(899) Vecchiaia

Pensavo sarei invecchiata meglio. M’immaginavo sarei invecchiata meglio. Sorridente. Cos’è andato storto? 

Un paio di ipotesi magari le posso anche azzardare e non mirerei troppo lontano dal bersaglio, ma in realtà non sta lì il problema. Il punto focale della questione è capire cosa posso fare per porci rimedio.

Lo ignoro bellamente.

Non si tratta di fare una cosa piuttosto che l’altra, non si tratta di fare. E quando non si tratta di fare, la sottoscritta va in palla. Fare mi viene bene, pensare mi incasina. Penso tanto e male. Questo non posso cambiarlo. Posso cambiare l’azione del mio pensare male, ovvero penso-male e poi faccio il contrario (così funziona di solito), ma è il pensiero che condiziona l’invecchiamento.

Dovrei trovare il modo di invertire il senso, di provocare un cortocircuito alla rete neuronale in modo che qualcosa si sconvolga e la dinamica mia solita cambi. Si chiama elettroshock, ma mi spaventa. E se poi non mi riconoscessi più?

Rimane il fatto che questa amarezza mi spegne il sorriso e invecchiare così non va affatto bene. La mia ingenuità? Pensare che quell’essere giovane, quella voglia di abbracciare il mondo e conquistarlo, sarebbe durata in eterno. Non ero io a sentire, era la giovinezza a provare l’infuocarsi del sangue e la felicità che fa scoppiare il cuore soltanto perché ci sei e vivi.

Non ero io. Io sono quella che ne è rimasto. E a dirla tutta non è granché. Di questo mi dispiaccio. E con questo devo farci i conti, tutti i giorni. Soltanto perché ci sono e vivo.

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(742) Scrupolo

Analizzo e soppeso, rifletto e valuto. Per il 90% del mio tempo il 90% del mio cervello è occupato in queste amene attività, che io lo voglia o no, che io ne sia consapevole o meno. Questo fa di me una scrupolosa-a-oltranza, il che può essere un bene come un male a seconda delle circostanze. E non voglio soffermarmi sul giudizio, ma su ciò che comporta.

In breve, posso affermare che questo mio modus operandi mi porta ad avvicinarmi alle persone e alle cose con molto rispetto, perché ho bisogno di capire. E ci posso mettere molto molto molto tempo per capire perché non sono proprio un’aquila. Preferisco darmi tempo per decidere piuttosto che sbagliarmi. Mi scoccia parecchio sbagliarmi, ma quando sbaglio lo faccio alla grande, da vera idiota.

Comunque, ritornando al concetto base, i miei scrupoli si attuano nel quotidiano cercando un confronto schietto e diretto con le persone e con le cose (perché anche le cose se fai le domande giuste ti sanno rispondere, altroché), alla fine della giornata sono sfinita, ma penso sempre che ne valga la pena. Anche quando prendo calci in culo, anche quando questi calci sono immeritati (sono idiota mica cattiva).

Tutto questo lo scrivo perché ho bisogno di fare chiarezza e sto prendendomi a cazzotti col senso di colpa chiamato: Non ho fatto abbastanza?

Un punto di domanda è d’obbligo, perché si tratta di un senso di colpa che ha origine non da un fatto certo bensì da un’ipotesi. E sto qui da ore a pensarci e ricordare ogni episodio e sono sicura che ho fatto abbastanza. Fin troppo. Ho cercato di metterci le toppe, inutilmente. E quando mi verrà chiesto il perché non mi schiero come si pensa dovrei, probabilmente, il vero perché lo terrò per me. Un perché pesante, anche violento per certi versi, non deve essere esternato, non porterebbe nulla di buono. Forse sul momento qualcosa saprò dire, ma ora pensandoci mi sembra di aver esaurito ogni grammo di compassione che avevo in magazzino e i sacchi di empatia son spariti tutti, in pratica: sono a secco.

E il dispiacere permane, mi viaggia dentro una parola abominevole – tradimento – che però non ha nulla a che vedere con quello che ho vissuto, proprio nulla. So per certo che il mio dispiacere è sincero, come so per certo che non ho più voglia di calci in culo. Devo accettare che non si può appianare tutto, che non si può comprendere tutto, che non si può accogliere tutto. Devo accettare che io non so farlo, che è un mio limite, e devo mettermela via perché va bene così. 

Niente favole. Va bene così.

