(1042) Stordimento

Sarà la stanchezza, ma non riesco a uscirne. Mi sento come se la testa fosse imbottigliata e la bottiglia fosse stata lasciata al sole per tutto il giorno. Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro.

Sfogliando sul web in cerca di un’immagine che potesse accompagnare questo post, ma senza la benché minima idea di quello che ci avrei scritto qui dentro, mi sono imbattuta in questa: alghe verdissime e bacchette. Il pensiero è stato: sushi! Ma è fuori discussione al momento. E ora la mia testa continua a urlarmi sushi! sushi! sushi! e questa è ora la mia sola certezza.

[lo so, questo post sta diventando alquanto assurdo]

Però. Questo episodio che è per niente raro nei miei ***Giorni Così*** testimonia quanto io bazzichi la crazy-zone naturalmente. Apro il blog e scrivo. Nove volte su dieci senza sapere cosa andrò a scrivere. Un lusso che mi sono concessa, forse, per troppo tempo e che prima o poi dovrà pur finire (tranquilli, finirà presto).

Le immagini che scelgo di volta in volta hanno valenza diversa: o sottolineano il contenuto del post o si scollano totalmente dal contenuto del post o ci hanno a che fare in modo non troppo ovvio. A volte vengo ispirata dalle immagini, altre volte divento scema a trovare proprio quella che ritengo più opportuna per quello che ho appena scritto. Sì, non mi sono fatta mancare nulla in questi tre anni… la crazy-zone è casa mia.

Oggi va che la foto mi piaceva, la testa mi urla sushi! sushi! e io ho dovuto accondiscendere a una situazione surreale. Scrivo nello stordimento totale pensando pure di tenere ogni riga che mi esce dalla tastiera senza scusarmi con chi passerà di qui a leggere. Sarei perseguibile per Legge, me ne rendo conto, ma finché non mi prendono persevererò nel mio oscuro intento.

Comunque, al grido di sushi-per-tutti! ora me ne vado a letto.

さようなら  [Sayōnara]

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(1014) Amarezza

Che colore ha l’amarezza? Un brutto colore, verrebbe da dire. O forse è il miscuglio di tanti colori, messi alla rinfusa, che si fondono e si confondono e perdono i propri confini. L’occhio scombussolato non capisce più nulla e ti schianti sul divano aspettando che ti passi.

Ma non passa.

Bisognerebbe trovare una cura per debellare questo maledetto sentimento, ma essendo tale non è labile, rimane ancorato in te e ci resta. Testardo, sordo e bastardo. La chimica non lo scalfisce, la meditazione gli fa il solletico. Il bastardo non molla. È un sentimento, è lì per restare.

Allora bisognerebbe agire contro tutto ciò che ti suscita amarezza, combattere contro chiunque, e qualsiasi cosa, osi aprire in te quella finestra maledetta che non si richiuderà mai, nonostante il tempo e le tempeste. 

E l’amarezza non ti fa piangere, non ti fa urlare, non ti fa sfogare, non ti fa sputare il dolore. Ti consuma. Punto.

Certo che ci può mettere una vita a farlo, ma lei ha tempo perché si mangia il tuo tempo e non si fermerà. 

C’è un modo per rallentare l’inesorabile processo? Sì. Riderle in faccia. Si fa fatica, ma si può. Ridere di quello che è stato e di quello che è. Ridere di quel che se ne è andato e di quello che non se ne vuole andare. Ridere di te. Che ti lasci incastrare da un sentimento da niente, nato chissà perché e cresciuto chissà come, e che pensi sia più forte di tutto. Ma che forte non è.

Tu sì, invece. Sei ancora qui. Giusto?

 

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(807) Ancestrale

C’è una voce che arriva da lontano. Fa sempre molta strada prima di raggiungermi e a volte sono distratta e me ne accorgo che è arrivata solo dopo aver sopportato un mal di testa persistente per giorni – è lei che sta urlando e io niente. Non so come si chiama, mi sono fatta l’idea che un nome non ce l’ha – parto dal presupposto che me l’avrebbe detto fosse altrimenti – che forse è voce di un collettivo, una sapienza ancestrale. Tocca me come può toccare tutti, solo che non tutti la riconoscono, ma è più di un sesto senso spiccato, è più che intuito, è più di quel qualcosa che dipende da te (dal tuo umore, dai tuoi pensieri, dal tuo personale loop). Diverso, è qualcosa di diverso. Diverso come non lo so spiegare, ma diverso (non è che le parole riescono a dire tutto, eh!).

Insomma, questa voce mi porta anche bruscamente a una realtà che non è la mia solita, è un’altra cosa. Non so com’è, è diversa. E quest’altra realtà ha a che fare con cose che sento essere enormi, spaventose per quanto sono enormi e incontrollabili e piene di mistero e di cose incomprensibili. Spaventose. Ma questa voce non me le presenta come cose che son lì perché io le maneggi, perché son fatti suoi – di-come-deve-essere-e-via-di-quel-passo – e io sono soltanto tenuta a guardarle e a tenerle presente. Solo questo.

Mi sta dicendo che è importante che io sappia, non perché io debba farne qualcosa, ma perché saperle è giusto. Così deve essere per noi piccoli umani, dobbiamo sapere, anche se non comprendiamo tutto, dobbiamo però sapere. Sapere quello che c’è e che non si vede. Non si vede, ma ha una sua consistenza e una sostanza che comunque ci tocca. Anche se non ce ne rendiamo conto.

