(1009) Muta

Ci sono dei periodi in cui mi ammutolisco. Non so se sia per una sorta di cortocircuito neuronale o per sfinimento, fatto sta che smetto di parlare. Soltanto lo stretto necessario. Se sono costretta a dire di più lo faccio malvolentieri. 

Sia chiaro: non lo decido coscientemente, applico la nuova modalità e me ne accorgo soltanto se punto lì la mia attenzione. Più che altro se ne accorge chi di solito mi sta attorno, abituato alla mia voce che va e viene a intervalli sostenuti. Se gli intervalli si dilatano significa che sto affondando in uno dei miei periodi muti.

Il silenzio che si crea dentro di me non è allarmante, è una sorta di limbo dove i rumori sono solo rumori e i pensieri non sono poi così importanti. Perdendo il senso del contenuto, il contenente perde di sostanza. Molto probabilmente.

Non durano tantissimo questi periodi, non potrei però definire una timeline precisa, sono sicuramente ciclici. Al momento ci sono dentro. Non è una grande notizia, ma è comunque qualcosa che voglio far presente a chi mi sta attorno in questi giorni e mi trova strana e più insopportabile del solito. È così. 

Non parlare, o parlare poco, è una condizione che associata a me potrebbe sembrare paradossale, ma i periodi in cui sparisco dalle scene non sono orientati al calcare altre scene, sono quelli che mi vedono in ritiro monacale e che non racconto a nessuno perché sono pieni di cose che riguardano soltanto me. Piccole cose, stupide cose che parlano a me e a me soltanto. 

Non è dove finisco, è dove mi espando. 

Ritornare poi in scena è sempre strano. Quasi doloroso. Sempre strano e stranamente doloroso. Non capisco più che peso dare al contenente e al contenuto e questo potrebbe non essere un dettaglio da poco. Proprio no.

Tant’è

(…)

 

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(989) Tragitto

Ci sono variabili e varianti da considerare, sempre. Ogni volta che qualcuno ti racconta la sua storia, individuare tra le righe l’origine della partenza del suo tragitto è indispensabile per comprendere le regole e le dinamiche di quel viaggio. È una cosa sottile sottile, delicata delicata, ma è necessaria. Se non lo fai rischi di fare danni, magari a chi non lo merita affatto.

Diamo per scontato che tutti noi percorriamo sentieri poco illuminati più che autostrade con lampioni equidistanti che ti accompagnano chilometro dopo chilometro. Diamo per scontato che si viaggia sempre di notte, non sappiamo chi siamo, ci conosciamo giusto quel pezzettino che di noi abbiamo già sperimentato vivendo fin lì, ma quel che abbiamo davanti lo ignoriamo bellamente. Diamo anche per scontato che certe cose te le scegli e altre ti vengono imposte, senza cattiveria perlamordelcielo ma la crudeltà in certi casi è inaudita.

Quindi, dicevo, il tragitto ha variabili e varianti, che o le intercetti e le guardi per bene o non capirai mai niente. Mai niente. 

Il mio primo dubbio: è proprio indispensabile che tutti capiscano tutto? 

Il mio secondo dubbio: è auspicabile?

Il mio terzo dubbio: è sano?

Credo di no. Credo proprio di no.

La cosa che però, ancora e ancora e ancora, mi riporta a casa è che questi tragitti se compresi davvero ti offrono talmente tante riflessioni e piccole-infinitesimali illuminazioni che sarebbe un peccato perdersele. 

Al momento sono ferma qui, la stazione è deserta, il bosco attorno filtra la luce di una luna piena che è più morbida di qualsiasi sole in qualsiasi stagione si possa immaginare. Il silenzio è apparente, ci sono voci sussurrate che ancora non so comprendere, ma ho tempo.

Credo ci sia ancora un po’ di tempo per me per riuscire a comprenderle.

Spero.

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(796) Superficie

La mia superficie è quieta. Molto quieta. Questo trae in inganno le ignare gocce che picchiettano con gran foga sulla mia superficie pensando che la quiete assorbirà qualsiasi riverbero e qualsiasi propagazione di movimento. Si sbagliano. La quieta non assorbe, al massimo attutisce e quindi ha più tenuta rispetto ai colpetti che riceve, ma non può durare per sempre. A lungo, sì, anche molto a lungo, ma non per sempre.

Il mio a-lungo sta per esaurirsi.

Questo è più che un avvertimento, è proprio un dato di fatto. Lo si può notare nel mio non nascondere l’esasperazione, nel mio silenzio denso, nel mio negare risposte per sfanculare le discussioni. Perché la quiete ne ha abbastanza e in superficie si dovrà pur notare qualcosa.

Strano che nessuno abbia notato qualcosa.

Preoccupante il fatto che piuttosto di modificare il proprio picchiettare, le gocce fingano di non sentire l’aria frizzare. Probabilmente le gocce si aspettano un gesto eclatante, un terremoto apocalittico o qualcosa del genere. Eh no. Non sarebbe nel mio stile. Perché anche se profondamente esasperata mi impongo comunque una tenuta nervi sufficiente per non scivolare in cafonate – anche se la tentazione è enorme. Basta un attimo di distrazione e il lavoro di anni va a pallino. Non ho intenzione di rischiare. Quindi, sto cercando nuove modalità per gestire questo irritante picchiare sulla mia superficie come se la mia quiete non fosse lì che per questo: per essere spezzata continuamente.

Si va per priorità, giusto? Ok, faccio una lista e implacabilmente depennerò.

Augh.