 

 

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(633) Senso

Certe cose che faccio sembrano senza senso. Agli altri, intendo, non a me (se così non fosse avrei un grosso problema). Non è facile perseverare facendo finta di niente perché il consenso degli altri è un bisogno insito nell’animo umano – chissà perché. Eppure vado avanti.

Questa mia determinazione è considerata presunzione, e anche questo è un dettaglio che mi comporta un certo smarrimento, specialmente quando sono stanca. Ultimamente sono molto stanca, ciò significa che lo smarrimento è cosa di tutti i giorni. Quindi sto imparando a gestirmelo.

Ho notato che per poterlo maneggiare come si deve devo staccarmi da tutto, focalizzarmi sulla meta da raggiungere e valutare soltanto dopo – una volta raggiunta – se sono stata insensata o meno. La chiamerei disciplina, perché non è per nulla istintiva, devo proprio impormi un certo tipo di pensiero e un certo tipo di atteggiamento mentale per poter avanzare. Lentamente, magari, faticosamente, di sicuro, ma comunque avanti.

Questi miei pensieri quotidiani stanno continuando da ben 633 giorni, significa da quasi 2 anni. Giorno dopo giorno, pensiero dopo pensiero. Senza saltarne uno, aggiungerei. Sembra senza senso, vero? Eppure il senso c’è. Non credo sia una buona idea spiegarlo ora, ma forse far presente che la scrittura è disciplina e che è, soprattutto, introspezione crudele può essere un buon punto di partenza per far capire a chi transita in questo diario virtuale che non si parte mai da una storia, si parte sempre dalla propria storia. Chi siamo, da dove veniamo, cosa pensiamo, cosa vogliamo, dove vogliamo andare. Quando creiamo una storia partiamo sempre dalla nostra storia, ma chi scrive davvero non fa della propria biografia letteratura, bensì trasforma la sua visione per farne un’opera d’arte.

Mi è difficile, ora, dare altre spiegazioni, ma so che il senso che accompagna tutto questo mi porterà alla meta: tre anni di giorni così, raccontati a nessuno/tutti in un blog che non reclamizzo e che al massimo avrà una manciata di lettori silenti. Non mi serve altro se non la mia determinazione, al di là di ogni risultato possibile, perché non inseguo un risultato, percorro la mia strada. Questa è la mia storia, non un romanzo, e per chi mi pensasse presuntuosa… bé, non m’importa nulla.

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(578) Isolamento

Una condizione che, se volontaria, ti serve per ricaricare le batterie. Non è che odi l’Umanità, è che in questo momento non riesci a sostenere l’intensità delle cose e ti concedi un po’ di tempo per recuperare le forze. Tutto qui.

Essere sempre presenti, sempre disponibili, sempre al top, non è sano. Essere indisponenti, perché stanchi o scazzati, quando siamo in compagnia, non è bello. Non è che il mondo deve comprendere il tuo stato d’animo, basta che tu te ne resti con te stesso, in un luogo dove non dover essere diverso da quello che sei.

Tutto molto semplice e tutto molto comprensibile, vero?

Eppure, ci sentiamo in dovere di esserci sempre, lì in mezzo, come se il mondo senza di noi arrancasse. Non è così. Il mondo anche senza di noi avanza implacabile e, spesso, manco se ne accorge che manchiamo. Questo ci fa male? Ebbé, è una delle grandi lezioni da imparare: tutti utili, nessuno indispensabile.

Pensa che sollievo saperlo e che sollievo accettarlo. Non devi sentirti in colpa se non sei in sintonia con il buonumore generale. Se quel casino è troppo per riuscire a sopportarlo non serve che ti attacchi all’alcool, fatti una bella dormita. Pensa. Pensa liberamente, a occhi aperti o chiusi, pensa a quello che vivi, a quello che vuoi, a quello che vuoi fare, a quello che vuoi essere. Pensa. Non fa male pensare, anzi.

Una volta ricaricate le batterie ti ributti nella mischia, guardi le persone negli occhi per capirle un po’ meglio e non per mandarle al diavolo. Capita così quando siamo padroni del tempo che viviamo e non succubi di regole che non ci appartengono e – soprattutto – che non sono fatte per noi.

Possiamo scegliere. Sempre, anche se non sempre siamo disposti ad accogliere le conseguenze delle nostre scelte. Ma se lo fai pensandoci, sei pronto a tutto. Senza lamentarti e senza dare la colpa a nessuno. Libertà? Sì, grazie.

