(1014) Amarezza

Che colore ha l’amarezza? Un brutto colore, verrebbe da dire. O forse è il miscuglio di tanti colori, messi alla rinfusa, che si fondono e si confondono e perdono i propri confini. L’occhio scombussolato non capisce più nulla e ti schianti sul divano aspettando che ti passi.

Ma non passa.

Bisognerebbe trovare una cura per debellare questo maledetto sentimento, ma essendo tale non è labile, rimane ancorato in te e ci resta. Testardo, sordo e bastardo. La chimica non lo scalfisce, la meditazione gli fa il solletico. Il bastardo non molla. È un sentimento, è lì per restare.

Allora bisognerebbe agire contro tutto ciò che ti suscita amarezza, combattere contro chiunque, e qualsiasi cosa, osi aprire in te quella finestra maledetta che non si richiuderà mai, nonostante il tempo e le tempeste. 

E l’amarezza non ti fa piangere, non ti fa urlare, non ti fa sfogare, non ti fa sputare il dolore. Ti consuma. Punto.

Certo che ci può mettere una vita a farlo, ma lei ha tempo perché si mangia il tuo tempo e non si fermerà. 

C’è un modo per rallentare l’inesorabile processo? Sì. Riderle in faccia. Si fa fatica, ma si può. Ridere di quello che è stato e di quello che è. Ridere di quel che se ne è andato e di quello che non se ne vuole andare. Ridere di te. Che ti lasci incastrare da un sentimento da niente, nato chissà perché e cresciuto chissà come, e che pensi sia più forte di tutto. Ma che forte non è.

Tu sì, invece. Sei ancora qui. Giusto?

 

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(933) Ironia

L’ironia è come una caramella. Ogni guizzo ha un sapore diverso e alcuni ti possono piacere, altri meno e non li vai a cercare, ma chi rifiuterebbe una caramella quando vorresti soltanto scappare via?

Nessuno.

Le persone dotate di questo meraviglioso talento sanno spingerti dolcemente al sorriso proprio quando non te l’aspetti. Una piccola sorpresa che ti fa increspare le labbra e questa piccola onda ti entra dentro in fondo in fondo in fondo per sollevarti un po’. Quando ritorni coi piedi sulla tua solita spiaggia ti accorgi della sabbia, di ogni granello, come se fosse cosa nuova, perché sei più ricettivo, come se ti fossi appena risvegliato.

Adoro le persone ironiche.

Ironia è misura, rigorosa: né troppo né troppo poco. Ti devi spingere oltre, ma solo per quel tanto che basta a innescare l’onda leggera, dolce, quella che solleva e non quella che spazza via (il sarcasmo, tanto per intenderci). Nell’ironia c’è un miscuglio di amarezza e blando divertimento. C’è soprattutto un bisogno di sopravvivere a tutto quello che, preso in altro modo, potrebbe farci impazzire, potrebbe farci morire. Perché il veleno funziona anche a piccole dosi e l’ironia ne è l’antidoto infallibile. 

Un talento, per ognuno di noi diverso.

Perché non ci sono regole, ci sono punti di vista che si incrociano, che rendono i pensieri un po’ ruvidi e da lì si scivola naturalmente nell’arguzia di un concetto scollato – a volte osceno – espresso con grazia però. Chi non percepisce questa resistenza nel passarci sopra, questo leggero atrito su cui il tatto incespica, si perde un gran tesoro. 

Ma l’ironia non la puoi insegnare.

Questione di gusto, questione di grammi, questione di ritmo e calcolo dei tempi. Una musica che hai dentro e che non deve uscire spesso, soltanto quando il silenzio le permette di espandersi. Un po’. Soltanto un po’. E poi si lascia andare, scivola via per ritornare ad accompagnare il venire e l’andare delle emozioni che fanno poco rumore e non vogliono essere disturbate. Una cosa così, discreta.

Chi rifiuterebbe mai una caramella? Dai, siamo seri!

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(931) Cinismo

Il tipo di cinismo che subdolo si intrufola anche nelle persone migliori è quello che ti fa pensare sistematicamente: “tanto non serve a niente”. L’inutilità della tua azione e del tuo pensiero, nell’ambito in cui stai, ti schiaccia a terra e decidi di non fare e non dire per non sprecare la tua energia e crearti aspettative che verranno mortificate. Senza ombra di dubbio.