 

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(785) Angolo

Anche se “nessuno può mettere Baby in un angolo” (cit. Johnny in “Dirty Dancing”), spesso è Baby che si mette in un angolo. Lo fa per diverse ragioni, per lo più per essere lasciata in pace, per poter pensare senza intromissioni, per fare mente locale su dov’è, chi è, cosa deve fare, cosa vuole fare, cosa fa e sciocchezze del genere.

Baby in quell’angolo, quando ci si mette da sola, sta perfettamente. Se ce la costringono, è tutta un’altra storia.

Non reagisce subito, perché comunque da quell’angolo la visuale è interessante. Sempre. Chi ti ci ha messo pensa che te ne resterai lì in silenzio e che il suo problema (ovvero tu) sia archiviato, quindi non bada più a te. Questo Baby lo sa. Prende questa cosa e la sfrutta finché ne ha abbastanza e se ne va. Semplicemente così, ogni sacrosanta volta, con freddezza clinica e sempre con lo stesso risultato: la consapevolezza che spinge alla scelta e quindi all’azione. La strategia di Baby non solo funziona, ma non viene percepita come strategia da nessuno. Nessuno la guarda, in quell’angolo, nessuno la pensa in ascolto, in attesa. Nessuno.

Quando il quadro è stato esaminato a sufficienza, e una certa idea della questione se l’è fatta, Baby si alza e se ne va. Anche se Johnny non arrivasse (e quando mai arriva un Johnny che ti toglie davvero dall’angolo, ma va là!) lei sarebbe pronta ad andarsene a costo di strisciare, di scavare, di spiccare il volo, di saltare come uno stambecco anche se stambecco non è. In qualche modo Baby farà. Lo ha già fatto migliaia di volte e sa come fare, quindi lo farà.

“Nessuno può mettere Baby in un angolo”, vero. E quando Baby è davvero costretta all’angolo non è detto che ci resterà. Sarà lei a decidere “chi, quando, come, dove” (ma questa è Vivian in “Pretty Woman” che è la stessa storia ma senza mambo in mezzo e comunque finisce bene anche lì perché le donne cazzute in un angolo sanno sempre cosa fare e per chi ce le ha messe non è mai indolore, dopo).

Fuck.

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(767) Nominare

Dare un nome per poi richiamare quel nome – portatore di presenza, di concetto, di sostanza – quando ne senti il bisogno è un privilegio degli Esseri Umani. Non solo ci rende un servizio indispensabile alla gestione del nostro vivere, ma sotto sotto ci dà la sicurezza che – anche se il mondo si dovesse rovesciare – noi prima o poi troveremmo di nuovo le cose che si sono perdute. E le persone che non ci sono più non smettono di essere, sono comunque presenti nella nostra mente oltre che nel nostro cuore appena le nominiamo. Una sorte di magia, vero?

La parte più delicata è stata trovare il giusto nome alle emozioni, ai sentimenti, a quei pensieri che fuggono da ogni catalogazione. Alcuni ancora ci risultano inafferrabili, ma con parafrasi o facendo un giro più lungo, alla fine ce la facciamo a individuarli e a fermarli con uno spillo come fossero farfalle.

Lo facciamo per bisogno d’ordine, vero, ma soprattutto per bisogno di controllo. La vita si muove senza posa, si intreccia, si ingarbuglia e noi con lei a starle dietro. Cerchiamo di bloccarla almeno quando le cose sono belle, cerchiamo di far durare quegli istanti un po’ di più, ma raramente ce lo lascia fare. Forse perché nel momento in cui ti abitui al bello, il bello smette di brillare adeguandosi ai tuoi occhi che ormai non vedono più.

Nominare qualcosa di brutto ti mette a disagio, come se lo stessi chiamando affinché si materializzasse davanti a te all’istante. Eccolo qui, ancora una volta quel sentore di incantesimo, quasi di maledizione. Abbiamo più paura di nominare il brutto che il bello, non è un caso, il brutto ci sente meglio ed è di bocca buona.

Il punto è che tutto ciò che non nominiamo s’ingigantisce nel nostro inconscio e ci avvelena con un sottile tremore dell’anima. Temiamo ciò che non sappiamo nominare, c’è in quel vuoto del suono un vortice che ci risucchia nella pancia dell’uomo nero. E noi bambini siamo senza speranza.

Ribellarci al silenzio omertoso non è più una scelta, rimane l’unica via.

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(730) Occhiali

Ultimamente mi sono dimenticata di indossare gli occhiali rosa. Esistono solo nella mia testa, ma mi sono stati utili in diversi frangenti, soprattutto quando il sole era troppo o il freddo era troppo o lo schifo era troppo. Il troppo vestito di rosa viene smorzato e si trasforma in sopportabile. Gioco scemo eppure efficace.

Sopportare significa che non ti va bene, ma proprio non ti va bene, però ti rendi conto che lo devi attraversare e che devi trovare un modo decente per farlo. Son passata di troppo in troppo e non ho avuto il tempo di cercarli, quei dannati occhiali rosa, li avevo appoggiati chissà dove e me li ero dimenticati quasi del tutto. Fino a oggi.

Oggi mi sono resa conto che ne avevo bisogno. Il troppo di questi ultimi tempi non è stato nulla di tragico, nulla di devastante, ma il troppo rimane troppo. E c’è bisogno di fermarsi, c’è bisogno di riflettere, c’è bisogno di smorzare l’intensità perché gli occhi sono stanchi.

Ho un talento per la sopportazione, ma non è affatto una caratteristica positiva. Ammiro chi non sopporta e reagisce in modo da non subire  situazioni che sono oggettivamente intollerabili – per diversi motivi. Io penso sempre che, prima di reagire con decisione, devo arrivare al punto che il troppo sia colmo. E ci arrivo, altroché se ci arrivo, ma ci arrivo sfinita. Ecco, vorrei riuscire a fare diversamente. Mi spingo sempre oltre ogni limite e poi crollo e stacco.

