(1070) Perimetri

Oggettivamente parlando siamo fatti di perimetri e di aree. Il nostro corpo ha un perimetro e il contenuto è l’area, la nostra mente ha un perimetro e un’area, il nostro cuore (inteso come luogo dei sentimenti) ha un perimetro e un’area. Questi limiti ci dicono fin dove ci possiamo spingere, andare oltre non è permesso senza conseguenze, andare oltre ti mette in pericolo, andare oltre ti può costare la vita.

È rassicurante avere un perimetro che puoi seguire con la punta delle dita e su cui poter contare, crearsi delle certezze aiuta. Il corpo parla chiaro, lo vedi e lo senti, è abbastanza assertivo quando lancia i suoi avvertimenti, ma la mente no. La mente ama spingersi oltre, la mente sana (sembra un ossimoro ma non lo è, e qui sta il guaio) lo fa continuamente perché andare un po’ più in là ti permette di scoprire cose che ancora non conosci. Se rimane in equilibrio, la mente a un certo punto si ferma e ti dice: “Goditi quel che già sai, lascia il resto ai dissennati”. Se sei saggio le dai ascolto.

Ma parliamo del cuore, parliamo di quello che i sentimenti osano (e se non osano loro chi altro potrebbe?) e sanno fare (aiuto!). Il perimetro di ciò che sentiamo è bislacco, fa fatica a chiudersi, rimane qualche fessura di qua e di là e scappa sempre qualcosa. L’area che dà sostanza al sentimento ha intensità diverse, non è omogenea. Ami? Certo! Con quante diverse intensità provi lo stesso sentimento per la stessa persona? Cento? Mille? Centomila? Ma siamo seri! Di cosa stiamo parlando? Del Caos, in pratica.

E non ho ancora capito come puoi contare su un perimetro che ha delle fessure e su un’area che ha vuoti e addensamenti sparsi senza mappatura né segnaletica, non lo so. Temo che non ci si possa contare affatto. Temo che non ci siano certezze. Temo che non ci siano bussole o misuratori di temperatura che tengano. Il Caos. Punto.

Allora la domanda rimane una soltanto: io con me non posso avere certezze, quindi come posso pretendere certezze dagli altri? Semplice: non posso. 

E così sia.

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(1031) Scollamento

Per la maggior parte del tempo abbiamo la consapevolezza di essere un pezzo unico. Corpo + mente + cuore = Persona Intera. Non fa una piega. 

Ci sono dei momenti, però, dove fatalmente ci si scolla e ci si scopre essere fatti di brandelli messi insieme, anche bene perlamordelcielo, ma che possono volersi staccare quando le condizioni spingono-tirano-premono-squassano. Mai capitato?

Il corpo va da una parte, la testa dall’altra, il cuore tace.

Oppure: il cuore è in tachicardia dura, il corpo non risponde, la testa pensa che i pisellini della Findus son ben più teneri di quelli freschi. 

Cose assure, surreali.

Ai momenti di piena compattezza, dove si va avanti con grande presenza e si affronta la giornata come se fossimo posseduti dallo spirito di Gandalf e oggettivamente saremmo capaci di conquistare il mondo terracqueo, a quelli dove ogni pezzo di cui siamo composti si fa i cazzi propri e non c’è verso di farli comunicare.

L’unica è dormire. No, davvero, bisogna soltanto raggiungere un posto al sicuro, stendersi su un materasso morbido e dormire. Dormire a lungo, ostinatamente, come se niente fosse più importante al mondo.

In realtà è proprio così. Perché se non stiamo incollati e ci scappiamo da tutte le parti, come possiamo affrontare il mondo che ci vuole fare a pezzi?

Non possiamo. Quindi: buon riposo e… spegnete la luce.

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(1029) Corda

Mi rendo conto che sto tirando troppo la corda e che le mie sinapsi e il mio corpo dolorante si stanno ribellando. Ma io continuo imperterrita a impormi di fare i salti mortali perché penso che non ci sia altra scelta.

Ovvio che il mondo non cade se mi fermo io. Ma quello che sto facendo mi impone di continuare perché se mollo crolla tutto. Tutta la mia vita intendo. Questa condizione non mi rende infelice, ma perennemente stanca. Tirare la corda stanca.

Partendo da qui va anche detto che non sto lavorando in miniera per cui non sono di certo io la più stanca zombie che si aggira sulla Terra, ma ognuno sente il suo perciò dichiararmi sfinita non mi pare brutto. Direi piuttosto doveroso. Cambia qualcosa? No, ma lo dico lo stesso.

Allargando il discorso, vorrei soffermarmi sul pensiero che ci sono nel mondo, e sono tantissime, persone che di gran lunga hanno più diritto di me di dichiararsi sfinite, e che queste persone sono costrette a tirare la corda e impiegare ogni grammo di energia residua per portare a termine le proprie giornate. E poi ci si ammala, e poi si sbrocca, e poi succedono casini inenarrabili.

Tirare la corda lo si fa per inerzia, senza pensare di essere arrivati agli sgoccioli, si sottovaluta la propria situazione e ci si convince che quel fantomatico ancora-un-po’ non ci ammazzerà. Siamo fatti così.

Il punto è che Iron Man se lo può pure permettere, noi umani-normo-dotati no. Quindi? Quindi fermarsi mezzo metro dal burrone potrebbe non essere sufficiente, bisogna bloccarsi un paio di km prima almeno.

Lo dico a me e lo dico a chiunque passi di qui a leggere queste righe: bisogna fermarsi quando il burrone non è ancora visibile. Tanto lo sappiamo che c’è, dobbiamo tenerne conto in modo da salutarlo da lontano senza finirci dentro.

Quindi… abbiate cura di voi, ovunque voi siate, sempre.

Buonanotte Folks.

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(980) Fissa

Ti metti al volante e prendi il controllo del tuo mezzo. Sai quando cambiare le marce, lo senti dalla voce del motore, sai come prendere le curve, sai quando dare gas e quando scalare. Lo sai, lo hai imparato. Lo sai fare. Anche discretamente.

Poi arriva il giorno in cui non senti bene, perdi colpi, pensi di essere in quarta e sei in terza (e chissà per quanto sei lì a tirare fino allo spasmo quella povera auto), e prendi male una curva (che per poco finisci fuori strada) e al semaforo dai poco gas e ti muore il motore. Cosa diavolo ti sta succedendo?

Basta una giornata storta, dove sei fuori tono e viaggi altrove con la testa e il cuore chissà dov’è andato e il corpo fa quello che può per starti appresso, anche se è difficile starti appresso e non puoi biasimarlo. Basta una giornata storta e ti sembra di valere la metà di quello che valevi. Ti sembra che prima eri e ora non sei più. E il resto del mondo ti dice che sei la stessa e che non è il caso di prenderla così male. Ma a te sembra che non sei più quella, sembra che qualcosa sia andato fuori posto decisamente per sempre. Ti sembra ma non hai prove in mano, hai solo quella maledetta sensazione. Soltanto perché il dubbio si è infilato nella tua testa e non riesci a metterlo da parte.

Come si fa a ritornare come prima? Ma prima quando? Prima. Quando ero quella che ero. Ma com’eri prima? Ero diversa, migliore. Migliore come? Ero più viva, ero più viva. Forse prima avevi più vita, ora ne hai di meno e forse te ne occupi in modo diverso… forse prima ti mangiavi il mondo perché non sapevi le conseguenze della bulimia, forse ora scegli le tue pietanze e le assapori meglio… forse prima guidavi una Lamborghini che ti sembrava uno Shuttle e ora con la bicicletta vai più lenta, però almeno ti sei accorta di quanto paesaggio ti vive attorno.

Sì, ma prima era meglio. Prima ero più viva. 

[quando mi fisso su un dubbio non ce n’è per nessuno]

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(978) Levare

Quando cammini ancorata a terra ti vien difficile levare il capo e guardare quello che ti sovrasta (solitamente il cielo). Guardi a terra per non inciampare – se sei come me che basta un ologramma per farmi rotolare al suolo – o ti limiti a stare sulla linea a collo dritto.

Levarsi dalla terra costa fatica. Bisogna prima rendersi conto che lo si può fare, non è scontato. Non lo è .

Forse il peso del corpo che sentiamo al mattino è dovuto alla mancanza di peso del corpo nei sogni che lasciamo posare sul letto dopo che ce ne siamo andati. E forse non ci si può fare niente al riguardo. Non lo so.

Levarsi dai rumori del traffico, estraniarsi dal movimento del mondo, aiuterebbe? Forse. In realtà, non lo so. Non so quanto io sia in cerca di motivazioni per levarmi dal mio qui interiore. Un punto preciso, che non si lascia cancellare. Che fastidio ti dà? È soltanto un punto, diamine!

E me lo dà, un sacco di fastidio, perché non mi fa levare dal profondo e il profondo dopo un po’ diventa stucchevole. Ti impone di toglierti da lì. Non puoi fare finta di niente. Quindi la soluzione è levare il capo e guardare quello che hai sopra: una volta decorata o un cielo di nuvole? 

Il collo si tende, la nuca si flette all’indietro. Se ti lasci andare, le braccia si fanno sollevare volentieri e il morso si rilassa istantaneamente. Potrebbe essere un sorriso quello? Potrebbe.

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(867) Altezze

Arrivarci, magari, a certe altezze. Già. Ma poi cadi giù. Eh.

Allora ci si pone una domanda: ma ne vale la pena? E purtroppo la risposta è sì. Ogni tanto arrivare in alto fa bene, e per la discesa… bé, si impara anche a cadere, se lo metti in conto ci pensi prima. No?

La continua ricerca del brivido diventa dipendenza, ma anche l’ostinata ricerca della pace. L’ossessione non porta alla pace, questo è certo. Non capisco perché siamo così tormentati dal fatto che non abbiamo pace. Certo che non ne abbiamo, stiamo vivendo, mica siamo morti. La pace è dei morti. Il quotidiano infernale non ci permette sosta, ma neppure se scegliessimo di vivere tra le montagne nepalesi. Avremmo fame, sete, sonno e magari anche voglia di fare l’amore. Abbiamo un corpo, siamo qui per questo, per avere a che fare con il nostro corpo. Il corpo ha bisogno di provare, di sentire, di farsi attraversare. E poi tiene memoria. Credo sia in questa memoria che le cose si complichino. Come fai a tenere testa alle memorie? Non lo so.

Se il tuo corpo non ha mai conosciuto la fame, quella vera, non la puoi comprendere con la mente. Troppo grande per poterla immaginare. Se non hai mai conosciuto l’Amore, quello vero, non lo puoi comprendere con la mente. Lo puoi immaginare, ma non sarà mai vero, sarà una proiezione di te stesso e non è che abbiamo proprio una visione chiara di noi stessi (ammettiamolo), sufficiente a metterci al sicuro. Anzi. Significa che un Amore reale può spiazzarti, ti rende immediatamente vulnerabile, non potevi pensarlo così, il tuo corpo non si era mai fatto attraversare da quella potenza e tu… non ti riconosci come quella persona che hai continuato a frequentare per anni e anni e anni (con una certa assiduità, per di più).

Tutto molto semplice, tutto molto complicato, tutto molto doloroso, tutto incredibilmente affascinante.

Quindi ci si augura di arrivare ad altitudini imbarazzanti, pensandole e immaginandole e desiderandole come mai saranno, mai potranno essere. Perché la realtà è un’altra cosa, ma non è meno, è soltanto un’altra cosa. Dovremmo pensarla diversamente, guardarla diversamente, sentirla diversamente per poterla apprezzare per quello che è. Ognuno di noi trova il suo modo, non è una questione di giusto o sbagliato. L’importante, credo, è farci caso e prestarle attenzione. Sarebbe un peccato perdersi una cosa così magnifica soltanto perché ci siamo intestarditi a immaginare anziché vivere.

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(778) Risposte

Più invecchi e più capisci il significato del detto “è più difficile fare la domanda giusta che trovare la risposta giusta”. Saper fare le domande giuste non è cosa da poco, non da tutti, soprattutto non funziona sempre. Essere sintonizzati con il mondo sottile è soltanto una delle premesse imprescindibili, il resto è anche questione di culo e si sa che le botte di culo c’han un bel carattere tutto loro, colpiscono a seconda dell’umore.

Però qualcosa possiamo fare, senza contare troppo sul Fato, per esempio: se hai una sensazione stramaledetta che ti si infila in tutti i pori e fai finta di nulla posizionando la tua domanda su un punto di vista esterno a te, la risposta che riceverai sarà quella che il Caos vorrà. Non hai scampo, l’Universo farà di te uno scempio perché sei stato scemo e te lo meriti.

Quindi essere presenti a se stessi mentre si valuta una situazione ti può già aiutare ad avere le prime risposte utili per procedere. Ma non basta. Stare attenti, ma proprio all’inverosimile, a quello che succede dentro la testa e il cuore degli altri è ciò che ti permette di arrivare alle domande davvero importanti, quelle giuste, quelle che una volta che le hai individuate ti offrono risposte che ti rendi conto erano già tue e manco ti servono più. Questa è Arte. Questa è la condizione a cui anelare per vivere da Illuminati.

Già capire noi stessi per metà è un’impresa, capire gli altri è utopia. Capire un po’ gli altri, però, è probabile che se ci si basa su noi stessi (quella metà con cui ci possiamo raccapezzare) e si aggiungono alcune varianti, il contatto si compia. Gli occhi sono lo specchio del cuore? Può darsi, o dei pensieri. In fin dei conti tutto il nostro corpo parla di noi anche se non ne siamo consapevoli e non ce ne curiamo. Siamo libri aperti? Mah, forse sì, fermi a pagina due però.

Ritorniamo al topic della giornata, le risposte. Ci fissiamo sull’avere risposte dando poca importanza alle domande, ma non solo: se le risposte non ci piacciono cosa facciamo? Le ignoriamo. Semplicemente. Le risposte vere non sono mai confuse, non sono mai piene di sfumature. Bianche, nere, al massimo grigie, ma non ti danno adito a dubbi. Le risposte vere son risposte mica bluff.

Quindi mi domando: perché ci incaponiamo sul concetto di risposta, se fin dall’inizio non c’è in noi la minima intenzione, il minimo coraggio, di arrivare al punto per prendere una decisione? Semplice: noi siamo dei bluff.

Al diavolo le bussole, quindi, consegnamoci al Caos dell’Universo che la sa ben più lunga di noi!

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(777) Febbre

Ogni tanto mi capita. Siccome non mi fermo mai, capita che il mio corpo mi dica stop. Stavolta è arrivata la febbre, che è una vecchia amica che non vedevo da tempo. Ogni volta che lei arriva prende il mio pseudo equilibrio emotivo e lo butta nel cesso. In un istante più niente.

E allora mi commuovo ascoltando una canzone dei Bee Hive (no comment) o ricordo tutti gli episodi più idioti della mia vita per farmi pesare il tempo che passa o, ancora peggio, ricomincio con la solfa che non valgo a niente e sono un essere da buttare.

Questo fa la febbre con me. Mi ricorda l’umiltà.

Ora, non è che ‘sta cosa mi faccia proprio piacere, solo che una volta che mi ci trovo in mezzo non riesco a difendermi. La debolezza devasta ogni grammo guerriero che ho in corpo e si esplicita una sorta di Caporetto diffusa (corpo-mente-spirito). Insomma, una schifezza.

Sto comunque scrivendo, ciò significa non solo che sono ancora viva, ma che non mi si sono bollite tutte le sinapsi… è già qualcosa. Vuol dire anche che la prima cosa che mi viene voglia di fare, dopo la disfatta totale, è scrivere. Sarebbe ridicolo, se non si trattasse di me – sono solita prendere molto sul serio tutto ciò che mi riguarda (altrimenti non avrei aperto questo diario, eh!) – e io alla fine dei conti inizio da 0 e arrivo fino a 10, non fino a 100.

La vecchia amica si tratterrà ancora qualche ora, penso, sto cercando di convincerla che è stato bello rivederla, ma che le cose belle finiscono presto e che la prossima volta potrebbe soltanto mandarmi un’email che già sarebbe sufficiente. Oltre a questo discorso – interessante ma fino a un certo punto – la sto stordendo con la tachipirina e spero che sappia essere più seducente delle mie parole. Non è detto.

Facendo due calcoli, neppure 24h di febbre e già mi sembra di aver perso un anno di vita. Sono incurabile, lo so.

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(740) Felicità

La comprensione è una buona sorgente di felicità. (Daniel Pennac)

Non credo di poter essere più d’accordo con Pennac di quello che già sono. Un modo fantastico di definire il piacere di avvicinarsi a qualcosa o a qualcuno con l’intenzione di conoscere e di comprendere. Non c’è bisogno di fare altro, solo comprendere.

Non dobbiamo trovare soluzioni se non ne siamo in grado. Non dobbiamo offrire la parola giusta se non ne siamo capaci. Non dobbiamo inventarci chissà quale fantasioso gioco di prestigio se le carte ci cadrebbero rovinosamente dalle mani. Dobbiamo soltanto essere disposti a metterci in una posizione dove le informazioni e le emozioni che riceviamo si possano posare per farsi comprendere.

La nostra mente ce lo impone: non siamo tranquilli finché non capiamo, vero? Il nostro corpo non si muove se non capisce cosa deve fare, giusto?

Quando siamo presenti e la comprensione si compie tutto fila liscio, non c’è bisogno di preoccuparsi, non c’è bisogno di inventarsi nulla, si va e si fa. Semplicemente. La domanda, però, rimane: perché non ci fermiamo a comprendere anziché partire in quarta e incasinare tutto? Perché non ci mettiamo nelle condizioni di comprendere invece di scagliarsi contro tutto quello che ci risulta incomprensibile al primo colpo? Perché pensiamo che il mondo debba essere comprensibile a tutti e in qualsiasi momento nonostante la sua disarmante complessità?

Che pretese abbiamo nei confronti del nostro prossimo, se non riusciamo a comprendere neppure noi stessi?

Pennac, aiutaci tu!

 

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(691) Rinfrescare

Credo sia un verbo pieno di positività: mi rinnovo, mi rivitalizzo, mi ridipingo! Significa che ho perso freschezza, manco d’energia, mi si sono sbiaditi i colori… è necessario metterci mano e rinfrescare tutto. Ecco: mi sento così.

Facile a dirsi, meno a farsi. Se mi sono ridotta così ci sono motivi che non basterebbe un mese a scriverli tutti, ma alla fine non è poi così importante intignarsi nei perché. Oppure sì? Avendo presente i perché e non potendo farci nulla ormai, bisogna solo correre ai ripari. Seh, si fa presto a dirlo, ma da che parte cominciare? Rinfrescare il cervello che in questi mesi di temperature allucinanti si è bollito? Oppure rinfrescare il corpo che in questi ultimi anni si è rammollito? O basta rinfrescare il cuore che in questa vita si è sbrindellato mica da ridere? 

Non lo so, mi sembra tutto molto faticoso. Ricordiamoci che io sono una pigra conclamata pertanto già il solo pensare di mettermici d’impegno mi costa fatica. E poi tutta la questione del bisogna-volersi-bene che continua a tormentarmi in sottofondo… mica sono una fan del bisogna-volersi-male, ma neppure del ci-sono-io-e-il-resto-non-conta. Devo pur sempre fare i conti con i miei limiti, e questo aggiunge fatica alla fatica.

Bastasse una doccia a rinfrescarsi sarei a bolla, vivrei sotto la doccia. Le cose però non sono mai facili né troppo piacevoli per chi deve percorrere certe strade, sarà che bisogna essere tagliati per godersi la vita? Non lo so. Forse già la fine dell’estate potrebbe bastare, almeno a farmi passare un terzo della pigrizia e iniziare una mini-programmazione per il recupero delle forze.

Va bene, appena rinfresca, mi rinfresco, ho deciso!

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(657) Abnegazione

Questione delicata, ma oggi mi va di parlarne. Dedicarsi a qualcosa o a qualcuno con tutto te stesso è un atto di grande potenza. Talmente grande che potrebbe ritorcersi contro di te e distruggerti. Si può cadere nell’ossessione, nel delirio. Un rischio che è meno remoto di quel che si potrebbe pensare.

Mantenere il controllo della dedizione che mettiamo in campo non è cosa da poco e non è cosa da tutti. 

Per molti anni, lunghi anni, ho pensato di aver perso il senso del giusto, di aver focalizzato la mia energia su obiettivi irrealizzabili – no, non ho mai avuto problemi riguardo alle persone a cui mi sono dedicata, non più di tanto almeno. Ho dubitato della mia sanità mentale, ho pensato che l’ossessione mi avrebbe consumato e reso folle.

Ultimamente la realtà mi sta rassicurando. Il sollievo è enorme, il sollievo fa respirare di nuovo il fuoco che cercavo di contenere. Pazzesco, vero? La mia mente non si pone più limiti, sta allargando le sue braccia per lasciare liberi pensieri ora leciti. Pazzesco davvero. 

La mia abnegazione mi ha resa libera, non schiava. Il rischio c’era, non so come io abbia fatto a schivarlo, ma è un rischio che adesso posso contenere (non domare, ma contenere sì) ed è una cosa grande. Grandissima. 

Non sto dicendo che io non sia stata folle a vivere nel modo in cui ho vissuto, anzi, sto solo facendo il punto della situazione per rendermi conto che posso abbandonare la paura, posso abbandonare le insicurezze, posso abbandonare la vecchia visione di me stessa che mi voleva soltanto e poveramente folle e patetica. Sembra facile, vero? Non mi è facile, lo assicuro, ma ho intenzione di dedicarmici anima e corpo, voglio ribellarmi al giudizio che ho avuto fino ad ora di me stessa e voglio avere la meglio. 

Sono folle? Certo che sì, ma come si dice? Ah, sì: ai posteri l’ardua sentenza.

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(621) Sazietà

Hai fame, mangi e, se hai mangiato abbastanza, sei sazio. Sei soddisfatto. Per un po’ non guardi più il cibo, ti occupi di altro. Va così.

Se vai al supermercato a fare la spesa e sei affamato, povero te. Se ci vai a pancia piena, comprerai esattamente quello che ti serve, seguendo pedissequamente la lista che ti eri fatto a casa. Va così.