Con presunzioni credi di sapere già come andrà a finire e molli prima. Non solo manchi di coraggio, ma anche di credo. Hai smesso di credere che la vita ti possa stupire positivamente, che la vita sia comunque e sempre un divenire e che quello che metti in campo crei delle dinamiche che possono portarti del buono. Non ci credi. 

Per giustificare questa tua mancanza di fede puoi vantare una lista pressocché infinita di volte in cui hai fatto e hai detto e tutto è andato in malora lo stesso. Hai annotato ogni evento nei dettagli perché sono cose che bruciano e continuano a bruciare anche a braci spente. Le altre volte, invece, quelle dove tutto è andato bene grazie al tuo fare e al tuo dire non le hai contate, quelle erano ovvie e a quelle dai poco valore. 

Punto di vista comprensibile e per certi versi condivisibile, ma parziale. E ci sei dentro ogni volta che ti dichiari sconfitto in partenza. “So già come andrà a finire, non serve a niente” è la scusa che diventa il tuo passepartout. E te ne fai un vanto perché a te certe cose non fanno più alcun effetto, certe delusioni non ti toccano più, certe cadute le lasci volentieri agli altri. Ti sei fatto furbo. Non sono più fatti tuoi. Guardi gli altri con supponenza, pensando “poveri idioti”. 

Ecco, il cinismo ti sta consumando ogni grammo di umanità, ti sta riducendo a una larva senza alcun valore. Stai permettendo all’amarezza di ingabbiarti i pensieri togliendoti la possibilità di provare gioia e dolore. Sì, perché non è che se non ti fai possedere dal Demone tutto andrà come vuoi tu, ma almeno non vivrai in un perenne stato di rincoglionimento emotivo che ti porterà, sempre e comunque, a odiare gli altri, te stesso e la vita. Perché tu meritavi di più e invece ecco cosa ti è toccato vivere. Re dell’autocommiserazione, senza alcuna corona che ti distingua dagli altri, perché sei irriconoscibile tra i tanti.

Siete in tanti, sì. Un popolo intero. Prendete il numero e mettetevi in fila, guardatevi bene l’un l’altro, tenetevi stretti o il dubbio che state proprio sbagliando tutto si insinuerà tra di voi e potrebbe farvi rinsavire. Sì, perché adesso non vi meritate nulla considerato che state rubando l’entusiasmo alla vita e il buonumore di chi – per loro sfortuna – vi vuole bene e vi sta accanto.

Sssssssssssshit.

 

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(899) Vecchiaia

Pensavo sarei invecchiata meglio. M’immaginavo sarei invecchiata meglio. Sorridente. Cos’è andato storto? 

Un paio di ipotesi magari le posso anche azzardare e non mirerei troppo lontano dal bersaglio, ma in realtà non sta lì il problema. Il punto focale della questione è capire cosa posso fare per porci rimedio.

Lo ignoro bellamente.

Non si tratta di fare una cosa piuttosto che l’altra, non si tratta di fare. E quando non si tratta di fare, la sottoscritta va in palla. Fare mi viene bene, pensare mi incasina. Penso tanto e male. Questo non posso cambiarlo. Posso cambiare l’azione del mio pensare male, ovvero penso-male e poi faccio il contrario (così funziona di solito), ma è il pensiero che condiziona l’invecchiamento.

Dovrei trovare il modo di invertire il senso, di provocare un cortocircuito alla rete neuronale in modo che qualcosa si sconvolga e la dinamica mia solita cambi. Si chiama elettroshock, ma mi spaventa. E se poi non mi riconoscessi più?

Rimane il fatto che questa amarezza mi spegne il sorriso e invecchiare così non va affatto bene. La mia ingenuità? Pensare che quell’essere giovane, quella voglia di abbracciare il mondo e conquistarlo, sarebbe durata in eterno. Non ero io a sentire, era la giovinezza a provare l’infuocarsi del sangue e la felicità che fa scoppiare il cuore soltanto perché ci sei e vivi.

Non ero io. Io sono quella che ne è rimasto. E a dirla tutta non è granché. Di questo mi dispiaccio. E con questo devo farci i conti, tutti i giorni. Soltanto perché ci sono e vivo.

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(849) Fuoco

Il fuoco ci insegna la giusta misura: riscalda e brucia. Il giusto fa bene, il troppo stroppia. Per l’acqua è lo stesso, per l’aria pure. Di terra, invece, sembra non ce ne sia mai abbastanza… quella ti sparisce sotto i piedi che è una meraviglia appena ti distrai un attimo. Gli elementi della natura cercano di riportarci a quelle leggi che ci governano – nonostante quello che ci raccontiamo – e che noi puntualmente sfanculiamo [il termine potrebbe risultare volgare, ma nel contesto non saprei infilarci uno migliore, il concetto rimane: ce ne fottiamo allegramente di quello che dovremmo invece mai dimenticare]

Il fuoco è associato alla passione. Avere il fuoco dentro è un’espressione che rende bene, no? Ti dà proprio l’idea che quel fuoco ti nutre, ti motiva, ti emoziona… ti infiamma (giustamente, che altro potrebbe fare?). L’idea è sbagliata. O per lo meno è parziale. 

Il fuoco deve essere alimentato, deve essere monitorato, deve essere convogliato. Non lo fa da solo, ha bisogno di una mente pensante che lo gestisce in modo che faccia quel bene che sa fare e non finisca col distruggere tutto. Questo metterci il discernimento in un concetto che d’istinto lo si sente come selvaggio, puro, esaltante, abbassa la temperatura drasticamente. Sauna finlandese. Eh. Allora facciamo così: mettiamo il cervello in salamoia e bruciamo tutto. Alé.

E lo si fa bene se hai quindici anni, ma se ne hai cinquanta le cose cambiano. La ricerca spasmodica del fuoco bruciante, tanto per sentire qualcosa, è profondamente grottesca. Uno scempio di possibilità, di potenzialità, di visione. Fammi capire: sei sopravvissuto per cinquant’anni e ora pensi di bruciare selvaggiamente di passione come non hai mai fatto neppure da adolescente? Se non l’hai fatto quand’era il tempo giusto, parti male, sei destinato al fallimento. Se l’hai fatto già, per quanto tu faccia non sarà mai la stessa cosa. Ti salirà l’amarezza e sarà lei a seppellirti.

Il fuoco.

Se ce l’hai, usalo bene santiddddddio!  [se non ce l’hai… vedi tu]

 

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(664) Acquerello

Stendo il colore a veli, ecco cosa faccio. Una cosa delicata e come tale deve essere trattata. Non è così però che viene accolta. Non c’è cura in chi osserva questo mio fare, sembra che sia cosa da nulla, ma velare la realtà con i colori è il mio modo per rendere tutto più bello. Anche quando il bello si fatica a trovarlo. Questo faccio. Cosa da nulla, mi ripetono, ma io continuo a farlo perché un altro modo di vivere non l’ho ancora trovato – molto probabilmente. Il modo di vivere degli altri non mi convince, preferisco il mio. Mi auguro che funzioni per tutti così, deve funzionare così per tutti perché tutti possano abbracciare quella sottile libertà che è scelta e che è colore.

Certo che in sere come queste vengo annullata dall’idea di inutilità che è sempre lì in agguato, ma sono decisa a continuare. Stendo un velo di colore e provo a rendere concreta quella sfumatura che sfugge al controllo. Se riesco a riportarla sulla carta così come l’ho sentita forse ho ancora una speranza.

Comprendere troppo gli intrecci umani non è sempre una buona cosa, comprendere non è sempre una buona cosa. Solo che girarsi dall’altra parte non mi è possibile. Non mi è proprio possibile.

Tolgo le asprezze, spennello ombreggiature, l’acqua aiuta a non marcare troppo i contorni, toglie alcuni ostacoli. Non posso smettere di farlo, non posso smettere di comprendere, posso farlo meglio. Posso solo cercare di farlo meglio. La stanchezza, l’amarezza, l’arrabbiatura, tirano calci che mi fanno vacillare eppure intingo il pennello nel colore che sento amico con gocce che l’aiutano a scivolare sul foglio e sia quel che sia.

Dormirò il mio sonno, anche stanotte, senza timore.

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(637) Identico

Stasera faccio una cosa diversa: prima scrivo e poi ricavo dal testo il titolo. Si potrebbe pensare che sappia già cosa scrivere, giusto? No, sbagliato. Soltanto che mi sono un po’ stancata delle gabbie che mi sto costruendo da 636 post, ho bisogno di un po’ d’aria senza filtri.

