinta a comandare, a comandare noi e i nostri Destini. Non puoi gestirla, non puoi alimentarla, non puoi chetarla, non puoi distruggerla. Lei decide cosa fare di te: gestirti, alimentarti, chetarti o distruggerti. La spinta sa tutto di te e usa tutto quello che sa per te e, a volte, contro di te. La spinta non è buone e non è cattiva, è la spinta e basta. Credo che agisca motivata da una passione o da una disperazione o da una aritmia del cuore. Credo che, spesso, se non ci fosse lei saremmo immobili per la gran parte del tempo, lì a valutare ogni scelta possibile. Il libero arbitrio è una tagliola, se ti prende i piedi non avanzi, se ti prende le mani non afferri. La spinta ti ci può far finire in mezzo o ti fa fare un balzo di lato e la scampi.

La mia spinta la chiamo per nome, un nome che non pronuncio mai. Siamo così io e lei, ci rispettiamo e ci temiamo un po’. A fasi alterne, dipende dai giorni e dagli umori. Lei teme che io la neghi, io temo che lei mi spinga troppo oltre ai miei limiti e che il mio cuore la prossima volta non reggerà.

Così aspettiamo, insieme. In silenzio.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(621) Sazietà

Hai fame, mangi e, se hai mangiato abbastanza, sei sazio. Sei soddisfatto. Per un po’ non guardi più il cibo, ti occupi di altro. Va così.

Se vai al supermercato a fare la spesa e sei affamato, povero te. Se ci vai a pancia piena, comprerai esattamente quello che ti serve, seguendo pedissequamente la lista che ti eri fatto a casa. Va così.

Il senso di sazietà ti permette di non mangiare fino a morirne, ti fermi un po’ prima. Gran cosa per i golosi e per chi cerca di colmare altri vuoti con il cibo – cosa legittima, ma pericolosa.

Da tutto questo monologo, che precede con logica lineare, vien da pensare che se sai cosa significa avere fame e non poter mangiare non immagini di ammazzare chiunque soffra di questa mancanza. Se sai cosa si prova e vuoi che altri provino lo stesso sei – in tutto e per tutto – una gran brutta persona, che vuole vendicarsi di un supposto torto subito su chi non ne ha colpa. Gran brutta persona, confermo. Se, invece, non sai come si sta ad avere veramente fame, tanta fame, ma talmente tanta che ti si mangia da dentro, dovresti fermarti un attimo a riflettere. Rifletti su quanto sei fortunato, su quanto la vita sia stata buona con te, su quanto questo tuo privilegio ti renda immune dalla brutta bestia che ti nasce quando la fame ti devasta le viscere. 

Dopo questa attenta riflessione, dovresti aprire dentro di te i rubinetti della compassione. Un sentimento elevato, che ti fa abbracciare la mancanza disumana che gli altri provano e senti il tuo cuore piangere. Ti fa pensare: “Cosa posso fare per toglierti quella fame devastante dal corpo e dalla mente?”. Questo renderebbe te un Essere Umano degno della fortuna di cui gode, e l’Essere Umano a cui tu ti rivolgi una persona nuova. Sazia, appagata, grata. Grata e pronta a fare altrettanto con un altro Essere Umano in difficoltà.

Io credo che questa sia la strada giusta. Chiunque mi dica che gli Esseri Umani che hanno fame meritano di morire in mare o a casa loro, è un essere indegno: della sua fortuna, della sua esistenza. Se hai paura dell’invasore, fattela passare. Fattela passare lavorando con un bravo terapeuto sulla tua rabbia, le tue debolezze, la tua autoreferenzialità egoica. Sono problemi tuoi, di nessun altro.

E non ho più nulla da scrivere per stasera. Buonanotte.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(620) Glitter

Quando la realtà manca di luccichii bisogna glitterarla un po’. Non è cattiveria, la sua, è che le cose sono sempre troppo complicate e si perde brillantezza a star dietro a tutto. Una spruzzata di glitters e via! Cambia tutto.

No, non è vero, non cambia tutto, cambia un bel niente, ma forse diventa più sopportabile. O almeno ti sembra. E a volte quel “ti sembra” può salvare la speranza.

Come quando ricordi una persona che non c’è più e decidi di tirare fuori il meglio di quello che era ed è stato. In quel momento fai una cosa buona per te, per lei e per chi ascolta. Non è che è tutto lì, lo sai tu e lo sanno tutti, è che scegli di riportare nel presente qualcosa che di bello è accaduto in passato che l’ha vista protagonista, magari ti scappa ancora la stessa risata o anche soltanto un sorriso. Un po’ di glitter, ecco.

Questo intendo, obbligarsi a riportare un brillìo di qua e uno di là, riportarli visibili dove si erano spenti, altrimenti la cortina grigia piomba giù e chi osa più alzare la testa?

Lo si fa con l’ironia e con l’autoironia, che arrivano come spruzzate di acqua energizzante mentre sei sul lettino alle lampados. Basta poco e ti sollevi, ti scrolli di dosso la patina di drammaticità stagnante che ti schiaccia. Non so se è un’Arte che si impara, forse ci si nasce. Io ho la fortuna di averla nei geni, eredità che nella mia famiglia è stata coltivata e mantenuta viva e ben vivace, e credo sia il dono più grande che abbia ricevuto.

Una spruzzatina, prima-durante-dopo i pasti, sberluccicanti prismi che giocano con la luce che si colora. Cosa chiedere di più?

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(619) Questionario

Fare domande è una cosa seria, delicata direi. L’ho sempre pensato e, di conseguenza, mi sono sempre presa l’onere del fare domande dandogli il giusto peso. In poche parole: so fare domande micidiali. Davvero.