Il senso di sazietà ti permette di non mangiare fino a morirne, ti fermi un po’ prima. Gran cosa per i golosi e per chi cerca di colmare altri vuoti con il cibo – cosa legittima, ma pericolosa.

Da tutto questo monologo, che precede con logica lineare, vien da pensare che se sai cosa significa avere fame e non poter mangiare non immagini di ammazzare chiunque soffra di questa mancanza. Se sai cosa si prova e vuoi che altri provino lo stesso sei – in tutto e per tutto – una gran brutta persona, che vuole vendicarsi di un supposto torto subito su chi non ne ha colpa. Gran brutta persona, confermo. Se, invece, non sai come si sta ad avere veramente fame, tanta fame, ma talmente tanta che ti si mangia da dentro, dovresti fermarti un attimo a riflettere. Rifletti su quanto sei fortunato, su quanto la vita sia stata buona con te, su quanto questo tuo privilegio ti renda immune dalla brutta bestia che ti nasce quando la fame ti devasta le viscere. 

Dopo questa attenta riflessione, dovresti aprire dentro di te i rubinetti della compassione. Un sentimento elevato, che ti fa abbracciare la mancanza disumana che gli altri provano e senti il tuo cuore piangere. Ti fa pensare: “Cosa posso fare per toglierti quella fame devastante dal corpo e dalla mente?”. Questo renderebbe te un Essere Umano degno della fortuna di cui gode, e l’Essere Umano a cui tu ti rivolgi una persona nuova. Sazia, appagata, grata. Grata e pronta a fare altrettanto con un altro Essere Umano in difficoltà.

Io credo che questa sia la strada giusta. Chiunque mi dica che gli Esseri Umani che hanno fame meritano di morire in mare o a casa loro, è un essere indegno: della sua fortuna, della sua esistenza. Se hai paura dell’invasore, fattela passare. Fattela passare lavorando con un bravo terapeuto sulla tua rabbia, le tue debolezze, la tua autoreferenzialità egoica. Sono problemi tuoi, di nessun altro.

E non ho più nulla da scrivere per stasera. Buonanotte.

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(484) Gomito

Una curva a gomito è pericolosa, sempre. Viene segnalata, di solito, e far finta di non aver notato la segnaletica non è cosa intelligente – l’ho imparato appena presa la patente, un secolo fa.

Alzare il gomito può essere divertente, se reggi l’alcool in modo decoroso, altrimenti attenta che la gente che ti sta attorno non abbia stramaledette macchine fotografiche pronte a immortalare quel che fai da sbronza. Ora è ancora più pericoloso perché ci sono gli smartphones e grazie al cielo ho imparato la lezione verso i venticinque anni e non me la sono più dimenticata.

Il gomito del tennista è un fastidio di cui sono stata vittima alcune volte e non perché io sia una tennista. Questo significa che questa infiammazione ai tendini ha un nome fuorviante e che non guarda in faccia nessuno. E non voglio parlare della borsite del gomito perché andiamo troppo sul medico.

Lavorare gomito a gomito con qualcuno è la quotidianità per me, non mi dispiace, anche se ho imparato che conviene scegliersi bene i colleghi con cui sei obbligata a lavorare a stretto contatto. Al momento sono fortunata.

Confesso, però, che non ho mai dato alcuna importanza ai miei gomiti. Voglio dire, avrei dovuto, loro di tanto in tanto si sono palesati con dolori piuttosto invadenti, ma non ho mai voluto dargli la dignità che hanno. In fin dei conti tengono attaccate le mie braccia e, voglio dire, chi altro lo farebbe?

Da un paio d’ore mi sto concentrando su una cartina dettagliata del corpo umano e sto tenendo conto di tutte le parti del mio corpo di cui ho sempre ignorato l’importanza. Mi sento in colpa, e a ragion veduta, mi sembra incredibile che io sia a conoscenza di avere un corpo. Ma come sono messa?

Va bene, prendiamo questo come l’anno 0. Da qui non può che andare meglio.

 

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(475) Vetro

Non ho mai pensato che il mio corpo fosse delicato. L’ho sempre trattato con poco garbo perché è sempre stato solido, tutt’altro che esile, e mi pareva che questa sua apparenza fosse sinonimo di forza. 

Anche quando ho ricevuto lezioni cosmiche consistenti e me lo sono visto piegato dal dolore e davvero spaccato, ho sempre dato per scontato che fosse passeggero e che tempo qualche ora si sarebbe ripreso perché il mio è un corpo forte.

Improvvisamente, negli ultimi mesi mi sono accorta che non è così, che non lo è mai stato, che ho frainteso tutto.

Nonostante l’apparenza il mio corpo non è così possente, registra ogni cosa con una sensibilità assurda. Mi parla continuamente per mettermi in allerta, mi strilla giorno e notte che devo – una volta per tutte – mettermi in testa che non posso spingermi oltre. Non posso spingermi oltre i suoi limiti e i suoi limiti non sono lontani, sono qui. Proprio qui.

A volte vorrei essere di vetro così da guardarmi dentro e scoprire cosa succede, perché potrei capirmi meglio e capire meglio lui che da troppi anni mi sopporta e ancora non mi ha mollata. Accidenti che idiota che sono!

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(440) Partenza

Ho come l’impressione che oggi per me si sia verificata una nuova partenza. Allora, rendere chiaro un concetto che non è neppure concetto ma persistente sensazione, è illusorio, eppure sento il bisogno di scriverlo. Principalmente perché potrei dimenticarmelo, potrebbe scivolarmi via con la doccia che tra pochi minuti farà scomparire questa giornata per lasciarmi intorpidita e permettermi di dormire. Potrei non essere più certa di questa sensazione e mi dispiacerebbe perché so che qualcosa significa. Anzi, significa qualcosa di importante, che mi accompagnerà nei prossimi mesi, nel prossimo anno.

Ho raggiunto una condizione psicologica (provvisoria, ovviamente) che mi introdurrà in una dimensione diversa. Come faccio a spiegarlo?

Comincia tutto con uno sguardo interiore, continua con una percezione del mondo leggermente diverso, e si finalizza con un “ah” (senza punto esclamativo, né altro) che si pone come presa di coscienza istantanea – senza un prima né un dopo, senza un se o un ma, senza un motivo apparente.

Partenza significa che hai preparato i bagagli, ti porterai poche cose perché sai che se la valigia pesa troppo diventa un tormento e ti rallenta il passo. Partenza significa anche affidamento a ciò che sarà, che sai non potrai comunque pilotare e controllare e che va bene così. Partenza signfica anche che non lasci nulla dietro a te, quello che ami lo porti con te – e si va al di là della pura questione fisica, ovviamente. Partenza che presuppone un Arrivo, anche questo fa la differenza, non c’è bisogno di fingere sia altrimenti.

Non mi sposterò granché con il corpo, ma la mente già sta andando. Ora la doccia farà il suo dovere e magari me lo dimenticherò, ma non importa, ormai l’ho scritto e qui rimarrà ad aspettare il mio arrivo.

 

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(307) Note

Le note si scrivono. Le note si suonano. Le note si intonano, come un bel maglione con il colore dei tuoi occhi. 

Quando ti impedisci di suonarle, le tue note, non la prende bene il tuo corpo e neppure la tua anima. Si crea un fraintendimento doloroso, come se il messaggio fosse sporco di un sottotesto crudele: “Non ti ascolto, non ti presto attenzione, non ti reputo importante per fermarmi un po’ con te e ascoltarti”.

Una dichiarazione di guerra, sembra, vero?

Ci sono stati giorni, lunghi anni e forse un decennio, in cui avevo smesso di notare le note, quelle che mi cadevano dalle mani, quelle che spandevo attorno a me come se le scorte non dovessero finire mai. Poi mi sono spaventata, quando anche a cercarle non riuscivo a farle risuonare dentro di me, sparite. Un corpo vuoto, senza eco, un’anima vuota senza riverbero vitale. Mi sono spaventata.

Mi auguravo che non fosse una condizione irreversibile, ho lottato affinché non lo fosse. Ora ho la sicurezza che non lo era. Ho note, nel corpo e nell’anima. E mi sto annotando tutto, tutto per bene per non dimenticarmelo la prossima volta che la realtà mi frusterà, la prossima volta che sarò schiacciata al suolo.

Note note note note note… è una questione di musica e non ce n’è per nessuno.

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(253) Chimica

È quella cosa che anche se non la conosci, anche se la eviteresti, anche se non ne vuoi sapere… c’è. È parte di te, funziona a prescindere da tutto. Ti sorregge o ti sotterra, ti asseconda o ti si oppone, ti fa spaccare tutto o ti fa in pezzi. Dipende da come funziona e dipende da te controllare che funzioni bene.

A un certo punto della mia vita ho deciso che dovevo saperne di più. Ho iniziato a leggere e ad approfondire il discorso, pensando che una volta capito avrei gestito meglio le cose. Ecco, mi sbagliavo.

