(1016) Sogno

Nella nostra testa è tutto perfetto. Si chiama sogno. 

Ti immagini una situazione, ti immagini una persona, ti immagini un risultato. Costruisci il tuo sogno con dettagli che vanno a colmare ogni vuoto, ogni mancanza, ogni stortura. Perfetto. Nella nostra testa. Perfetto.

Nella realtà è il Caos. Si chiama proprio così: il Caos della Realtà. Che non è fantasioso, ma non ha niente a che vedere con la fantasia quindi pretenderlo è da idioti. La realtà è una mescolanza di variabili, incidenti e dio-solo-sa-che-diavolo che rende qualsiasi possibilità di sogno un disastro. Anche andasse tutto bene, ma proprio tutto alla grande, quando lo viviamo manca sempre qualcosa. È sempre meno bello di come sarebbe se fosse solo nella nostra testa. Manca di perfezione. 

Cosa facciamo? Lo buttiamo? Soltanto perché non è perfetto? Eh.

Quindi crescendo si impara a mettercela via, male che vada possiamo sempre rintanarci nella nostra testa e raccontarci il film perfetto che vogliamo. Quali sono le conseguenze? Eh. Lo sappiamo quali sono, anche se non lo vogliamo ammettere perché ci rode: lo scollamento. 

In poche parole, noi Esseri Umani siamo un branco di disadattati allo stato brado. Il Caos è questo. 

Cosa facciamo? Ci buttiamo via soltanto perché non siamo perfetti? Eh.

È come cavalcare un purosangue: ti immagini la perfetta simbiosi con il potente equino che sarai in grado di gestire e domare e ti ritrovi disarcionato steso a terra. Poteva essere la cavalcata della tua vita, poteva, lo era nella tua testa. 

Io stamattina ho in mente un sogno, una cosa che in tre-quattro passi posso realizzare, e lo realizzerò entro domani. Una cosa da nulla, ma alimenta quell’ambizione di perfezione che mi divora l’Anima. Ripeto, una cosa da poco, una cosa che ha significato soltanto per me, una cosa che una volta che la butterò fuori dalla mia testa potrebbe risultare ridicola. 

Ma che faccio? La butto soltanto perché rischia di essere un fallimento? Eh. Il fallimento, arrivata a questo punto, è un dettaglio. Il sogno ha vinto. 

Inshallah.

 

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(1015) Cristallo

L’Essere Umano viaggia mediamente su frequenze torbide: difficile capire quello che pensa e le sue intenzioni. Spesso non perché in malafede, semplicemente perché confuso. Questo detto senza alcun tipo di giudizio, mantenendo uno sguardo scientifico sulla faccenda (io scienziata, mi viene da ridere).

Andando oltre, ci sono degli istanti – istanti da nulla  che se non ci fai attenzione scappano via e fan sembrare tutto un’illusione – in cui si scopre la purezza del cristallo che sta alla base di un’Anima. 

Potrebbe essere che lo noti in uno sguardo, in un gesto della mano, in un sospiro, in un voltare la testa o in una parola a cui la voce dà forma magari sopra pensiero. Il cristallo che c’è lancia un luccichìo riflettendo la luce che è nascosta dentro, in fondo. L’ho detto, questione di un istante. Se te lo perdi peggio per te.

Se, però, decidi di farci attenzione mentre interagisci con le persone che ti stanno attorno, potresti essere invaso da raggi di luce che – random – squarciano il tuo momentaneo buio. Per risonanza uscirà anche la tua luce, dal tuo cristallo che tieni ben protetto laggiù nelle tue viscere.

È necessaria una disinteressata disponibilità per far sì che si palesi questa piccola alchimia, è necessaria una predisposizione alla felicità. Credo.

Il cristallo è trasparente, ciò comporta una serie di preoccupanti conseguenze, per questo va tenuto al riparo. Ma al buio non può fare il suo lavoro: espandere la luce per illuminare tutto. È un peccato, vero?

Urge trovare un compromesso, sono d’accordo.

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(1014) Amarezza

Che colore ha l’amarezza? Un brutto colore, verrebbe da dire. O forse è il miscuglio di tanti colori, messi alla rinfusa, che si fondono e si confondono e perdono i propri confini. L’occhio scombussolato non capisce più nulla e ti schianti sul divano aspettando che ti passi.

Ma non passa.

Bisognerebbe trovare una cura per debellare questo maledetto sentimento, ma essendo tale non è labile, rimane ancorato in te e ci resta. Testardo, sordo e bastardo. La chimica non lo scalfisce, la meditazione gli fa il solletico. Il bastardo non molla. È un sentimento, è lì per restare.

Allora bisognerebbe agire contro tutto ciò che ti suscita amarezza, combattere contro chiunque, e qualsiasi cosa, osi aprire in te quella finestra maledetta che non si richiuderà mai, nonostante il tempo e le tempeste. 

E l’amarezza non ti fa piangere, non ti fa urlare, non ti fa sfogare, non ti fa sputare il dolore. Ti consuma. Punto.

Certo che ci può mettere una vita a farlo, ma lei ha tempo perché si mangia il tuo tempo e non si fermerà. 

C’è un modo per rallentare l’inesorabile processo? Sì. Riderle in faccia. Si fa fatica, ma si può. Ridere di quello che è stato e di quello che è. Ridere di quel che se ne è andato e di quello che non se ne vuole andare. Ridere di te. Che ti lasci incastrare da un sentimento da niente, nato chissà perché e cresciuto chissà come, e che pensi sia più forte di tutto. Ma che forte non è.

Tu sì, invece. Sei ancora qui. Giusto?

 

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(1013) Cioccolato

Quel che fa bene e quel che fa male. Ognuno ti dice la sua, ognuno portatore di lungimiranti elisir di vita eterna. Ma di qualcosa si deve pur morire. 

Il cioccolato (nahuatl cocholatl) fa bene perché aumenta la produzione di serotonina e muori contento. Questo è un modo per continuare a mangiare cioccolato senza sensi di colpa. Chi dice che il cioccolato fa male non ha capito niente. Lasciamoli parlare.

Ci sono cibi, riflettiamoci su, che creano l’atmosfera: prova a sostituire il cioccolato con le barrette ai cereali e poi dimmi se ti passa la saudade. Ma per favore!

E ogni cosa ha la sua stagione e la sua temperatura ideale. Strafogarsi di cioccolato in piena estate non ti viene naturale, a meno che non lo trasformi in gelato o qualcosa di fresco che gli assomigli molto. Quindi è ovvio che i Pocket Coffee o i Mon Chéri spariscano dai supermercati, sarebbero sprecati. Questo – voglia o no – ti porta uno scompenso, magari così sottile da non rendersi evidente se non in un angolo oscuro del tuo subconscio, infatti quando a quasi inizio autunno ricompaiono ovunque una certa felicità ti pervade. Grazie per essere di nuovo qui con me, amici!

Il cioccolato, in realtà, è stato creata dagli uomini per una ragione sacrosanta: sopravvivere. Anche nei periodi in cui ne faccio a meno, perché non ci penso, il solo sapere che esiste e che è alla mia portata mi fa passare metà dell’ansia. Perché c’è bisogno di qualcosa che ti faccia passare un po’ d’ansia che non sia il Prozac, c’è bisogno.

A questo punto, basita da quanto io stessa non sapevo di pensare riguardo all’argomento, ritorno al presente, a questa estate che è stramba e calda, caldissima e strambissima. Per fortuna che c’è il cioccolato.

Ogni saudade è la presenza dell`assenza / Di qualcuno, un luogo o un qualcosa, infine / Un improvviso no che si trasforma in sì / Come se il buio potesse illuminarsi. / Della stessa assenza di luce / Il chiarore si produce, / Il sole nella solitudine. / Ogni saudade è una capsula trasparente / Che sigilla e nel contempo offre la visione / Di ciò che non si può vedere / Che si è lasciato dietro di sé / Ma che si conserva nel proprio cuore.  La saudade è un sentimento; è la struggente presenza di un’assenza.  (“Toda Saudade” di Gilberto Gil) 

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(1012) Bluff

Mi piacerebbe poter vantare il contrario, ma non riesco mai a riconoscere un bluff raffinato al primo colpo. Quelli smargiassi sì, quelli evoluti no. E mi piacerebbe essere più furba, più sveglia, più intelligente, ma non lo sono mai abbastanza.

Il bluff, quello di classe, ha una grande struttura narrativa sotto. Si muove per raggiungere uno scopo chiaro, in un luogo preciso che ti viene nascosto finché non è troppo tardi per tirartene fuori. Bisogna avere pochi scrupoli e molto ingegno per bluffare da professionisti.

Ammetto che a un certo punto me ne accorgo, riesco nel lungo periodo a rilevare cadute di tono, incongruenze e scollamenti dello storytelling e riallacciando ogni scena alla fine ce la faccio: vedo l’inganno.

Ovvio che certe conseguenze me le prendo lo stesso, ma frenare risparmiandomi il crash finale è già qualcosa. Sono una che si accontenta, dopotutto.

Raramente riesco a perdonare chi bluffa spudoratamente per il proprio tornaconto a spese di qualcun altro, anzi, mai. Lo trovo uno spreco di energie impegnarmi ad essere misericordiosa con chi si merita le mazzate, soprattutto perché non sono programmata per la misericordia (questo in generale).

La cosa più strana è che ci sono personaggi in giro che non si rendono neppure conto di essere soltanto dei grandi bluff e agiscono come se l’autenticità fosse il valore che li contraddistingue. Si offendono pure, se qualcuno osa mettere in dubbio la loro buona fede. Scenate da non crederci. Davvero.

Non mi piace sparare sulla Croce Rossa, ma sui professionisti del bluff sì, senza pietà. Quello che mi rode è che non li riesco mai a intercettare in tempo utile, mi faccio sempre intortare dal concetto di “innocente fino a prova contraria”.

Ma la prova contraria mi cade tra le mani prima o poi. E da lì son mazzate. Garantito.

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(1011) Raccolto

Si semina e a un certo punto si raccoglie. Si dovrebbe raccogliere quanto seminato, sarebbe giusto, ma in realtà non è così. Il maltempo può rovinare il raccolto, così come i parassiti, così come gli uccelli che rubano i semi. Non si raccoglie quanto seminato, ma quel che rimane del seminato. Quindi sempre di meno. Prima lo capisci e meglio è.

Perché se lo capisci, e ti fai due conti, ti metti l’anima in pace e semini il doppio o il triplo di quanto faresti di norma, per aumentare il raccolto fattivo.

Dai di più, insomma. Fai di più.

Anche così facendo non puoi avere alcuna certezza, ma giocando con le probabilità ti puoi dare una speranza in più. Meglio che niente. Eh.

Questa è la filosofia che ho applicato con disarmante continuità durante tutta la mia vita, e spesso mi è stato fatto notare che dare troppo e fare troppo è… troppo. Non ti sbattere tanto, mi sono sentita ripetere negli anni, e questa frase mi ha sempre innervosito perché sottende un altro concetto tacito: dove pensi di arrivare, comunque?

Non è che le cose che uno fa o dà vengano valutate al chilo, le fai così e dai nella quantità che senti sia giusta. Giusta per te, mica per chi. Giusta per te, perché vuoi fare le cose per bene, perché vuoi dare il massimo di te a prescindere da quanto riceverai in cambio. Anche se il raccolto sarà deludente. E non nascondo che spesso lo sia, ma non è una buona ragione per darmi al risparmio.

Il concetto di risparmio è proprio bannato dal mio DNA. Nel bene e nel male.

Chi semina si aspetta un raccolto, io non faccio eccezione, ma non si mette in dubbio il seminare, si mette in dubbio il raccogliere semmai. Col tempo e con l’esperienza capisci che ti porti a casa quel che c’è e che non serve a nulla recriminare. Hai seminato e ora raccogli. Punto.

Ti devi far bastare quel raccolto per un po’ e devi continuare a seminare, queste sono le regole del gioco. Non esiste altro. E vale per tutti.

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(1010) Stile

Questione di stile. E non sto parlando di uno stile che sia migliore dell’altro, sto solo facendo presente l’ovvio: ognuno di noi ha il suo. O dovrebbe averlo. 

Ognuno di noi è portatore sano, o meno sano, di un mondo che si è creato col tempo: scegliendo quello che gli pare. Va da sé, ognuno di noi ha il suo modo originale di esplicitare quell’agglomerato di cose che ha inglobato nella sua personalità con gli anni e la ricerca. 

Ai miei tempi se non amavi Bukowski eri un po’raccio. Mi sono letta tutto Bukowski annoiandomi un bel po’ nel frattempo, per decidere che con tutto il rispetto che provavo nei confronti di questo autore/poeta, il mio mondo era un altro. Ovvio che certe sue frasi fan bene ai neuroni e al cuore, ma quel suo universo, con la sua malattia, è ben lontano dal mio, e dalla mia malattia. Stessa cosa per Kubrick. Stessa cosa per il Cubismo. Mondi che sfioro volentieri, ma nei quali faccio fatica a immergermi. Non risuonano con il mio. 

Il mio stile è fatto di tonalità accoglienti, anche se amo i colori sgargianti che trovo in natura. Per esempio: un verde acido su una maglietta o su dei pantaloni… ecco, non lo contemplo neppure. Il mio sguardo non accoglie, rifugge.

Il mio stile è fatto di suoni grintosi e di melodia. No, non frequento i rave

Il mio stile è fatto di parole legate ai concetti e immagini che raccontano senza dover dire niente e oggetti anche inutili ma tanto belli. E dettagli, milionate di dettagli che vanno a migliorare la sostanza.

Detto questo: essere criticati per lo stile che ci portiamo appresso è d’obbligo. E a dirla tutta, se da ragazzina me ne facevo vanto, se da ragazza alzavo le spalle, se da giovane donna alzavo il sopracciglio, ora resto impassibile. 

Francamente non me ne potrebbe fregare di meno. Non baratto il mio stile per il tuo. Fattene una ragione e ignorami. 

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(1009) Muta

Ci sono dei periodi in cui mi ammutolisco. Non so se sia per una sorta di cortocircuito neuronale o per sfinimento, fatto sta che smetto di parlare. Soltanto lo stretto necessario. Se sono costretta a dire di più lo faccio malvolentieri. 

Sia chiaro: non lo decido coscientemente, applico la nuova modalità e me ne accorgo soltanto se punto lì la mia attenzione. Più che altro se ne accorge chi di solito mi sta attorno, abituato alla mia voce che va e viene a intervalli sostenuti. Se gli intervalli si dilatano significa che sto affondando in uno dei miei periodi muti.

Il silenzio che si crea dentro di me non è allarmante, è una sorta di limbo dove i rumori sono solo rumori e i pensieri non sono poi così importanti. Perdendo il senso del contenuto, il contenente perde di sostanza. Molto probabilmente.

Non durano tantissimo questi periodi, non potrei però definire una timeline precisa, sono sicuramente ciclici. Al momento ci sono dentro. Non è una grande notizia, ma è comunque qualcosa che voglio far presente a chi mi sta attorno in questi giorni e mi trova strana e più insopportabile del solito. È così. 

Non parlare, o parlare poco, è una condizione che associata a me potrebbe sembrare paradossale, ma i periodi in cui sparisco dalle scene non sono orientati al calcare altre scene, sono quelli che mi vedono in ritiro monacale e che non racconto a nessuno perché sono pieni di cose che riguardano soltanto me. Piccole cose, stupide cose che parlano a me e a me soltanto. 

Non è dove finisco, è dove mi espando. 

Ritornare poi in scena è sempre strano. Quasi doloroso. Sempre strano e stranamente doloroso. Non capisco più che peso dare al contenente e al contenuto e questo potrebbe non essere un dettaglio da poco. Proprio no.

Tant’è

(…)

 

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(1008) Pesci

Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido.
(Albert Einstein)

Innanzitutto bisognerebbe fare mente locale e capire che tipo di pesce siamo. Per esempio: un pesce con poca memoria a breve termine, tipo Dory, è un pesce che mi assomiglia molto. Ma quello che intendevo dire è che pensarti un pesce o una giraffa cambia parecchio, ma anche crederti uno squalo mentre sei soltanto un pesce rosso può darti qualche disturbo in certe situazioni.

Pertanto già decidere che pesce siamo è un bel punto di partenza.

Da lì si parte con una bella introspezione per capire se ci piace essere un pesce o se vorremmo magari essere uno scoiattolo per salire e scendere dagli alberi in scioltezza. E poi valutare come/quanto/perché chi ci sta attorno ci pretenda altro da ciò che siamo. Completato il giro, ci si fa due conti e si procede.

Lasciamo da parte i geni, quelli hanno tutta un’altra storia, parliamo di persone comuni, come me, persone che vogliono solo fare quello che gli riesce meglio senza rompere le palle a nessuno. Ok, queste persone, tanto per dire, non è che si immaginano di essere condor e sono soltanto girini, queste persone si vedono esattamente come sono e cercano di trovare un posto nel mondo dove esserlo senza chiedere il permesso e senza chiedere scusa. Trovare il proprio posto, insomma.

Ora: le pretese che ci afferrano per la gola sono quelle che alla fine ci fanno soffocare. E, in tutta sincerità, le acrobazie le fanno gli acrobati, che son dotati e sono pure allenati, quindi si arriva fino a pagina 2 e a pagina 3 ci si può pure fermare. Giusto?

Io mi propongo di farci attenzione d’ora in poi, perché va bene tutto, ma non è che la vita è sempre un dimostrare qualcosa a qualcuno (neppure a sé stessi). La vita è viversi con serenità, che dove non arrivi tu magari arriva qualcun altro e le cose vanno  comunque avanti senza bisogno di tragedie. Giusto?

Ok, tanti pesci ci sono in mare, a me basta esserne uno ed esserlo in totale tranquillità e in santa pace.

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(1007) Romanticismo

Nel giro di qualche secolo siamo passati da “rivalutazione del sentimento, della fantasia, della soggettività” (definizione da dizionario di romanticismo) alla “sopravvalutazione del sentimento, della fantasia e della soggettività” che fa capo alla selfie-ossessione che pervade il globo terracqueo senza ritegno.

Da rimanerne allibiti.

Abbiamo pensato ad un certo punto del nostro percorso umano che il sentimento fosse uguale a emotività. No, non è la stessa cosa (e non sto qui a fare la lezioncina che non serve a nessuno, tranquilli). Abbiamo anche pensato che la fantasia contenga più valore della realtà. No, e non se la giocano neppure alla pari (purtroppo, lo dico con dispiacere, ma a una certa bisogna pure avere il coraggio di accettare quel che deve essere accettato). Abbiamo inoltre pensato che la soggettività potesse scavalcare qualsiasi concetto di oggettività e comunità. No, non funziona, la nostra stessa sopravvivenza in quanto genere umano ne è la prova. In poche parole: abbiamo perso la brocca. Siamo partiti per la tangente e abbiamo stravolto ogni norma di buonsenso e di buongusto.

Ritorniamo al concetto di romanticismo: se lo pensi come eccesso di sentimentalismo è un peccato. Davvero. Trasformi qualcosa che era partita bene in una storia col finale patetico. Ma perché?

Due persone che si guardano negli occhi senza bisogno di parlare e si trovano vicini come se non ci fossero due corpi e due menti ma uno/una soltanto, cosa che può durare un istante al massimo, è un piccolo romantico evento che se hai la fortuna di viverlo ti fa volare in alto. Non è patetico. È prezioso.

Ed è estremo. È estremo perché significa lasciarsi cadere nel vuoto senza paracadute. Eppure, praticare il bondage sembra più intrigante (legare come un salame un altro essere umano per renderlo libero di provare). Come riusciamo a rincoglionirci con i concetti filosofici noi moderni… è addirittura questione affascinante. E sfuggiamo gli sguardi e i tocchi gentili, romanticismi d’altri tempi, per provare emozioni forti in situazioni forti con chi è forte quanto noi. Forti quanto? Più forti possibile, ovvio. Ah. Interessante, molto interessante.

Il sentimento, la fantasia e la soggettività sono strade che si percorrono con una certa idea di misura e di equilibrio. Sono delicate vie che portano lontano e che allo stesso tempo ci fanno avvicinare l’un l’altro. Quando ci si dedica all’arte della gentilezza (che è un pensiero leggero e che non sono sicura si possa insegnare), le cose si possono fare molto forti, estremamente forti, ma non per distruggerci, per completarci. E lì che scopri chi sei. 

In poche parole, ho sempre schifato i sentimentalismi, ma mi sono sempre fatta forte dei miei sentimenti. Ho sempre schivato l’esasperazione dell’individualità, ma ho sempre curato la mia soggettività. Mi sono sempre rifugiata nella fantasia per ricaricare le batterie, ma non l’ho mai confusa con la realtà (soprattutto perché la realtà non me lo ha mai permesso – grazie Realtà, a buon rendere).

Quindi nonostante il mio lifestyle non lo dimostri con grande evidenza, mi posso definire una romantica.

E questa potrebbe essere, per quanto mi riguarda, la rivelazione dell’anno… santiddddio!!!

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(1006) Caldo

All’estate non c’è scampo. Ogni anno mi penso a riposare su altri lidi, nel profondo nord dove di notte si dorme bene con un piumino… e ogni anno mi sbaglio. Qui inchiodata a guardare il lago evaporare, tutto quanto sopra la mia testa.

Il caldo senza senso di questi giorni è l’inferno che si anticipa ante-mortem con una certa soddisfazione. E per quanto io fossi preparata non lo sono mai abbastanza. 

Dicono sia l’estate più calda, ma pure l’anno scorso era così. Sono andata a scovare il mio vecchio diario perché l’avevo pure scritto, me lo ricordavo bene. Una frase che non lascia dubbi: “Maledetto caldo infernale non mi avrai!”.

Stessa frase che mi tormenta in queste notti insonni sperando in temporali rinfrescanti che non arriveranno mai (ma a Guadalajara è scesa una montagna di grandine… ma no, i cambiamenti climatici sono solo paranoie allarmistiche).

Mi rendo conto che niente è per sempre e che il tempo passa che è una meraviglia, ma siamo il primo luglio e c’è tutto il mese davanti e poi c’è agosto… metti pure che a settembre inizi a rinfrescare (e non è detto per un tubo perché l’anno scorso c’erano i tropici fino a ottobre) è comunque un’agonia lunga e crudele.

Niente, non è che a lamentarsi cambi qualcosa, ma stasera non ho un pensiero uno che non si sia sciolto miseramente prima ancora di raggiungere la tastiera e in tutta sincerità anche tenere il PC acceso comporta un’aumento della temperatura nella stanza che mi risulta vagamente intollerabile… quindi facciamo che questo post ormai si tiene così com’è e mettiamoci una pietra sopra.

Domani parlerò delle maledette vespe che mi attaccano per uccidermi. No, non vi spoilero nulla, ma sappiate che non è uno scherzo.

‘notte.

 

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(1005) Notte

Quando la notte scende la testa mi rallenta. È come se riconoscesse questa dimensione come il suo luogo, dove espandersi e mettersi comoda. Va, indipendentemente da me, dove vuole andare e trova esattamente quello che le serve per sostenersi e sostenermi durante il giorno. Questo quando è in stato di veglia, una volta addormentata non so che fine faccia e dove si vada a cacciare. Preferisco quasi non saperlo, evitiamo di incrementare l’ansia, per favore.

La mia notte ideale parla di energie assopite che si risvegliano, di sguardi che si fanno più lucidi, di vicinanze che se ne infischiano dei confini e cose così. La mia notte ideale non fa casino, assorbe significati e brilla di luce calda.

C’è chi approfitta della notte per uscire allo scoperto, io preferisco nascondermi con lei. Di giorno è tutto troppo pieno, la luce acceca. Di notte la vista si concentra sulla percezione più che sulla forma. L’intensità della sostanza, anche quella più impalpabile, si palesa senza bisogno di forzarla.

Ci sono sottili trame che aspettano nella notte. Ci sono suoni che vibrano suadenti nella notte. Ci sono anime che si fanno trasportare dai sogni di chi non le può toccare, non temendo trappole.

E ci sono io. Che vago senza meta. Ma questa è un’altra storia. E per nulla interessante.

 

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(1004) Modellare

È difficile immaginarci come sarebbe andata se non avessimo detto o non avessimo fatto, o se avessimo detto e fatto anziché starcene immobili o andarcene nel momento in cui dovevamo restare. Si prende la via di Sliding Doors e si viaggia di fantasia. Poteva succedere di tutto, ci diciamo, per giustificarci (scampato pericolo) o per scusarci (mancanza di coraggio). Poteva.

Quel che facciamo è una manipolazione della nostra esistenza che perpetriamo con una certa nonchalance, come se non contasse nulla. Anziché prendere coscienza di come stiamo modellando il nostro oggi e il nostro domani ci rendiamo autori di un ieri che non volevamo e non vogliamo. E lo trattiamo come se non fossimo stati noi a decidere, a fare o non fare, dire o non dire.

Eravamo noi. Magari diversi da quello che siamo oggi, ma eravamo noi. Noi lì a modellare incoscientemente quel che poi sarebbe restato a testimonianza del nostro passaggio nel tempo.

Modellare significa dare forma. Dare una forma ci permette di riconoscere quel che stiamo creando come un’espressione del nostro volere e della nostra capacità di rendere concrete certe idee, certi pensieri.

Modellare quel che abbiamo tra le mani significa avere un’idea su quello che sarà il suo scopo, la sua utilità, foss’anche soltanto qualcosa di bello da guardare. Perché la Bellezza fino ad ora non è riuscita a salvare il mondo, ma lo tiene a galla. Onorevolmente, considerato che è rimasta sola a combattere la battaglia, lei sola a crederci.

Modellare è nelle nostre possibilità, è nelle nostre corde, sappiamo come fare e sappiamo anche farlo bene quando ci impegniamo. Dovremmo forse impegnarci più spesso. Se fossimo concentrati sul nostro modellare la nostra esistenza saremmo meno focalizzati sul disturbare o distruggere il lavoro di chi lo sta facendo, magari anche bene, magari anche meglio di noi.

Ma si sa, siamo qui per crearci fastidio l’un l’altro, siamo qui per rovinare quello che di bello ci è stato dato in dotazione nell’istante in cui abbiamo fatto il primo respiro. E pensiamo di averne il diritto, siamo tutti così annoiati dal nostro vivere.

Qualcuno, poco tempo fa, mi ha detto: meritiamo di estinguerci. E ho sentito una stretta allo stomaco rendendomi conto che è quello che ci meritiamo davvero. Poi ho continuato il pensiero per vedere dove mi stava portando e il pensiero si è preso cura di me ricordandomi che a molti sbagli si può porre rimedio e che a modellare un po’ meglio si fa sempre in tempo.

Bisogna soltanto credere che ne valga la pena.

Ne vale la pena?