Mi vengono proprio spontanee, domande talmente precise e apparentemente banali che se non le filtro un po’ rischiano di causare reazioni estreme: la totale afasia del mio interlocutore o un bel pugno sul naso da parte dello stesso a mio esclusivo beneficio. L’ho detto, sono domande micidiali.

Non è cattiveria, ma se voglio conoscere una persona non sparo domande a caso per ottenere risposte vaghe, miro meglio che posso, vado sul particolare, sperando di non fare disastri. Così facendo scopro me stessa, mi metto onestamente davanti alla persona che voglio conoscere rendendogli evidente il mio pensiero. Pericoloso? Sì e no, gioco lealmente, non mi spingo mai oltre il limite del buongusto, e non ficco mai il naso nei fatti degli altri. Infatti, qui sta il bello, non sono mai domande invadenti, non sono volte a incamerare informazioni, sono piuttosto una porta da aprire per condividere un pensiero che neppure sapevi di avere. Pericoloso? Sì e no, dipende se mi trovo davanti a un buon diavolo o a un serial killer.

Cosa interessante, però, è stato constatare che nessuno si è mai rifiutato di rispondere, al massimo qualcuno ha ammesso di non averci mai pensato accompagnando la frase con un mezzo sorriso. La parte del sorriso è fondamentale anche nella fase che mi riguarda: non è un interrogatorio, è uno scambio e come tale deve risultare rassicurante – siamo insieme in questo gioco – e quindi sorrido. Se non ho voglia di sorridere significa che le risposte le so già e mi evito di perdere tempo. Succede quando incontro persone che non mi ispirano granché di buono, tanto per essere chiari.

Proprio per evitare situazioni noiose, sto pensando da qualche tempo che potrei creare un breve questionario con risposte a faccette/emoji per velocizzare i tempi. Formulare le domande adatte è più impegnativo di quel che mi ero immaginata, sono molte le varianti da prendere in considerazione. Un’attività che se voglio che mi porti qualcosa di utile mi occuperà giorni interi…

Ne varrà la pena? Ecco, domande come questa sono perfette. Aperte, addirittura vaghe, ma assolutamente rivelatrici.

Mi comprerò un paradenti, comunque. Non si sa mai.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(618) Piano

Piano piano il piano si compie. Inizio subito con la morale della storia, così almeno un riferimento l’ho dato. Perché scendere in particolari richiede tanta pazienza, soprattutto da parte di chi si ferma qui a leggere – per il quale nutro rispetto supremo, per questo eviterò di dilungarmi in un resoconto che è di poco interesse.

Vediamo se riesco a esprimere il concetto senza fronzoli: andare piano non mi piace, di solito, preferisco un’andatura sostenuta. Sempre, fuorché quando cammino. Quando cammino l’andamento forsennato mi fa salire l’ansia. Prima contraddizione? Forse, ma io sono un ricettacolo di contraddizioni – ormai è evidente a tutti. Riprendiamo il filo del discorso: andare piano significa che il risultato arriva dopo molto tempo dalla partenza. La strada può anche essere la stessa ma se la percorri a 50 all’ora, a 90 o a 130 le cose cambiano. Altroché.

In queste ultime settimane ho preso due multe per eccesso di velocità, per un chilometro in più (oltre al limite + 5) e per 3 chilometri in più, considerando che sono stati gli unici due giorni in cui non ho trovato coda in tangenziale ho valutato che la stramaledetta coda quotidiana mi permette di non consegnare il mio dannato stipendio direttamente nelle casse del comune a fine mese. Assurdo? Sì, ma andare piano mi obbliga a metterci un’ora e anche oltre (se piove il tempo si può dilatare a dismisura, non ho ancora capito perché) al mattino e altrettanto a fine pomeriggio e la cosa mi sta demolendo i nervi. Quindi l’assurdità è motivata, ho i nervi demoliti.

Ritornando sul concetto iniziale: andare piano ti obbliga a rallentare tutto, sì, bellissimo, godersi il momento e tutte queste cose meravigliose, ma la vita non è che rallenta, lei ti passa sopra come uno schiacciasassi e gli anni corrono e tu andando piano non li rallenti mica, quelli vanno vanno vanno e ti ritrovi nella tomba prima ancora di aver raggiunto la prima tappa del tragitto. Porca miseria.

Mi piacerebbe che le cose nella mia vita – quelle belle intendo – non succedessero a rate minime con scadenze millenarie. Ci rendiamo conto o no che ho vissuto più tempo di quello che mi resta da vivere? Ci diamo una mossa o no? Vogliamo arrivare alle vere e importanti manifestazioni? Quelle che ti fanno fare un reale salto quantico, concreto non illuminazioni sconvolgenti… quelle vanno bene, per l’amor del cielo, ma mica ti risolvono i problemi. Le illuminazioni ti sollevano dai problemi, ma i problemi restano. Che tu te ne fotta perché ormai sei illuminato va bene, buon per te, ma i problemi restano lì e finché qualcuno non li risolve quelli non svaniscono da soli.

Ora, il mio problema – quello che sta lì da molto tempo – è che il mio avanzare è davvero lento, in modo sottilmente irritante, tenacemente sfinente, caparbiamente esacerbante. Non so se ho reso l’idea. Ecco. Se l’ho resa, molto bene, se non l’ho resa fa niente. Male che vada ho fatto sfoggio di un bel po’ di avverbi inusuali che mi capita raramente di utilizzare. 

L-e-n-t-a-m-e-n-t-e… concludo.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF