(740) Felicità

La comprensione è una buona sorgente di felicità. (Daniel Pennac)

Non credo di poter essere più d’accordo con Pennac di quello che già sono. Un modo fantastico di definire il piacere di avvicinarsi a qualcosa o a qualcuno con l’intenzione di conoscere e di comprendere. Non c’è bisogno di fare altro, solo comprendere.

Non dobbiamo trovare soluzioni se non ne siamo in grado. Non dobbiamo offrire la parola giusta se non ne siamo capaci. Non dobbiamo inventarci chissà quale fantasioso gioco di prestigio se le carte ci cadrebbero rovinosamente dalle mani. Dobbiamo soltanto essere disposti a metterci in una posizione dove le informazioni e le emozioni che riceviamo si possano posare per farsi comprendere.

La nostra mente ce lo impone: non siamo tranquilli finché non capiamo, vero? Il nostro corpo non si muove se non capisce cosa deve fare, giusto?

Quando siamo presenti e la comprensione si compie tutto fila liscio, non c’è bisogno di preoccuparsi, non c’è bisogno di inventarsi nulla, si va e si fa. Semplicemente. La domanda, però, rimane: perché non ci fermiamo a comprendere anziché partire in quarta e incasinare tutto? Perché non ci mettiamo nelle condizioni di comprendere invece di scagliarsi contro tutto quello che ci risulta incomprensibile al primo colpo? Perché pensiamo che il mondo debba essere comprensibile a tutti e in qualsiasi momento nonostante la sua disarmante complessità?

Che pretese abbiamo nei confronti del nostro prossimo, se non riusciamo a comprendere neppure noi stessi?

Pennac, aiutaci tu!

 

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(625) Confronti

I confronti sono una brutta bestia. A forza di comparazioni ci si fa un torto difficile da lavar via, per quanto tu possa grattare resta sempre una macchia. Ci cadiamo tutti, continuamente. Ed è quel continuamente che bisognerebbe contenere, costruire un bel argine per non perdere la brocca. 

Il confronto che ci vede vincitori, ci dà l’illusione di essere superiori, migliori. Soltanto un gioco di prospettive, un abbaglio, che però incalza l’ossessione di noi stessi e ci rende arroganti, supponenti, prepotenti. Non va bene, stiamo un attimo a montarci la testa e una vita a farcela smontare (qualcuno lo farà, prima o poi, anche se non glielo chiediamo – una sorta di Giustizia Universale, chiamiamola così).

Il confronto che ci vede perdenti, purtroppo, non ci dà soltanto un’illusione ma ci costruisce una mina antiuomo dentro lo stomaco, che appena ci mettiamo il piede sopra: bum. Iniziamo a guardarci con occhi brutti, con disprezzo. Cominciamo da lì ad analizzare ogni dettaglio che ci riguarda come se non vedessimo l’ora di trovarci ulteriore materiale per denigrarci, per raderci al suolo. Solitamente ci riusciamo, siamo maghi in questo, nessun rivale.

I confronti sono una brutta bestia che ci costruiamo da noi, quotidianamente, con mattoni piombati che ti vanno a pesare sul cuore. Non riesci a guardarti con disincanto, a considerarti un Essere Umano normale, ti vedi o come Superman o come un atomo di niente. E non va bene, lo sappiamo che non va bene, ma lo facciamo, sempre. Un eterno Io vs. Resto-dell-Umanità che neppure quando ha senso fa capo a un valore.

Non sto qui a dire che siamo tutti unici e irripetibili, anche se lo penso, eppure siamo quello che siamo e siamo qui per fare del nostro meglio, soltanto questo. Fare del nostro meglio ci mette in una posizione di imparagonabilità magnifica. Ammirare le qualità o le vittorie degli altri e osservare i loro limiti e le loro debolezze, senza marce funebri né sambe indiavolate, sarebbe già un bel modo per tenersi d’occhio, no?

Virtualmente parlando, non fa una grinza. Bastasse questo sarei a posto.

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