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(1003) Alba

Ci sono mattine difficili e altre meno. In quelle difficili, piuttosto che alzarmi dal letto mi taglierei i capelli (e ho detto tutto). Nelle mattine positive dopo la doccia inizio a ragionare e a reagire al mondo con una certa presenza. Non dico rapidità (quella arriva dopo qualche ora), ma una certa presenza sì.

Dopo questa premessa passo al nocciolo della questione di cui oggi vorrei parlare: ci sono mattine come questa dove mi sembra di stare vivendo la mia prima alba. Non so se basta ‘sta frase a rendere l’idea, ma forse non so dirla molto meglio di così.

Ne ho vissute parecchie di albe, e alcune di loro sono state accompagnate da una sensazione di inizio-nuovo, come se non fosse mai stato visto prima. Poi la giornata va come deve andare, magari uguale al giorno prima (le mie no, mai uguali a sé stesse), ma non è quello l’importante. Quello su cui vorrei soffermarmi è la sensazione del essere-nuova-per-davvero. In che modo? E chi lo sa? In qualche modo. Punto. 

E se fosse soltanto questo a contare, dopotutto? Una sensazione che può non avere né capo né coda, ma che ti avvolge e ti conduce chissà dove… Basterebbe forse per lasciare la porta aperta a qualche possibilità di cui non ci siamo mai accorti? Non lo so. Non ci ho mai fatto caso. Non ho mai valutato a posteriori se quella sensazione mi avesse poi portato realmente a posizionarmi in un nuovo assetto. Ma potrebbe essere proprio così.

Ho nella testa ben impresse una decina di albe-nuove che in quel-qualche-modo mi hanno poi determinato piccoli e importanti cambiamenti. Ma sospetto di averne dimenticate altre perché troppo distratta o troppo “chiusa” rispetto al mondo e anche alla vita. 

Forse devono restare in memoria solo quelle che hanno fatto la differenza, le altre è giusto lasciarle andare. O forse è solo una cosa che mi dico per non sentirmi in colpa per averle lasciate andare senza neppure un grazie.

Stamattina l’ho fatto. L’ho ringraziata. 

Spero valga per tutte le altre che mi hanno portato del bene e che ho dimenticato.

Spero di essere meno distratta e meno chiusa, ma non ci metterei la mano sul fuoco. Con me non si sa mai. 

Eh.

 

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(1002) Dichiarazione

A nessuno fa piacere ammetterlo, ma abbiamo bisogno che le cose ci siano dichiarate. Nel bene e nel male. O bianco o nero. O su o giù. O dentro o fuori. Tutto quello che sta in mezzo ci fa stare in sospeso. Ci rende insicuri. Vulnerabili.

E ci viene l’ansia.

Il sollievo dato da un feedback positivo smaccatamente dichiarato è come una botta di vento che gonfia le ali e ti permette di librarti in volo. Quando arriva (come oggi) e lo puoi condividere perché appartiene a chi ha rischiato con te è una gioia incredibile.

Lo scoramento di un fallimento dichiarato, senza appello, è duro ma è salutare. Te ne fai una ragione e vai avanti, cercando di fare meglio. I “non-lo-so”, “non-mi-convince-pienamente” e compagnia bella sono la morte cerebrale aggrappata a un corpo intubato a cui non è permesso mollare. Agonia.

Quindi benvenga una dichiarazione senza giri di parole, senza false attenzioni, senza dire-senza-dire. Ci vuole coraggio per farle, è vero, ma ripaga sempre bene.

In tutto questo dichiaro che oggi (dopo quanto scritto nel precedente post) è andata talmente bene da non crederci e noi (tutti noi) siamo stanchi morti, ma assolutamente appagati dal nostro lavoro e dal feedback ricevuto. Che è stato diretto e senza possibilità di fraintendimento: avanti tutta che ora si fa sul serio!

Insomma: una bella dormita e si riparte.

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(1001) Leoni

Sono giorni di lavoro selvaggio. Quelli che preferisco. Dove ci si guarda e ci si capisce perché tutti dentro, immersi fino al collo, nello stesso mood.

E c’è un’energia che scorre tutta nella stessa direzione, c’è lo sguardo che si focalizza nello stesso punto nevralgico, lì i cuori pulsano.

Il progetto si espande e trova la sua forma, mentre noi modelliamo l’abito che dovrà indossare per debuttare in società. Emozionante.

Ed è vero che potrebbe essere bocciato, domani, ed è vero che sarebbe una botta non da poco con tutta la fede che vi abbiamo riposto. Eppure da lì dobbiamo passare, non ci sono scorciatoie e domani verremo giudicati e verrà giudicato il nostro lavoro.

Comunque vada, però, sarà la prova che testimonierà che le nostre competenze sono solide, che le nostre volontà sono d’acciaio e che possiamo andare oltre. Oltre quello che già abbiamo fatto, per proiettarci dove ancora non siamo mai stati. La crescita è questione di un pezzo per volta, non si ragiona a salti quantici.

Sono molto orgogliosa di quello che insieme abbiamo costruito, molto orgogliosa di quello che abbiamo creato in queste settimane, molto orgogliosa di ogni scazzo e ogni ripresa che ci ha attraversato.

Domani affronteremo i leoni. Non saremo soli, saremo insieme. Questo vale tutto. Tutto davvero.

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(1000) Mille

Ben più di mille direi. Mi sono riproposta di arrivare a ben a 1095, perché tre anni hanno un bel peso. Però, sono qui a festeggiare i 1000. Che sono importanti perché tondi. Belli da vedere, no?

Si augura spesso “mille di questi giorni”, perché non 999 o 3000? Perché 1000 va bene da dire, ti dà un senso di compiuto. 1000 possono essere un bel traguardo quando si parla di anni, tanto per fare un esempio. 

No, non penso che questa mia giornata a replicarla per 1000 sarebbe una gran figata, ne sceglierei ben altre da rivivere, ma era un pour-parler, non potete prendere sul serio tutto quello che scrivo. Figuriamoci quello che penso. 

Una cosa ridicola che mi accompagna da sempre è che quando parlo le persone pensano che io lo faccia pensando di essere quella che la sa più lunga. Soltanto perché quando penso sono assertiva e quando i pensieri mi escono dalla bocca hanno quel tono lì. Prendo il pensiero e lo poso davanti a me usando parole più precise che posso. Non lo butto lì a caso, non lo faccio piombare giù come un carico d’acciaio da una gru, non lo faccio saettare come un fulmine di Giove, lo poso. E basta. Lo faccio senza traballare perché i miei pensieri non traballano. Se sono confusi e insicuri non li faccio uscire, sarebbe idiota, non comunicherebbero niente. Quelli me li tengo per me. Quelli più stabili li poso e li offro.

Non significa che siano perfetti o bastanti a sé stessi. Sono soltanto lì per comunicare qualcosa che va a completarsi con il pensiero degli altri. 

Mille volte mi è successo di dovermi difendere da chi si è infastidito da questo mio modo di esprimermi. Attenzione, non infastidito o offeso da quello che ho detto, ma dal modo assertivo che uso. Senza condizionali, soprattutto. Se non quando la grammatica lo impone, sia-mai-che-io-dia-contro-alla-mia-amata-lingua-madre, il condizionale non fa parte di me. Io non farei, io faccio o farò. Farei se potessi, o se volessi. Ma io non esprimo desideri ad alta voce, sono superstiziosa. Io esprimo quello che voglio o non voglio, quello che posso o non posso fare. Il resto non serve dirlo, non serve a niente.

Forse l’ho già detto, ma in questi giorni mi è ricapitato di suscitare il fastidio di qualcuno, e ogni volta sono lì a chiedermi se sia il caso di scusarmi o meno. Decido che no, non è il caso. Non ho più l’età per rimettere sempre in discussione ogni dettaglio che mi riguarda, i miei mille anni sul groppone serviranno pur a qualcosa. Poserò ancora i miei pensieri per offrirli, ma forse non così tanti come in passato, forse sempre di meno. 

Ecco perché questi 95 post che mi separano dalla fine mi saranno cari. Non scriverò più in questo modo, una volta terminati i miei ***Giorni Così*** intendo. M’inventerò altro, molto probabilmente. Ancora non so cosa. Ma qualcosa mi inventerò.

Per ora festeggio i Mille, i 1000!!!, giorni che ho offerto a chi è passato di qui. Guardando alla meta che si avvicina…

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(999) Imbarazzo

Stamattina parto da casa, check mentale per essere sicura di avere preso tutto, e arrivo in ufficio. Non ho le chiavi. Dove sono? A casa.

Non ci sono molti modi per dirlo: sono del tutto rincoglionita. 

Per quanto io riesca a fare mente locale, c’è sempre qualcosa che mi sfugge e non me la cavo sempre bene nel metterci le toppe. E ci sono volte, come oggi, dove mi guardo e provo imbarazzo per me stessa. Ma a cosa stavi pensando, Babs?! Non lo so, immagino a niente, o a tutto in contemporanea. Immagino che la mia testa prenda vie che non conosco e che non sempre mi rivela. Immagino che certi dettagli di solida realtà rimangano nascosti chissà dove perché troppo pesanti per portarmeli in giro e quindi li dimentico. Immagino.

Immaginare è la cosa che mi viene meglio. Imbarazzante.

Partire per andare a un concerto e lasciare i biglietti sulla scrivania, trovare le chiavi di casa in una borsa e perderle dopo neanche dieci minuti, uscire con l’ombrello e ritornare senza, rispondere gentilmente “sì, certo” e rendersi conto di non aver ascoltato la richiesta… cose così. Imbarazzante.

Ora, non credo che le cose miglioreranno nel tempo, al massimo andranno a peggiorare, ma forse mi posso consolare con tutte le cose che ricordo. Voglio dire ne ricordo molte di più di quelle che dimentico. Anche perché quelle che dimentico le ho oggettivamente dimenticate, quindi non fanno testo. Se dovessi fare una lista di tutte le cose che ricordo non mi basterebbero mille quaderni, che diavolo pretendo dalla mia mente?

Ecco, come riesco a sistemare le cose io – nell’indulgere con i miei vuoti – nessuno. 

Imbarazzante.

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(998) Ineluttabile

Una volta che lo hai definito sei a posto: te lo trovi davanti e ti arrendi. Non stai lì a discutere, a tentare di convincerlo, a inventarti mille escamotage per passare inosservata. No. Risparmiati la fatica: lo riconosci e ti arrendi. Subito.

Mi rendo conto che sembra un discorso troppo vago, ma a contestualizzarlo troppo perde potenza. Bisogna andare per concetti per vedere il giusto, altrimenti i troppi dettagli ti fanno perdere il filo e ti sembra che a ben vedere le cose si possano gestire differentemente. No. In questo caso no.