Gli occhiali rosa oggi li ho indossati per guardare tutto quello che in un anno ho attraversato e quanto la mia sopportazione abbia creato e bruciato dentro e fuori di me. Sono rimasta allibita. Ho fatto diventare quel troppo enorme e ho sopportato innanzitutto quella me che attraversava il troppo esagerato come se fosse parte del pacchetto all-inclusive. Evviva. No, davvero, sono veramente troppo avanti. Un genio.

Dovrò sforzarmi d’ora in poi di essere meno genio o camperò ancora poco. Dovrò sforzarmi di avere una voce più decisa, anche quando la voce mi mancherà del tutto. Dovrò sforzarmi di crescere, molto probabilmente. Non mi piace pensare che dovrò forzarmi a fare diversamente, ma naturale non mi viene di certo pertanto sarà bene che io mi ci metta d’impegno. Sì, è arrivato il momento di ripensare al come di ogni mio silenzio per fissarlo con pesi differenti. Ho attraversato un onorevole numero di troppo, mi posso pure accontentare di un abbastanza e sopportare il giusto e darmi pace il giusto lasciando andare il giusto.

I toni accesi mi hanno sempre dato noia, dopotutto. Meno genio e più concretezza, perdio!!!

 

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(662) Tolleranza

tollerare v. tr. [dal lat. tolerare, affine a tollĕre “levare”] (io tòllero, ecc.). – 1. a. [mostrare pazienza e rassegnazione di fronte a fatti o situazioni spiacevoli: t. un’ingiustizia] ≈ accettare, (fam.) mandare giù, (fam.) sciropparsi, sopportare, (non com.) sorbettare. ↑ arrendersi (a), cedere (a), rassegnarsi (a), subire. ‖ consentire, permettere. ↔ insorgere (contro), opporsi (a), reagire (a), respingere, ribellarsi (a), rifiutare. b. [con riferimento a persona, accettare a malincuore la sua presenza] ≈ (fam.) mandare giù, reggere, (fam.) sciropparsi, sopportare. ↔ apprezzare, gradire. c. [considerare con indulgenza punti di vista, comportamenti e sim. diversi dai propri] ≈ accettare, accogliere, ammettere, comprendere. ↔ contrastare, opporsi (a), respingere, rifiutare. d. [non essere contrario all’uso di qualcosa e sim.: t. l’uso di droghe] ≈ ammettere, autorizzare, consentire, permettere. ↔ interdire, proibire, punire, vietare. 2. (estens.) [mostrare una buona resistenza a disagi fisici o materiali: t. il caldo] ≈ reggere, resistere (a), sopportare. ↔ patire, soffrire. 3. (estens.) [considerare la possibilità di uno scarto da quanto precedentemente fissato: t. un piccolo ritardo] ≈ ammettere, consentire. ↑ (fam.) chiudere un occhio (su), passare sopra (a). ‖ giustificare, scusare. [⍈ CAPIRE]

Tollerare è un verbo che non mi convince. In certe occasioni lo trovo appena inevitabile, ma quando si tratta di “mandare giù” o di “sopportare” credo sia pericoloso. Se ti imponi di accettare, non è accoglienza, è un countdown che finisce nello sbrocco – quello brutto per di più. Diventi una pentola a pressione e il risultato è già scritto.

In più di un’occasione ho abbracciato la tecnica della tolleranza e non è mai finita bene. Non so fingere, neppure per mio tornaconto. Se una cosa non mi va giù, non mi va giù e basta. Metti anche il caso che mi sia infognata nelle ragioni sbagliate, non migliora la situazione se ingoio il rospo e faccio buon viso a cattivo gioco. Rimando soltanto il momento della verità. Il che è peggio perché nel frattempo ho covato malessere.

Detto questo: ci sono delle cose o delle persone che sanno essere profondamente fastidiose e andarci a patti è un diavolo di casino. Appurato ciò bisogna trovare il modo di sistemare le proprie posizioni senza dover per forza rinunciare alle nostre sacrosante ragioni. Quando si tratta di cose viene più facile, con le persone ci sono complicazioni e conseguenze a non finire. Con le persone bisogna tirar fuori risorse che ci costano fatica: comprensione, empatia, accoglienza. Grande fatica.

Non è mai, credo, una lotta contro l’altro, ma una lotta contro il fastidio che un comportamento o un’abitudine o un’indole ci scatenano. Il fatto che siamo comunque diversi, anche quando siamo fin troppo simili, non facilita di certo le cose. Eppure, sono sempre più convinta che tollerare il fastidio sia una certezza di rissa futura. Ci dobbiamo appellare, dunque, al concetto di tolleranza zero? Eh, mi viene da ridere. E se togliessimo come concetto quello proprio di tolleranza e lo sostituissimo con quello relativo a compromesso?

compromesso² s. m. [dal lat. compromissum]. – 1. (giur.) [accordo con cui le parti si impegnano a stipulare un futuro contratto, spec. di compravendita] ≈ (accordo) preliminare. 2. (estens.) a. [accordo in cui ciascuna delle parti rinuncia a qualcosa: venire, arrivare a un c.] ≈ accomodamento, transazione. b. [rinuncia ai propri principi: una vita di compromessi] ≈ cedimento, ripiego. 3. (fig.) [fusione di elementi diversi: un c. tra il vecchio e il nuovo] ≈ ibrido, (fam.) via di mezzo.