Non è che capisci come funziona la chimica del tuo corpo e lo gestisci meglio. Funziona, invece, che riesci appena appena a capire cosa ti sta succedendo riconoscendone certe dinamiche, e prendendo atto delle conseguenze dirette scatenatesi nella tua mente e nel tuo corpo.

Io, maniaca del controllo, mi sono arresa. Non voglio più controllare nulla. Mi arrendo alla chimica, mi arrendo alla vita, mi arrendo al flusso d’energia che comunque mi sovrasta.

Anzi, no: mi affido. Meglio.

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(208) Immobile

Puoi darti un gran daffare, puoi avere una vita sociale vivace e essere un master del multitasking, ma se ti imponi l’immobilità dell’anima sei finito.

In un certo qual modo, l’anima che si muove ti provoca controindicazioni fastidiose, ma imbalsamarla non puoi – per quanto tu faccia – e lei appena appena riesce a ripigliarsi si vendica.

Immobile non ci so stare. Non a lungo, almeno.

Certo che non è facile starmi accanto, comporta un certo impegno, ma immobile non ci sto soltanto per non restare sola. Che gioco idiota sarebbe?

Non fa parte di me l’immobilità d’anima. E non mi dispiace.

Quella, però, del corpo è curiosa: se mi viene imposta, trovo il modo di bypassarla, se me la vado a cercare mi riesce benissimo. A meno che non mi trovi in situazioni di meditazione di gruppo, ma di quello mi sembra di aver già parlato.

Ad ogni modo, cosa succede quando tu non ti muovi fisicamente? Scopri che è tutto il resto che si muove. Osservare questo movimento può risultare illuminante. Ogni tanto lo faccio, resto lì immobile di corpo e in piena forsennata mobilità d’anima e il contrasto è curioso. Il corpo perde il suo peso e potresti essere un’aquila in quel momento. Potresti, davvero.

Immobile lo si può essere in molti modi, il migliore è quello che ti tieni per te, probabilmente, quindi ora dovrò cercarmi un nuovo modo per applicare l’immobilità, questo me lo sono bruciato.

Eh.

 

 

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(164) Sangue

La volta che, dopo l’operazione alle tonsille, ho avuto quell’emorragia indolore che non si fermava più è stata la peggiore. Uno shock.

Il posto migliore per il sangue è dentro il corpo, quando esce non è un buon segno. Partendo da questo presupposto, ogni volta che mi capita di vedere del sangue uscire da un corpo la mia testa inizia a tremare. Curiosamente sono dotata di sangue freddo, reggo bene le emergenze, poi crollo.

Il sangue, però, è quella cosa che non ci fai caso quanto sia vitale finché non ne perdi abbastanza da rischiare di restarci secco. Siamo tutti fatti di sangue, sempre lo stesso anche se diverso per sfumature, e tutti noi ce ne dimentichiamo. A meno che tu non abbia i reumatismi. Allora sì che sei costretto a farci caso, perché mentre ti scorre dentro, quel sangue ti provoca fastidio.

Avercelo nel sangue, che lo si dica di una cosa o di una persona la sostanza non cambia. La condizione è senza via d’uscita: è nata con te e con te morirà.

Ho idea che questa cosa abbia in sé un messaggio che io ancora non colgo, eppure so che è un messaggio indirizzato proprio a me. La cosa mi inquieta.

 

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(36) Pezzi

Non è semplice metterli insieme. Neppure sistemarli in modo che i contorni combacino. Non è un puzzle con le tessere ricamate ad hoc. Un rompicapo ha soluzione che sistema tutto, ma i pezzi una volta andati non si ricompongono più in un’opera intera.

Rimangono buchi, incastri poco felici, figure sbilenche. Una bellezza deturpata per sempre.

La bellezza, però, si può rinnovare. Devi venirne a patti, ovviamente.

Il corpo può andare in pezzi, il cervello anche. Il primo porta segni evidenti, il secondo non sempre. Qual è il danno più serio: quello che si vede o quello che si cela? Non lo so, nessuno lo può sapere credo.

Ecco perché bisogna diffidare da chi afferma con sicurezza che i tuoi pezzi  valgono niente. Chi può saperlo? Tu? Loro? Nessuno.

Nessuno può prevedere come i tuoi pezzi potranno rigenerarsi e creare nuova bellezza. Credo valga la pena scoprirlo, con pazienza e speranza.

Speranza? Sì, serve anche quella quando i pezzi sembrano ridurti anziché moltiplicarti. Tieniti saldo all’immagine che hai di te e non perderti d’occhio.

Qualcosa succederà. La tua bellezza si rigenererà.

 b__

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