L’ineluttabile non si può definire, ma si può riconoscere. L’ineluttabile non si può fermare (per sua stessa definizione), ma lo si può assecondare in modo da limitare i danni. L’ineluttabile non si può prendere sottogamba, sta un attimo a schienarti e buttarsi sopra il tuo corpo per schiacciarti senza pietà.

In linea di massima, in ogni situazione in cui ci si dovesse trovare di fronte all’ineluttabile cosa bisogna fare? Arrendersi.

Non è una cosa brutta, tutt’altro. È una mossa astuta. Lui pensa che riconosci la sua potenza e non infierisce. Perché in realtà non è un essere crudele, fa soltanto il suo lavoro che è semplicemente compiersi. Lui si esplicita davanti ai tuoi occhi e fa il suo dovere. Tu ti prendi quello che ti devi prendere addosso, cerchi di tenere la testa fuori dalla slavina e conti lentamente fino a cento. Se dovesse servire anche fino a mille, finché ha finito. Poi fai in modo di cavarti fuori dalle macerie e ritorni alla tua vita.

Ricordiamoci che non serve combattere, si spreca energia per il dopo. Ricordiamoci anche che se giocata con astuzia e pazienza, la partita alla fine la si vince perché lo scopo è sopravvivere.

Detto questo, facciamoci un cicchetto e iniziamo a contare.

Uno

due

tre

quattro

cinque

sei…

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(997) Amicizia

Nella conoscenza e nella vicinanza reciproca si costruiscono anni di amicizia, bisogna volerlo e non per calcolo, solamente perché in quel cammino insieme ci troviamo del buono. E nel tempo cambiano i dettagli, ma il tempo crea una sorta di bolla dove si mantengono ricordi condivisi e piccole altre cose che manco serve dire.

Trovarsi una sera a un tavolo e ritrovarsi vicini, per quel cammino che è stato mantenuto vivo, non è un caso. E ridere delle debolezze, degli errori, delle idiosincrasie, degli azzardi, delle volte che si è riso o che si è pianto, insieme anche nelle distanze normali del vivere, è prezioso.

Accogliere pensieri che sono anche spinosi senza per questo sentire il bisogno di difendersi, credo sia un piccolo miracolo. Ci si basa sull’affetto che ha resistito e che in un barlume di lucidità sai che resisterà.

Ridere insieme: ogni volta che succede le anime si toccano senza farsi male. Un istante basta per sempre.

Ci sono passaggi disconnessi che a volte rendono tutto più faticoso, ma non può essere questo che allontana o respinge. Credo che sia forte la ricostruzione che facciamo del nostro sentimento, il luogo che ci impegniamo a curare perché sappiamo che se lo trascuriamo lo perderemo per sempre. E ci sono cose che si perdono – anche per sempre – è vero, ma quelle davvero importanti causano una mancanza che non viene mai più colmata. E si allarga e si allarga…

Invece, quando ci si trova a un tavolo e nell’ascolto si sorride, sottolineando con ironia già ben collaudata i momenti salienti di ogni racconto, si ricostruisce il passato e si rinsalda il presente, sapendo che si sta contribuendo ad assicurare al futuro un piccolo miracolo come questo che non si dissolverà facilmente.

Il sentimento così resta. Saldo e sfrontato.

Un piccolo miracolo.

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(996) Spensieratezza

Se dovessi disegnarla non saprei da che parte iniziare. Mi si sporcherebbero le mani dal tanto pensarla senza aver concluso niente. Quella gaiezza di cui parla il dizionario a me scappa via appena ne scorgo l’ombra. Non sono programmata per questo, mi ripeto. Dandomi ragione coi fatti.

Partendo da questi presupposti non è che si va da qualche parte. Si resta fermi lì.

E se fossi obbligata ad andare oltre, cosa dovrei inventarmi? Artifizi. Che non sono altro che il frutto dell’abilità creativa. Dovrebbe essere il mio pane quotidiano, eppure quando le cose le cali su di te cambia tutto. Perdi lucidità e tiri colpi selvaggi come se non ci fosse un domani. Come se non ci fosse un domani, ma un domani c’è. E il domani è qui.

Devi scendere a patti con le tue convinzioni per liberarti dal pregiudizio, probabilmente. Ma le convinzioni fanno capo a lezioni imparate, fossero anche state fuorvianti o una sorta di infiniti fraintendimenti le cose non cambiano. Si chiama imprinting e ci marchia la carne viva che trattiene il ricordo. Così è. 

Un reset completo per ripristinare le funzioni di fabbrica è un’opzione pericolosa, la lobotomia non è una strategia vincente, anzi non è proprio una strategia. 

Spostarsi un po’. Da qui a lì. Si può fare? In linea di massima si può. Mezzo passo basterà? In linea di massima potrebbe bastare. Mi farà sentire meglio? In linea di massima no, ma prima di afferrare la spensieratezza per la collottola e scrollarla come merita mi ci dovrò avvicinare, e ci si avvicina di mezzo passo alla volta o si perde l’equilibrio. 

Ricordarmi che non sono più quella che ero l’ultima volta che ci ho sbattuto contro, andandomene per altre strade, potrebbe essere già quel mezzo passo. Forse prendere in considerazione di concedermi un aggiornamento dell’intima visione che ho di me stessa, a questo punto, visto che è una cosa che mi si impone di affrontare e che è una possibilità per riscrivere la mia storia di oggi e di domani (così come l’ho scritta ieri non funziona più, evidentemente), forse sarebbe il caso. 

Che poi non è mai il caso, spensierato e leggero, che vorrei. È sempre una lotta con le Forze Oscure che si agitano dentro di me.

Evviva.

 

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