Sì, mi rendo conto ci siano dei rischi pure in questo caso, ma le cose possono cambiare, le persone raramente lo fanno… si aggiustano o si guastano del tutto, ma diverse non potranno mai esserlo. Esattamente come non potremmo essere noi diversi da noi stessi. Sarebbe buttarsi in braccio all’insanità mentale, no?

Ogni volta che ho pensato di poter tollerare senza esplicitare il mio malessere in proposito l’ho fatto per non ferire qualcuno o per non far scoppiare una situazione che già stava in bilico. Ho pensato che prendendomene il peso avrei evitato lo scatafascio, mi sbagliavo. Mi sono procurata ferite brutte in nome di una tolleranza forzata, ho buttato giù muri a suon di testate e potevo evitarmelo se non mi fossi data all’accettazione scellerata.

Il compromesso, quello buono, quello efficace, quello giusto, tiene conto di ogni parte in causa. Si preoccupa di distribuire il fastidio affinché non risulti insopportabile per nessuno. Impone delle regole che avvicinano alla convivenza e non allontanano gli animi facendoli rodere nel silenzio. In fin dei conti, siamo fatti per vivere uno accanto all’altro, non ci sono abbastanza picchi sull’Himalaya per accoglierci come eremiti… facciamocene una ragione.

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(626) Scomodità

Nomina una scomodità (mi sono detta oggi). Una sola? (mi sono risposta). Già, anche se sono diventata una specialista dei telegrammi, una sola è davvero poco. Posso scriverne cento di scomodità che ho abbracciato fin da piccola senza neppure accorgermene. Mi sembrava fosse normale, fosse una cosa da tutti. Crescendo ho capito che non era così.

Però anche alle scomodità ci si può affezionare, pensi che alla fine non è proprio ‘sta gran cosa e vabbé, va bene così. Sbagliato.

Mantenere salde certe scomodità non va bene, non va bene affatto. Metti che hai un materasso che ti spacca la schiena. Cambialo, subito! Metti che hai le scarpe strette. Ma sei matto? Buttale, ora! Ecco, siamo tutti d’accordo che bisogna disfarsi di certe scomodità, giusto?

Non è così in effetti, ci sono delle situazioni estremamente scomode che teniamo strette e queste maledette ci rosicchiano i nervi, fino a staccarceli come corde di violino spezzate dal logorio dell’archetto. Non siamo qui per soffrire, ce lo dicono a messa, ma è una balla. Siamo qui per vivere, fare in modo che il vivere non sia un fastidio è compito nostro.

E il nostro diritto alla comodità è il diritto di tutti. Ovunque.

Non significa calpestare le comodità degli altri per stare più larghi, neppure togliere di mano le comodità altrui per averne di più. Ci vuole misura, come sempre, ci vuole misura e rispetto, come sempre deve essere.

Ho deciso che toglierò di mezzo alcuni fastidi, il primo fra tutti è il silenzio obbligato, poi verrà il turno del sorriso forzato, poi penserò al sì stretto tra i denti. Uno dopo l’altro cadranno da me per farsi seppellire come meritano.

È tempo di prendersi la comodità di essere soltanto quella che sono. Adesso.

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(580) Pulitzer

Presentalo brevemente così che possano leggerlo, in modo chiaro così che possano capirlo, in maniera pittoresca perché sia ricordato e, soprattutto, in modo esatto così che possano essere guidati dalla sua luce. (Joseph Pulitzer)

Mi sarebbe piaciuto incontrare Joseph, mi sarebbe piaciuto poterci parlare per qualche minuto, capire di che pasta era fatto veramente. Quando leggi una frase come questa e ne fai una bandiera affinché sia chiaro a tutti l’ispirazione a cui attingi, due domande ti si possono concedere, no?

Riuscirei a essere breve e chiara, pittoresca ed esatta, e riuscirei anche a far trapelare l’emozione di quelli che sono stati i miei anni di scrittura. Avrei per lui ascolto totale e immensa gratitudine, il rispetto estatico che si riserva ai Maestri. E c’è un altro Maestro a cui vorrei consegnare tutto questo, non molto lontano da me eppure lontanissimo, e vorrei che lui potesse sentire quanto è riuscito a regalarmi da ogni riga che ha scritto. Ogni giorno, penna in mano e mano che poggia sulla carta, ho tenuto fede al mio impegno per assomigliare a lui almeno un po’. Non importa quanto io sia diventata brava nel fallire, importa che io abbia ancora fede e ancora lo stesso impegno che mi porterà a fallire meglio (Beckett docet). Cos’altro potrebbe essere la mia vita?

Ci sono Maestri e ci sono Allievi, raramente gli Allievi riescono a superare i Maestri e sicuramente non ci riescono se nutrono tale ambizione. Essere Allievo è un grande privilegio, essere ispirato è un grande dono. E, forse, le parole a un certo punto cadrebbero sfinite a metà strada se potessi trascorrere alcuni minuti in compagnia dei miei Maestri. Il silenzio s’imporrebbe come unica via e – forse – come unico grazie possibile. Con commozione, ovviamente. Profonda commozione.

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(461) Podcast

Non avrei immaginato, dieci anni fa, che il podcast potesse essere un mondo a me affine. Un modo per creare, e soprattutto per comunicare, che si sarebbe rivelato fondamentale per la mia crescita personale e anche per quella professionale. Il mio accettare la sfida – ringraziare Simone per questo è sempre cosa buona e giusta – è stato il regalo più bello che potessi farmi e non solo per il periodo che stavo vivendo, ma anche per gli anni successivi. Fino a oggi.

Ho creato una decina di programmi diversi, tutti con una loro specifica identità, che mi hanno permesso di accompagnare in ogni momento della giornata e della notte chi volesse ascoltarli. Centinaia di persone. Non le conosco, non ho mai visto i loro visi, mai sentito le loro voci, mai saputo nulla della loro vita o dei loro desideri o sogni… eppure ho avuto il privilegio di restare con loro un po’ per condividere pezzetti di me.

Non ho mai analizzato gli ascolti – come si fa in radio – perché non volevo essere vincolata (emotivamente parlando) ai piccoli numeri o ai grandi numeri – rispetto a chi e a cosa poi ci sarebbe da discuterne – ma volevo semplicemente creare qualcosa di bello. Credo di averlo fatto, ogni volta.

So che farsi i complimenti da soli è patetico, ma questa sera non sto celebrando il mio essere brava (seppur patetica) perché non ho mai pensato di esserlo davvero e definitivamente, stasera voglio guardare agli ultimi dieci anni di lavoro onesto e dedicato e ringraziare tutto quello che il podcast ha raccolto di me e tutti quelli che lo hanno condiviso con me. Un’esperienza eccezionale, un percorso senza eguali perché nel podcasting ognuno si fa la sua strada – puntata dopo puntata – e non c’è una migliore dell’altra, sono tutte strade possibili.

Mi sto prendendo una pausa e sto già soffrendo di nostalgia, ma credo sia uno stop che devo fare e che devo fare ora. Ho un progetto in mente, che ha a che vedere con il podcast ovviamente, ma ogni cosa a suo tempo e soprattutto devo permettere al tempo di fare pulizia.

Ho messo da parte un capitale importante, che parla di umanità e di bellezza, e sarà lui a farmi ritornare davanti a un microfono per cercare ancora e ancora di raccontare una storia.

E ora… silenzio.

 

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(455) Eremo

Non ci resisterei troppo, al massimo sei mesi secondo me. Sarebbe un modo per disintossicarmi da 45 anni di mondo, non un abbracciare la solitudine totale per finire lì i miei giorni. 

Do per scontato che avrei un sacco di scazzi durante i sei mesi, per quanto io possa bastare a me stessa in fatto di immaginazione fantastica (e anche meno fantastisca) con un sacco di storie da scrivere e da costruire – non è che me ne starei con le mani in mano e roba del genere- non sarebbe una condizione naturale, anche se sono in origine un’introversa viscerale. La voglia/bisogno di sentire la voce delle persone che amo, la tentazione di sbirciare su facebook e via così, no non sarebbe un’avventura facile però, sicuramente, realizzerei una sorta di desiderio egoistico all’ennesima: farmi i fatti miei a dispetto del mondo intero.

Detto questo, so bene che non lo farò mai. L’Eremo è una di quelle condizioni che non realizzerò, perché sicuramente il realizzarla la renderebbe odiosa. Ciononostante, quella condizione di solitudine cerco di attuarla ogni volta che mi si presenta l’occasione e se l’occasione non mi si presenta (in certi periodi è un delirio) allora me la cerco e la strappo via a morsi dal quotidiano che mi macina.

Ho un piccolo Eremo dentro di me, molto basic, niente di chic, piuttosto freddino, niente comodità, silenzioso quel tanto che basta e accessibile solo a me. Ce l’ho, lo frequento spesso, direi ogni giorno a piccole dosi. Non sono quella delle meditazioni, non ne sono capace e mi piacerebbe tanto, ma quella delle fughe di silenzio random. Quelle mi vengono benissimo, sono una specialista.

Non sto a dire che può bastare per elevare lo Spirito, ma il mio Spirito ha compassione di me e sopporta questi stupidi escamotage che metto in atto per evitare l’esaurimento. Mi sostiene con la speranza che prima o poi mi ci metterò d’impegno e lo curerò come e quanto merita. Ora non ne ho le forze, e per quanto mi dispiaccia essere come sono, penso sempre che da qualche parte si debba pur iniziare e essere una specialista delle fughe di silenzio nel mio piccolo Eremo interiore non sia poi così male come inizio.

Spero.

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(403) Laringite

Male di stagione? Eccomi pronta! E non sto a dire quanto mi girano le palle, che non sto bene e tutto è più pesante e che non posso mangiare, bere, dormire… insomma: laringite. Non è il colera, non è il caso di farla tanto lunga, lo so, ma ne farei volentieri senza. Grazie.

Questa premessa non è soltanto uno sfogo isterico (anche se potrebbe sembrarlo), è un modo per approfondire il pensiero (che ci vuole poco partendo dal basso) e arrivare all’illuminazione che in questi giorni di sofferenza mi ha aperto una via percorribile. Procederò con ordine: gola in fiamme = fatica e dolore anche solo a respirare, figuriamoci a parlare. Ergo: se non vuoi soffrire inutilmente stai zitta. Silenzio = Soluzione.

Il processo è disarmante nella sua banalità, ma se lo sperimenti su te stesso porta a risultati non così ovvi. Dovendo star zitta per la gran parte del tempo ho notato cose interessanti sia su di me che su chi mi sta attorno. Parto da me: parlare stanca, il silenzio dà sollievo. Io parlo troppo, senza se e senza ma. Farei meglio a parlare di meno, e questo farò d’ora in poi. Passando agli altri: chi mi conosce si aspetta che io parli, se non lo faccio si fermano e mi guardano come mi vedessero per la prima volta. Ho ricevuto più sguardi interrogativi in questi giorni che in tutta la mia vita. Non vorrei appesantire troppo la cosa, ma è possibile (direi anche probabile) che il mio parlare tanto vada a indebolire la mia comunicazione. Non è detto che sia proprio una risultanza matematicamente precisa, però sospetto che il punto sia proprio questo: sono esausta e un bel po’ di silenzio (direi qualche tonnellata al giorno) potrebbe essere il modo per arrivare ad una sorta di equilibrio.

Conto molto sul fatto che adesso la cosa mi risulta talmente chiara da non scordarla per un bel pezzo. O almeno fino alla prossima laringite. Amen.

 

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(386) Giustizia

giustizia /dʒu’stitsja/ s. f. [dal lat. iustitia, der. di iustus “giusto”]. – 1. a. [riconoscimento e rispetto dei diritti altrui, sia come consapevolezza sia come prassi dell’uomo singolo e delle istituzioni: agire secondo g.; fare un atto di g.; uomo di grande g.] ≈ correttezza, equilibrio, imparzialità, integrità, moralità, onestà, probità, rettitudine. ↔ disonestà, fraudolenza, immoralità, ingiustitia, iniquità, parzialità, scorrettezza. b. [di atto o comportamento, l’esser conforme a un diritto naturale o positivo: g. di un provvedimento] ≈ giuridicità, legalità, legittimità. ↔ illegalità, illegittimità. 2. (giur.) a. [potere di realizzare il diritto con provvedimenti aventi forza esecutiva, ed esercizio di questo potere: ministero di Grazia e G.; intralciare la g.; g. civile, penale] ≈ ‖ legge. b. (estens.) [autorità a cui tale potere è affidato: ricorrere alla g.] ≈ magistratura, potere giudiziario. ● Espressioni: collaboratore di giustizia [chi decide di collaborare con la magistratura pentendosi dei reati commessi] ≈ (burocr.) collaborante, Ⓖ (fam.) pentito. 3. [attuazione concreta della giustizia in casi determinati: chiedere, ottenere g.] ≈ riparazione. ● Espressioni (con uso fig.): fare giustizia (di qualcosa) → □; farsi giustizia (da sé) → □. □ fare giustizia (di qualcosa) [eliminare la presenza o gli effetti di cose fastidiose: occorre fare g. di questi intralci, di queste seccature] ≈ levarsi di torno (o dai piedi) (ø), liberarsi, sbarazzarsi. □ farsi giustizia (da sé) [reagire a un’offesa ricevuta senza ricorrere all’autorità giudiziaria] ≈ vendicarsi.

In realtà, a questa definizione non serve aggiungere nulla. Posso dire la mia per quanto riguarda le ingiustizie che ho dovuto ingoiare. Ecco, le ho dovute ingoiare perché mi trovavo senza mezzi per reagire, così pensavo. Ora mi domando perché non lo penso più, perché oggi reagirei diversamente?

Forse perché con l’età ho capito la mia forza, la forza di un comune Essere Umano che può decidere che quella cosa ingiusta che gli è capitata sul muso non va bene e non deve per forza andare bene anche se opporglisi potrebbe non essere facile o comodo.

Mi colpì molto un’affermazione di Eleonor Roosvelt, letta anni fa, che mi si impresse nella memoria: “Nessuno può umiliarti se tu non glielo permetti”. Che vuol dire tante cose, ma proprio tante, e tutte fanno capo all’idea che una persona ha di se stessa, del suo diritto di stare al mondo. Anni di costosa psicoterapia che porterebbero comunque a niente. Non è una cosa che si cura, è una cosa che si gestisce. Con tanta fatica e sofferenza, per tutti e nessuno escluso.

Non sono diventata invulnerabile, non sono meno esposta alle ingiustizie, non sono più potente o più furba o più abile nel gestire le cose della vita, questo no. Ho solo deciso a un certo punto che il mio oppormi non sarebbe stato silenzioso, non sarebbe stata soltanto una resistenza intima, perché così non basta. Non basta per niente, neppure per difendere quel grammo di autostima che giace in fondo al tuo stomaco. Non basta.

Ho imparato a dirlo ben motivato il mio no, anche se non viene ascoltato non importa. Importa che io sia capace di tirarlo fuori al momento giusto per dare forza alla mia opposizione. Ora voglio essere io a oppormi agli eventi che cercano di schiacciarmi, non loro che si oppongono al mio voler vivere e vivere bene.

Ci sono persone che senza nulla, né potere nè ricchezze né istruzione né genio, hanno saputo non solo opporsi alle ingiustizie, hanno saputo vincerle. Quelle che io ho subito sono ridicole al confronto, ma non sottovalutiamo le cose piccole perché sono capaci di minare fortemente la nostra Anima.

Detto questo, ogni volta che un’ingiustizia si scaglia contro un Essere Vivente sento le viscere torcersi e mi auguro che quell’Essere Vivente non si lasci andare, non si faccia schiacciare, non pensi neppure per un istante che non ha mezzi né risorse per alzarsi e opporsi. Alzarsi e opporsi, o sedersi e opporsi – come ci ha insegnato il Mahatma Gandhi – e che lo faccia d’istinto, senza perdere tempo, perché così dev’essere e basta. Ogni secondo perso è un’occasione che diamo in mano a chi quell’ingiustizia è deciso a farcela ingoiare contando sul nostro silenzio.

Non è così che il silenzio vuole essere usato, non per agevolare chi si arroga il diritto di sopraffare un altro Essere Vivente. Mai.

 

 

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(356) Punte

Vivere in punta di piedi, non è un bel vivere. Hai paura di fare troppo rumore, paura di rompere qualcosa, paura che qualcuno potrebbe notarti e infastidirsi per la tua presenza. Paura che qualcuno potrebbe accorgersi che sei di troppo, che lì non sei desiderata.

Significa non respirare bene, restare sempre un po’ a metà. Significa mettersi da parte quando capti che qualcuno se n’è accorto, che ci sei e che occupi uno spazio intendo. Significa sentirsi dire che sei ingombrante, che hai manie di protagonismo, che sei in cerca di lusinghe e di clamori, anche quando vorresti che ti si aprisse una voragine sotto i piedi per inghiottirti.

Però. Vivere in punta di piedi ti permette di sollevarti un po’, quel tanto che basta da cogliere il vento nuovo che profuma diverso. Vivere in punta di piedi ti fa resistere al risucchio della forza di gravità, la terra non la calpesti, ti posi più leggera che puoi e non lasci tracce indelebili. Vivere in punta di piedi ti rende silenziosa, nel silenzio puoi ascoltare, puoi imparare, puoi crescere.

Le punte su cui traballo sono ormai consumate. Mi fanno male le dita, le gambe non reggono più il peso. Credo sia tempo di poggiare i piedi a terra, dalle punte ai talloni, e sperare che la terra sopporti i miei chili di troppo. Non so come andrà, so che è stata una scuola dura, quella del vivere in punta di piedi, e che sono abbastanza stanca e adulta da appendere le paure al chiodo. E che la musica continui!

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(340) Lamentela

La lamentela è quella cosa che ti scappa quando: sei infastidito o annoiato o esasperato o arrabbiato o sei in vena di menar le mani, insomma quando sei infelice.

Se stai bene non ti lamenti, neppure se qualcosa ti dà noia. Non lo fai, hai un altro modo di guardare la situazione e ci passi sopra.

Ecco, però, c’è un’altra condizione umana che prende vigorosamente le distanze dalla lamentela perché ne sarebbe sporcata, perché le energie verrebbero succhiate via e non resterebbe che morire, ovvero: il dolore. Intendo quello vero. Quello che ti spacca il cuore, quello che non ti fa respirare, quello che ti toglie le parole e ti congela i pensieri. Il dolore che annichilisce, quello che annienta.

Lì c’è silenzio, c’è immobilità, non c’è lamentela.

Sperimentato questo stato la mia visione sulle cose della vita si è ribaltata. Mi lamento per le stupidate, mai per le cose serie. Le cose serie meritano rispetto, meritano quel silenzio che permette loro di posarsi, dolcemente per non spaccare il cuore che si è fatto di cristallo e minaccia di andare in pezzi.

Bisogna guardare bene le persone silenziose, bisogna ascoltare con attenzione i loro silenzi, bisogna piano piano avvicinarsi e prendere loro la mano. Non serve dire niente, perché in certe circostanze le parole si annullano, perdono consistenza e valore. Anche quelle di consolazione, che è un attimo sentirle di plastica e finire con l’odiarle.

Le lamentele, ripeto, sono per le cose da nulla e la vita è piena di cose da nulla, per questo ci lamentiamo. Però, facciamolo ridendo di noi perché ce lo meritiamo proprio. Ridicoli che siamo.

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(255) Zitta

Ogni tanto me ne sto zitta. Cerco di dimenticare un po’ il suono della mia voce. Uso molto la voce e quando si stanca se ne va.

La seconda volta che se ne è andata era pieno inverno scozzese, non era affatto facile lavorare afona, ma mi sono rimessa al suo volere. Ero sorpresa, non usciva un suono dalla mia bocca per la prima volta dopo anni e non ero costretta a ribattere, non ero obbligata a interloquire, potevo evitare di dire la mia – una volta tanto. Una pausa benedetta.

La prima volta che è successo mi erano state tolte le tonsille. Una settimana di bigliettini su cui appoggiavo le parole con l’inchiostro blu, nero, rosso o viola – assecondando l’umore. Dapprima irritata, poi compiaciuta: nessuno si aspettava nulla da me, potevo pensare e basta.

Dare modo alla mia voce di riprendersi il sacrosanto diritto al silenzio è un dovere che mi sono negata per troppo tempo. Spesso sono stata zittita malamente da qualcuno, ma ha funzionato soltanto per il tempo dello stupore. La reazione ha sovrastato ogni aspettativa. Se resto parlo, e posso dire troppo, se me ne vado ti consegno il mio silenzio imposto e quello urla a più non posso.

Ecco, ogni tanto me ne sto zitta. Non tutto il giorno e non per sempre, ma mi prendo lunghe ore per lasciare libera la mia voce di viversi silente. È quando la sento in affanno, furiosa o confusa. Le lascio il tempo di riprendersi, d’altro canto è lei il mio sostegno.

E, zitta zitta, osservo e ascolto. Osservo e ascolto. Qualche volta scrivo. Anzi, spesso scrivo.

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(237) Pudore

Un senso di opportunità, di rispetto della sensibilità altrui: questo specifica il dizionario. Sinonimo di ritegno, vergogna, discrezione e in questo senso lo sto affrontando.

È un sentimento che mi appartiene profondamente e con diverse declinazioni: il ritegno come senso di opportunità, la discrezione come segno di rispetto della sensibilità altrui, la vergogna quando l’orrore si compie e mi ritrovo inerme e inutile e mancano le parole perché i pensieri si sono svuotati.

Apprezzo il pudore negli altri, quando lo incontro, ma lo incontro raramente. Si sbatte in faccia al nostro prossimo qualsiasi cosa ci riguardi, anche la più intima, la più segreta, come se fosse d’obbligo accoglierla, approvarla, celebrarla. Credo sia ripugnante.

Ci sono scelte delicate, condizioni delicate, posizioni delicate, emozioni delicate che non vogliono essere buttate in piazza alla mercé di chiunque passi. Distogliere lo sguardo, l’orecchio, l’attenzione è segno di rispetto, a volte. Quando è troppo e quando quello che si può fare è niente, l’opportunità del nostro esserci è opinabile.