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(534) Moleskine

Oltre una cinquantina, chissà quante mila-pagine ho scritto in questi ultimi vent’anni. Chissà. Sono la mia memoria, per quando memoria non avrò più. Me l’immagino così la fine della mia vecchiaia: a leggere le pagine della mia vita a ritroso, finché mi cadranno gli occhi e mi si spegnerà il cuore.

La penna a volte corre, altre è trascinata con stanchezza. A volte la calligrafia è impeccabile, altre illeggibile. A volte i caratteri sono grandi e urlati, altre sono piccoli e deboli – come se volessero scomparire. A volte la punta della penna è grossa, altre sottile. L’inchiostro, però, è sempre nero. Il viola lo uso con parsimonia, quando sono felice, nei titoli.

Ne ho provate diverse: con la copertina morbida o rigida, a righe o a quadretti o con pagine bianche (le mie preferite), dimensione mini o classic o extra-large. La mia preferita è la Classic, copertina nera rigida, pagine bianche o a righe. Bianche per la libertà, a righe per l’equilibrio che spesso manca nella mia penna e nei miei pensieri.

A volte ho provato altri quaderni, ma non è lo stesso – chissà perché. Ritorno sempre a lei perché è come se mi conoscesse meglio, come se a nuova Moleskine non ci fosse bisogno di fare le presentazioni. Soltanto un “rieccomi qua”, poi sguardo sulla pagina e penna a tracciare linee d’inchiostro simili ai pensieri. Niente di più e niente di meno.

Moleskine dopo Moleskine la mia vita si compie. Strano, ma vero. Più reale delle ore che scappano via e di tutto questo via-vai che non trova pace e – temo – non trovi neppure un senso che sia stabile e che sia sicuro rifugio.

Mah.

 

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(483) Tesoro

Una parola che mi piace è proprio: tesoro. Se pronunciata alla Gollum – il mio tessssssorooo – mi piace ancora di più, perché a forza di dirla una parola perde il nervo e invece quando ne enfatizzi il suono si riprende il potere che aveva all’inizio. Quindi dire di qualcosa che è il mio tesssssorooo mi fa sorridere.

Dico tesoro molto di rado, solo a particolari persone a cui voglio molto bene, un paio di amici in tutto. Non che ad altri amici io non voglia bene, ma a questi due amici m’è venuto naturale chiamarli tesoro a un certo punto e di tanto in tanto li chiamo così.

C’è un’altra parola, invece, che detesto con tutta me stessa. Un odio viscerale, che mi parte dal piloro (probabilmente) e che quando la sento mi fa trasformare in Hulk: cara/caro. Aggettivo che se viene accostato alla mia persona – soprattutto quando il nome di battesimo si omette – mi fa diventare pericolosa. In quell’istante so, anzi SO, che quella persona non è sincera nei miei confronti. Lo SO, senza ombra di dubbio, senza se e senza ma: lo SO.

Se mi chiami tesoro, con tutte le sfumature possibili e probabili, non penso che mi consideri davvero un tesoro, ma ti concedo il beneficio del dubbio. Se mi chiami cara, no. Niente beneficio, nessuna pietà.

Non ricordo se sia sempre stato così o se a un certo punto le cose siano cambiate e il cara mi sia diventato insopportabilmente odioso, non lo so. Quindi non posso ricondurre questo mio sentire a un episodio, a una persona in particolare. Eppure SO.

“Così una cara persona” è soltanto un modo per dire “Poverina/o”, è un’esternazione stucchevole, pietosa, viscida, nauseante. Dimmi “stronza” e ti porto più rispetto, diamine!

Tesoro, invece, ha in sé misteriosi sentimenti da scoprire. Tesoro è qualcosa che riconosci come prezioso, che sei disposto a proteggere a costo della tua vita, capito? Quindi a tutti quelli che lo usano in senso ironico, va tagliata la testa. Subito!

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(469) Apoteosi

Ci sono momenti di una precisione sbalorditiva, dove tutto quello che prima era caos si palesa in disegno perfetto. Perfetto nel bene e nel male, intendo. Non so come descrivere in modo appropriato la condizione che si va a creare, sono sicura che ci sono Leggi fisiche che ne determinano la nascita, la durata e l’eco, ma ogni volta che mi ci sono trovata in mezzo l’ho saputa riconoscere a naso.

