(637) Identico

Stasera faccio una cosa diversa: prima scrivo e poi ricavo dal testo il titolo. Si potrebbe pensare che sappia già cosa scrivere, giusto? No, sbagliato. Soltanto che mi sono un po’ stancata delle gabbie che mi sto costruendo da 636 post, ho bisogno di un po’ d’aria senza filtri.

Potrei parlare di come una volta che ti viene confezionato addosso un abito sia un gran casino cambiarselo. Tipo: ti fai vedere in giro con bermuda hawaiane, canotta fantozziana, calzini con sandali alla tedesca e per tutti sarai per sempre quel disadattato che in una giornata di scazzo s’è fatto quattro passi sovrappensiero mentre cercava una buona idea per pagarsi le bollette. Fa niente se di solito vesti in frac e sei un gran signore, tu sei e rimani per tutti un eccentrico e grottesco fannullone finché muori. Stessa cosa anche fosse la situazione inversa. Funziona così.

Ogni volta che qualcuno mi chiede che lavoro fai, partendo da questo presupposto, vado in crisi. Ho fatto la cameriera, la baby-sitter, la donna delle pulizie, la commessa, la centralinista, la segretaria, l’insegnante di scrittura creativa e ora sono responsabile della comunicazione di una manciata di start-up… ho cambiato abito mille volte ed è probabile che lo cambierò ancora, quindi mi chiedo: che lavoro faccio?

Le varianti confondono. La fluidità, contrapposta alla catalogazione, affatica. La malleabilità viene guardata con sospetto. Il cambiamento infastidisce.

Abbiamo i nostri schemi, i nostri scatoloni in cui infilare tutto, mettiamo ogni cosa al suo posto così la teniamo sotto controllo, così non ci salterà addosso per mangiarci le orecchie durante la notte. Mi viene da ridere, ma che amarezza!

Siamo così impegnati a pretendere pulizia dagli altri che nascondiamo la nostra sporcizia sotto lo zerbino che diventa collina e montagna e noi come se niente fosse domandiamo ancora e ancora: cosa fai? Cosa fai? Cosa fai?

E se cambiassimo la domanda in: chi sei?

E no! Comporterebbe la rogna di andarsi a cercare la risposta in chissà quale anfratto dell’anima. Sempre diversa a ogni occasione. Perché non siamo mai una cosa sola e sola soltanto. Conteniamo moltitudini come Walt Whitman ci ha insegnato, e queste moltitudini ci spaventano a morte. Le nostre, poi, sono le più terrificanti di tutte perché in fondo in fondo le conosciamo bene, anche se ce le nascondiamo. Sappiamo che siamo noi ad averle generate e non riusciamo a perdonarcelo. Ma perché?!

E se non ci fosse nulla da perdonare? Eh? 

Lo sguardo che va a pesare sul collo affossa l’idea che abbiamo di noi ed è una violenza inaccettabile da noi stessi perpetrata. Se, invece, è il nostro sguardo a pesare sul collo di qualcun altro meritiamo lo stesso inferno che stiamo causando. Ma proprio uguale uguale.

Identico.

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(629) Fuori

Fuori può essere accompagnato da una moltitudine di piccoli e grandi concetti che vanno a rafforzare il suo stato: sei fuori quando non sei dentro. Eh, sembra facile, ma forse non lo è.

Fuori dalle regole, fuori dal mondo, fuori porta, fuori serie, fuori dal seminato, fuori fuoco, fuori sede, fuori dal coro, fuori orario, fuori tema, fuori di testa, fuori casa, fuori controllo, fuori dal tempo, fuori dal comune, fuori strada, fuori posto, fuori classe, fuori servizio… fuori dalle balle! – è un’esortazione forte e richiede sempre il punto esclamativo.

Il mio stato normale è proprio questo essere fuori, ed è una cosa sottile sottile sottile, che più cerchi di tenere in mano e più ti sfugge. Ho pensato molto al fatto che volevo venirne a capo, volevo capire, volevo trovare delle ragioni, volevo volevo volevo. Forse troppo.

La mia fortuna è che certe volte mi stanco di essere ostinata e lascio andare. No, non è che lascio perdere, mi sale il nervoso se penso a tutte le cose che ho dovuto lasciare andare o addirittura allontanare da me, lasciare perdere non è nelle mie possibilità – il rimurgino sì, quello è uno sport in cui do il meglio di me stessa. Ripenso a quello che ho lasciato andare e mi dico che avrei potuto fare diversamente, magari mi sono persa un’occasione. Stronzate, lo so benissimo, ma per un istante ci credo davvero e mi sento un’inetta. Poi passa, ma non passa mai il mio essere fuori.

Fuori tiro, fuori dagli schemi, fuori rotta, fuori gioco, fuori luogo, fuori dai binari. Fuori. Nel mio essere fuori raramente lo sono in compagnia. Ma proprio rarissimamente. A chi sta fuori come me la compagnia non fa sempre bene, il silenzio invece sì. La compagnia ideale è quella che non ti obbliga  a rientrare, quasi fosse un dovere che cerchi di schivare. Ma non è così semplice. Se stai fuori soffri il vento e il sole e la pioggia e la tempesta e non si smette mai di cercare rifugio. E quando lo trovi dura poco. Stare fuori è una condizione dell’Anima e l’Anima non si cambia, ma l’Anima – se l’ascolti – ti cambia.

Non è che è sia meglio stare fuori che stare dentro, non lo potrei mai affermare perché non so come si sta dentro. So solo che va bene comunque, basta saperlo, basta potersi vivere la propria condizione con un certo equilibrio e onestamente.

E poi c’è chi finge, in quel caso non c’è proprio niente da dire.

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