Potrei parlare di come una volta che ti viene confezionato addosso un abito sia un gran casino cambiarselo. Tipo: ti fai vedere in giro con bermuda hawaiane, canotta fantozziana, calzini con sandali alla tedesca e per tutti sarai per sempre quel disadattato che in una giornata di scazzo s’è fatto quattro passi sovrappensiero mentre cercava una buona idea per pagarsi le bollette. Fa niente se di solito vesti in frac e sei un gran signore, tu sei e rimani per tutti un eccentrico e grottesco fannullone finché muori. Stessa cosa anche fosse la situazione inversa. Funziona così.

Ogni volta che qualcuno mi chiede che lavoro fai, partendo da questo presupposto, vado in crisi. Ho fatto la cameriera, la baby-sitter, la donna delle pulizie, la commessa, la centralinista, la segretaria, l’insegnante di scrittura creativa e ora sono responsabile della comunicazione di una manciata di start-up… ho cambiato abito mille volte ed è probabile che lo cambierò ancora, quindi mi chiedo: che lavoro faccio?

Le varianti confondono. La fluidità, contrapposta alla catalogazione, affatica. La malleabilità viene guardata con sospetto. Il cambiamento infastidisce.

Abbiamo i nostri schemi, i nostri scatoloni in cui infilare tutto, mettiamo ogni cosa al suo posto così la teniamo sotto controllo, così non ci salterà addosso per mangiarci le orecchie durante la notte. Mi viene da ridere, ma che amarezza!

Siamo così impegnati a pretendere pulizia dagli altri che nascondiamo la nostra sporcizia sotto lo zerbino che diventa collina e montagna e noi come se niente fosse domandiamo ancora e ancora: cosa fai? Cosa fai? Cosa fai?

E se cambiassimo la domanda in: chi sei?

E no! Comporterebbe la rogna di andarsi a cercare la risposta in chissà quale anfratto dell’anima. Sempre diversa a ogni occasione. Perché non siamo mai una cosa sola e sola soltanto. Conteniamo moltitudini come Walt Whitman ci ha insegnato, e queste moltitudini ci spaventano a morte. Le nostre, poi, sono le più terrificanti di tutte perché in fondo in fondo le conosciamo bene, anche se ce le nascondiamo. Sappiamo che siamo noi ad averle generate e non riusciamo a perdonarcelo. Ma perché?!

E se non ci fosse nulla da perdonare? Eh? 

Lo sguardo che va a pesare sul collo affossa l’idea che abbiamo di noi ed è una violenza inaccettabile da noi stessi perpetrata. Se, invece, è il nostro sguardo a pesare sul collo di qualcun altro meritiamo lo stesso inferno che stiamo causando. Ma proprio uguale uguale.

Identico.

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(529) Photoshop

Si fa presto a dire “bello!”, ma forse così bello non è. L’ideale sarebbe poter photoshoppare tutto quello che nella realtà non è bello così come lo vorremmo. Potrebbe essere questo il segreto per la felicità?

L’amarezza più grande è quella lasciataci addosso dalla delusione, la delusione è la conseguenza di un potenziale “bello!” che davanti ai nostri occhi si trasforma in un “carino” quando non gira proprio male e diventa un “bleah!”. E spesso non son sfumature, son veramente salti quantici da paura.

Succede con le persone, con i luoghi, con gli eventi, con le situazioni che ci eravamo immaginati, con i desideri che si concretizzano, con i sogni che si frantumano. E non c’è photoshop che tenga, in quel caso. Di amarezza in amarezza il carico si fa pesante, le pieghe della bocca vanno in giù, le palpebre cadono perché gli occhi non vogliono più saperne di guardare la realtà (ad occhi chiusi si sogna meglio) e via di questo passo. Il cuore? Il cuore si crepa, inesorabilmente, a volte lo schiocco arriva fino alle orecchie, altre volte è silenzioso e non fa di certo meno male.

Fotoritocco prêt à porter: la soluzione per la realtà che ci delude. Eh.

E si fa presto a dire “non farti aspettative”… si può per caso vivere pensando sempre che tutto andrà a puttane? Il disfattismo è roba per cervelli dozzinali. Si può mirare più in alto, si può ambire ad una schiena dritta, lo sguardo all’orizzonte, immaginando che andrà meglio. Ecco, questo crea aspettative, quelle stesse che verranno deluse. Il maledetto loop che s’impone a chi vuole vivere malgrado sappia che di amarezza si può morire.

Evvabbé, in fin dei conti di qualcosa si dovrà pur morire e farlo con la schiena dritta e lo sguardo sognante mi sembra un buon modo. Sì, è un buon modo.

 

 

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