Ne senti l’odore, alzi il viso, sniffi l’aria e arriva. La certezza che quello è il momento della catarsi, dove tutto trova posto e ha un senso che fino a pochi secondi prima non aveva. Ogni Essere Vivente sa di cosa sto parlando. Gli animali e le piante lo sanno meglio di tutti, sono i più veloci del Creato a rendersene conto perché non lo devono tradurre in pensiero e parole, basta il sentire e tutto diventa chiaro: sanno cosa fare e come farlo e lo fanno.

Noi ci mettiamo un po’ di più, l’apoteosi emotiva  si fa fatica a maneggiarla, rischi che ti scivoli di qua o di là, che si gonfi e che ti avvolga come zucchero filato su uno stecchino per farti morire soffocato. Insomma, mica son cose da prendere alla leggera!

Spesso decidiamo che il rischio di rimanerci secchi è troppo alto e facciamo come se non ce ne accorgessimo, ma il naso non lo puoi controllare, sniffare l’aria è un attimo e da lì non c’è ritorno. In un nanosecondo dal caos si fa ordine, dall’insensato prende forma la logica, dal pressapoco si passa al nitido.

L’apoteosi. E non è tanto per dire.

 

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(257) Neutro

Fino a qualche tempo fa, tutto ciò che si presentava come neutro mi metteva a disagio, anzi, mi faceva arrabbiare. Neutro non era una condizione che ritenevo dignitosa, neppure per un sapone.

Come si cambia per non morire, canta la Fiorella nostrana. Eh!

Da un po’, e non so dire neppure da quanto, tutto ciò che si dichiara essere neutro mi mette addosso un senso di delicata cura, qualcosa che va a colmare un bisogno evidentemente forte che mi è nato: quello di non essere attaccata da un lato o l’altro dello schieramento.

Ho scoperto che non sempre so da che parte stare. Ci sono questioni talmente complicate che mantenere una posizione neutra per me significa ammettere con umiltà che non ho capito abbastanza per decidere se stare da una parte o dall’altra. Mi dichiaro insufficiente, inadeguata, non all’altezza, questo per non millantare una preparazione che non ho.

Dire “non lo so” una volta per me equivaleva a dichiarare una manchevolezza che mi feriva. Ora mi suona come una ammissione di finitezza, magari non definitiva, ma pur sempre in essere e di cui tenere conto.

Neutro è quel colore che ti permette di osservare le cose finché non ne capisci il senso. Solo dopo puoi onestamente prendere una posizione e dire o agire di conseguenza. Perché le cose sono spazi immensi da esplorare, specialmente in relazione agli Esseri Viventi, ora lo so. Almeno questo lo so.

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(185) DNA

C’è un modo strano, spesso, che la vita usa per metterti davanti a un dato di fatto che tu hai fino a un istante prima ignorato (volutamente o meno non fa differenza). Incontri nel reale quella cosa e ti devi fermare per registrarla una volta per tutte.

Mi è capitato stasera, mi sono dovuta fermare e l’ho finalmente registrata.

Scendere in particolari diventerebbe noioso, ma è più la sostanza di quello che sto sentendo in questo momento che voglio sia scritta una volta per tutte, ovvero: sollievo.

Il mio DNA non è senza criterio. Non è uno sbaglio della natura. Non è un caso fortuito. Non è senza ragione. Davvero è il risultato di una mescolanza, di una formula il cui dosaggio può non essere riconducibile con precisione a un’origine o all’altra, ma è comunque il frutto di un calcolo che va oltre me.

Può non avere senso, detto così in generale, ma a togliere tutto il superfluo resta il sollievo. Che ha a che fare con uno strano e ridicolo sentimento di riconoscimento, uno strano e ridicolo sentirsi meno sola, uno strano e ridicolo ricondurmi a un perché senza che il perché sia costrizione, ma semplice presenza.

Sollievo. Non cambia nulla del mio reale, forse, ma cambia qualcosa dentro dentro dentro in fondo a me.

Come scoprire che quel qualcosa che avevi perso e di cui ti eri obbligata a fare a meno, perché non sostituibile, ti comparisse davanti per rientrare nuovamente nella tua vita. Sai che ne potresti ancora fare a meno, ma benedici il fatto che sia lì ad arricchire la tua esistenza, ancora.

Esattamente così.

 

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