Il pudore è quella cosa che si muove quando la commozione è profonda e la consapevolezza di ciò che È ti sovrasta. Un sorriso, se è cosa lieta, un abbassare il capo se è cosa greve. Cos’altro fare di più o meglio? Ritrarsi in silenzio, mi è sempre sembrata l’unica cosa possibile quando quello che È mi sovrasta con la sua grandezza, quando terribile e quando magnifica.

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(180) Totem

La discesa è necessaria. Non è una scelta, è inevitabile. Discendere. Prendere posto dentro di te, in silenzio. Periodicamente discendere per prepararsi a un nuovo parto di se stessi.

Lo dico così perché non so dirlo meglio. Dirlo così mi basta – senza pretese di essere capita. Capita da chi, poi? Non è importante. Tanto discenderò lo stesso e lo farò in silenzio, come faccio sempre. Funziona.

L’Orso mi accompagnerà. Non sarò sola.

A questo proposito posso affermare con serenità che questa cosa di me non la cambierei mai, neppure se cambiandola riuscissi a guadagnarmi l’amore di qualcuno. Non sarebbe amore destinato a me. Ormai so riconoscere l’amore, quello che è tuo non lo perdi neppure a volerlo.

Quindi discenderò.

In silenzio.

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(167) Contemplazione

Mi capita spesso, ma il mio contemplare non include il silenzio del pensiero. Ogni volta che ci provo mi innervosisco. La questione dello stato mentale nel quale la calma si stende sul pensiero per farti entrare in una dimensione di pace e tranquillità per me è impraticabile.

Io vago nel caos dei pensieri, pensieri che vanno in loop e che piuttosto di fermarsi si sfondano di tip-tap. Il ticchettìo incessante della loro danza mi impedisce di sperimentare l’immobilità. Tutto quello che mi costringe all’immobilità mentale mi risulta insopportabile. Mi vien voglia di tirare calci.

C’è chi ha cercato di convincermi che dovevo imparare quanto una condizione di pace/silenzio della mente può far bene al mio equilbrio. Ammetto che non ho collaborato, non sono programmata per affrontare questa cosa.

Zompare, caracollare, strampalare. Questo so fare benissimo, questo farò.

Tiratevi da parte se non volete rischiare di essere travolti dalle mie acrobazie: sono imprevedibile e pericolosa.

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(142) Nodi

Dieci anni fa scrissi un romanzo dedicato ai nodi: a come si fanno e a come si sciolgono. Se si sciolgono.

Avevo ben chiaro come si fanno, essendone io piena zeppa, e anche a come si sciolgono – avendone sciolti parecchi, ma una cosa che mi accorgo solo ora di non avere degnamente messo in scena è il sollievo.

Quando un nodo rilascia la corda, questa, se il nodo è di antica data, non ritorna come prima, ne porta i segni in modo evidente. La fibra della corda stressata dalla tensione non naturale per lei, non potrebbe far finta di nulla. Mi chiedo se sia normale sentire il dolore appena il sollievo si fa spazio, appena dopo la liberazione.

Stretto con il nodo, oltre la fibra, c’è anche un carico emotivo a cui viene imposto di rimanere lì immobile e silente. Una volta liberatosi dall’imposizione come si comporta? Rimane inebetito, lì ancora immobile e silente, ma privo del nodo su cui aveva imparato ad appoggiarsi, tutto ritorto e quasi senza equilibrio.

Dovrei parlare di questo in un nuovo romanzo. Perché ora lo conosco, ora so com’è.

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(91) Orizzonte

Tenere lo sguardo a terra è cosa saggia perché se appoggi il passo su un terreno sdrucciolevole, una buca, un ostacolo, finisci a terra che manco te ne accorgi. Ho guardato molto la terra su cui poggiavo i piedi, non mi sono evitata scivoloni, ma sono caduta sempre a metà, preparata un nanosecondo prima grazie al mio guardare.

Se, però, lo sguardo non s’alza mai da terra per rivolgersi a ciò che ti circonda rischi di sbattere ovunque e di farti molto male (oltre ad assicurarti un torcicollo cronico, che non è una cosa bella). Ho sbattuto spesso contro persone e cose che mi hanno fatto male e ho imparato a prestare attenzione a quello che mi sta attorno e a farne i conti.

(guardati attorno, guardati dentro e guarda la terra su cui poggi il passo – un lavoro a tempo pieno che può diventare snervante, lo ammetto)

I momenti più belli in assoluto li ho vissuti quando ho osato spingere il mio sguardo all’orizzonte. Momenti di silenzio in solitudine pressocché perfetta. Credo che quel punto preciso, l’orizzonte, sia l’incontro di ciò che hai dentro, ciò che hai attorno, ciò che hai sotto i piedi e (meraviglia) ciò che hai sopra la testa. E cosa ancora migliore: guardi al tuo cammino con uno scopo, è là che vuoi arrivare.

L’orizzonte è così. Si muove come io mi muovo, per motivarmi a proseguire perché la strada da fare è tanta, molto di più di quello che tu puoi pensare. Si ferma se io mi fermo, per assicurarmi che una meta c’è e mi aspetta. L’orizzonte non scompare neppure quando sei chiuso in una cella (reale o virtuale che sia) perché rimane impresso nella retina e se chiudi gli occhi si ricompone a tuo piacimento. Senza perdere il senso, senza perdere lucentezza.

Il mio orizzonte è così, il mio come quello di tutti. Solo che non tutti se ne accorgono e pensano che spingere lo sguardo all’orizzonte sia cosa da sognatori. Si sbagliano di grosso, è cosa di tutti quelli che amano camminare la propria vita.

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