(991) Unicorno

Dovremmo averne tutti uno. Da tenere segreto, da tirar fuori quando le cose non vanno proprio bene. Dai, trasferiamoci tutti a Fantasilandia ed è fatta!

In questa nostra pesante realtà, un Unicorno potrebbe essere la capacità di auto-sostenerci con spunti creativi che riescano a risolvere le nostre miserie. Fattibile ma impegnativo. Bisogna non perdersi d’animo e mantenere un certo livello di fede nel proprio potere. Se ce la fai sei il/la King.

In mitologia, la creatura magica è uno splendido cavallo bianco con un corno in mezzo alla fronte che non si fa avvicinare se non da un cuore puro. Avrebbe comunque vita dura qui da noi. Forse lo sa ed è per questo che ci sta alla larga. 

A me basterebbe vederlo da lontano, o con la coda dell’occhio, così tanto per saziarmi un po’ della sua bellezza. C’è una sorta di consolazione nel riuscire a immaginarsi meritevoli, immaginarsi capaci di avvicinare una creatura talmente potente da non guardare a sé stessa come proprietà d’altri. Sapersi appartenere e basta.

Certe distanze siderali affaticano la percezione, raramente intercettano quel calore che rincuora. Queste distanze pagano il dazio ogni volta che pensano di poter varcare certi confini per saldare vecchi conti e mettersi in pari.

Ci sono Unicorni che ci galoppano attorno, credo, e noi non ce ne accorgiamo perché siamo confinati in terre desolate dove sappiamo soltanto rotolare, senza mai trovare pace.

Cos’è poi la purezza se non la resa al bene più grande?

 

 

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(637) Identico

Stasera faccio una cosa diversa: prima scrivo e poi ricavo dal testo il titolo. Si potrebbe pensare che sappia già cosa scrivere, giusto? No, sbagliato. Soltanto che mi sono un po’ stancata delle gabbie che mi sto costruendo da 636 post, ho bisogno di un po’ d’aria senza filtri.

Potrei parlare di come una volta che ti viene confezionato addosso un abito sia un gran casino cambiarselo. Tipo: ti fai vedere in giro con bermuda hawaiane, canotta fantozziana, calzini con sandali alla tedesca e per tutti sarai per sempre quel disadattato che in una giornata di scazzo s’è fatto quattro passi sovrappensiero mentre cercava una buona idea per pagarsi le bollette. Fa niente se di solito vesti in frac e sei un gran signore, tu sei e rimani per tutti un eccentrico e grottesco fannullone finché muori. Stessa cosa anche fosse la situazione inversa. Funziona così.

Ogni volta che qualcuno mi chiede che lavoro fai, partendo da questo presupposto, vado in crisi. Ho fatto la cameriera, la baby-sitter, la donna delle pulizie, la commessa, la centralinista, la segretaria, l’insegnante di scrittura creativa e ora sono responsabile della comunicazione di una manciata di start-up… ho cambiato abito mille volte ed è probabile che lo cambierò ancora, quindi mi chiedo: che lavoro faccio?

Le varianti confondono. La fluidità, contrapposta alla catalogazione, affatica. La malleabilità viene guardata con sospetto. Il cambiamento infastidisce.

Abbiamo i nostri schemi, i nostri scatoloni in cui infilare tutto, mettiamo ogni cosa al suo posto così la teniamo sotto controllo, così non ci salterà addosso per mangiarci le orecchie durante la notte. Mi viene da ridere, ma che amarezza!

Siamo così impegnati a pretendere pulizia dagli altri che nascondiamo la nostra sporcizia sotto lo zerbino che diventa collina e montagna e noi come se niente fosse domandiamo ancora e ancora: cosa fai? Cosa fai? Cosa fai?

E se cambiassimo la domanda in: chi sei?

E no! Comporterebbe la rogna di andarsi a cercare la risposta in chissà quale anfratto dell’anima. Sempre diversa a ogni occasione. Perché non siamo mai una cosa sola e sola soltanto. Conteniamo moltitudini come Walt Whitman ci ha insegnato, e queste moltitudini ci spaventano a morte. Le nostre, poi, sono le più terrificanti di tutte perché in fondo in fondo le conosciamo bene, anche se ce le nascondiamo. Sappiamo che siamo noi ad averle generate e non riusciamo a perdonarcelo. Ma perché?!

E se non ci fosse nulla da perdonare? Eh? 

Lo sguardo che va a pesare sul collo affossa l’idea che abbiamo di noi ed è una violenza inaccettabile da noi stessi perpetrata. Se, invece, è il nostro sguardo a pesare sul collo di qualcun altro meritiamo lo stesso inferno che stiamo causando. Ma proprio uguale uguale.

Identico.

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