(620) Glitter

Quando la realtà manca di luccichii bisogna glitterarla un po’. Non è cattiveria, la sua, è che le cose sono sempre troppo complicate e si perde brillantezza a star dietro a tutto. Una spruzzata di glitters e via! Cambia tutto.

No, non è vero, non cambia tutto, cambia un bel niente, ma forse diventa più sopportabile. O almeno ti sembra. E a volte quel “ti sembra” può salvare la speranza.

Come quando ricordi una persona che non c’è più e decidi di tirare fuori il meglio di quello che era ed è stato. In quel momento fai una cosa buona per te, per lei e per chi ascolta. Non è che è tutto lì, lo sai tu e lo sanno tutti, è che scegli di riportare nel presente qualcosa che di bello è accaduto in passato che l’ha vista protagonista, magari ti scappa ancora la stessa risata o anche soltanto un sorriso. Un po’ di glitter, ecco.

Questo intendo, obbligarsi a riportare un brillìo di qua e uno di là, riportarli visibili dove si erano spenti, altrimenti la cortina grigia piomba giù e chi osa più alzare la testa?

Lo si fa con l’ironia e con l’autoironia, che arrivano come spruzzate di acqua energizzante mentre sei sul lettino alle lampados. Basta poco e ti sollevi, ti scrolli di dosso la patina di drammaticità stagnante che ti schiaccia. Non so se è un’Arte che si impara, forse ci si nasce. Io ho la fortuna di averla nei geni, eredità che nella mia famiglia è stata coltivata e mantenuta viva e ben vivace, e credo sia il dono più grande che abbia ricevuto.

Una spruzzatina, prima-durante-dopo i pasti, sberluccicanti prismi che giocano con la luce che si colora. Cosa chiedere di più?

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(489) Estrosità

La mia estrosità è subdola, è poco evidente… perfino a me stessa. Non me ne accorgo finché non mi confronto con il resto del mondo, allora sì che diventa chiara e spiazzante.

Non c’è da stupirsi, un punto di vista soggettivo è sempre parziale, ma adottarne uno oggettivo a prescindere è faticoso fuor di misura e lo fai soltanto quando ce n’è davvero bisogno. Ecco perché tendo a essere stramaledettamente soggettiva e mi vivo la mia estrosità senza troppe menate. Non ci do peso e spero sempre che anche gli altri facciano altrettanto – non sono pericolosa, sono solo stramba!

Ovviamente, non avviene spesso, prima o poi me lo si fa notare. Cosa fastidiosa, perché io con le eccentricità degli altri mica lo faccio, è perlomeno ineducato, è segno di mancata delicatezza!

Eppure sto lì e mi becco quel che mi devo beccare, a volte sorrido – perché l’autoironia è sempre LA salvezza, altre volte arrossisco, altre impallidisco, altre rispondo per le rime. Mi sento meglio quando rispondo con sarcasmo, ho più soddisfazione, ma raramente me lo permetto ed è un peccato.

Tutto questo per dire che l’essere estrosa è una caratteristica che giace in me senza bisogno di estrinsecarsi in fuochi d’artificio, eppure non viene perdonata da chi mi percepisce come un pericolo, un destabilizzatore minaccioso per il loro equilibrio mentale. Mi fa piuttosto ridere, ma per quanto assurdo possa essere – e lo è eccome, se lo considerassi un mio ennesimo superpotere sarei pronta a conquistare il mondo!

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(51) Ridere

Non è detto che io debba sempre essere intelligente. Neppure arguta e verbalmente agile. E preparata, attenta, sicura di me stessa. Non è detto.

Non so dove io lo abbia sentito che doveva essere così, essere sempre impeccabile, anche perché impeccabile non lo sono mai. Proprio mai. Neppure dentro la mia testa, neppure nei miei voli pindarici. Proprio mai.

Quindi tutte le volte mi devo ricordare che non devo esserlo, se capita ogni tanto va bene, ma in realtà non devo essere niente di più di quel che sono (che già è una bella fatica essere quello che sono).

D’accordo, fin qui ci siamo.

A sensi di colpa, però, come siamo messi? Sparati alle stelle. Nonostante tutto e nonostante tutte le imperfezioni degli altri. No, quelle degli altri vanno bene, le mie no. Le mie sono imperdonabili. C’è da ridere, no?

Infatti, l’unica a salvarmi è l’autoironia. E’ quella cosa che si fa quando estrai quel pezzo biasimevole da dentro te e lo getti fuori, lì davanti a te. E ci ridi. Non è più roba tua che nascondi, è roba che esce da te e quindi (per assurdo) potrebbe anche non appartenerti più una volta che l’hai fatta uscire. Infatti ora sta lì e tu la guardi e ci ridi. La riconosci, è tua, ma non sei tu.

La riconosci, ti appartiene, ma non sei tu.

Risultato: il pezzo che ti sei tolta ti ha tolto pesantezza (Che sollievo! Che leggerezza!) e ora che te lo guardi meglio e te la ridi scoprendo che non è poi così imperdonabile.

Esercizio da ripetere più volte al giorno con caparbietà.

Funziona.

Il comico si rivolge all’intelligenza pura; il riso è incompatibile con l’emozione.

(Henri Bergson, “Il Riso” (1901)

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