E allora questa cosa che siamo tutti una cosa sola è stramba fino a pagina due. Non più di tanto, quando ti rifletti in questo immenso e tortuoso casino che siamo noi tutto si ridimensiona e il siamo-una-cosa-sola diventa un’ovvietà.

E non mi interessa spiegarlo meglio perché ogni volta che ci provo scompare tutto e mi scoccia ritrovarmi con le mani a stringere il niente. Quindi mi limito a evocare un sapere che non so dire, che non so quantificare, non so qualificare. Un sapere che non so. Ma che c’è. E qui o ci credi o non ci credi, le vie di mezzo non esistono.

Quindi io ci credo

punto

 

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(600) Idiosincrasia

Detesto quando le persone urlano. Detesto me stessa quando perdo il controllo e mi metto a urlare. Mi succede raramente e – dal mio punto di vista – sempre per una buona ragione. Eppure, quando mi succede non me lo perdono.

Ci sono persone che urlano appena si svegliano al mattino, con chiunque capiti loro attorno, e che smettono di urlare quando si addormentano la sera. Urlano anche quando sono felici, perché un altro tono di voce non ce l’hanno o perché sono sorde e non si rendono conto di quanto stanno gridando anche solo per chiedere mi-passi-il-sale.

I miei vicini di casa fanno così e io sto, mio malgrado, ascoltando ogni dannato scambio verbale che accade in quella casa. Non sono affari miei, ma lo diventano se mi sveglio al mattino con il mal di testa (e non per un post-sbornia) e mi addormento con i tappi nelle orecchie perché di là c’è una riunione di capre urlatrici. State zitte! Zitte! Zitte! Zitteeeee!

La vostra voce a un certo punto ne avrà abbastanza e se ne andrà. Se ne andrà per non ritornare più e avrà la mia benedizione. La vostra voce se ne fotterà di voi, almeno quanto voi ve ne siete fottuti di lei. E io la benedirò.

Non si può buttare addosso agli altri la nostra rabbia, la nostra frustrazione, il nostro veleno, il nostro male di vivere, non si può! E se non si può farlo con gli estranei, figuriamoci con le persone che ci sono vicine, NON si può!

Sei giustificato a urlare solo se tra te e gli altri ci sono chilometri di distanza, solo se si tratta di vita o di morte. Le persone devono essere trattate con gentilezza e la gentilezza non alza mai la voce. Le persone per ascoltarti devono avvicinarsi a te, devono prestare attenzione alle tue parole e ai suoni che le accompagnano e per far sì che accada tu devi permetterglielo mantenendo il volume della tua voce in modalità normal, a volte persino soft. Non puoi sbattere in faccia frasi a 1.000 decibel aspettandoti che vengano ascoltate. La gente, sì, può fare quello che tu le ordini di fare quando glielo urli in faccia – chi non ha il coraggio di darti una testata, almeno – ma l’ascolto è un’altra cosa.

L’ascolto è il risultato di una dinamica delicata che ha origine nella fiducia, cresce nell’interesse, e si espande con l’attenzione.

Vabbé, fiato sprecato. Buonanotte.

 

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(280) Dissociarsi

Prendere le distanze da quello che non ci piace, quello che ci ripugna, è un nostro preciso dovere e non un semplice diritto. Andare in piazza a manifestare è un modo per dirlo, per dichiararsi contrari e lontani da certe posizioni che ci indignano perché oltraggiose e ripugnanti. Eppure…

Ho sempre preferito dichiararmi e dissociarmi nel mio quotidiano dicendo NO a questo o a quello e mantenendo la mia posizione nonostante le conseguenze. Non partecipo a una manifestazione dal tempo della scuola e non lo faccio perché la folla mi rende nervosa (anche se festante).

Dico questo dopo essere stata apostrofata malamente perché non mi sembra fondamentale urlare in piazza il mio dissenso quando nel mio quotidiano porto addosso i segni di tale dissenso come conseguenza naturale, come mio dovere inalienabile. Tanti che urlano in piazza e si mostrano oltraggiati e ancora di più, nel quotidiano si gestiscono come topolini da laboratorio, fanno quello che gli si dice di fare per evitare conseguenze sgradevoli da portarsi addosso.

Però sanno lamentarsi. E non smettono mai.

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(115) Urlare

Va bene farlo, non tutto il tempo, ma ci sono occasioni in cui farlo è inevitabile. Non fa proprio bene, neppure a te, anche se è vero che se tieni tutto dentro rischi di implodere. Bisogna farlo nel modo giusto, nel momento giusto e con chi davvero se lo merita. Raramente avviene con modalità controllata, purtroppo.

Non mi piace urlare, me lo evito finché posso. In tutta la mia vita l’avrò fatto tre volte, me le ricordo benissimo, mi ricordo soprattutto come mi sentivo. Ero fuori di me, una cosa che mi ha spaventata. Se ci penso sto ancora male. La gente che urla mi fa venire la pelle d’oca, mi fa venire voglia di scappare il più lontano possibile.

Quando urli addosso a una persona crei un’energia violenta che ha ripercussioni che non puoi né valutare, né controllare. E se ci fai attenzione dentro di te qualcosa cambia. Non è proprio vero che ti senti meglio, ti senti vuoto.

Vuoto non significa che stai bene. Vuoto significa vuoto.

Quando senti che ti mancano di rispetto, urlare serve a poco. Andarsene funziona. Rende tutto inequivocabile. Un addio di questo tipo lascia il vuoto in chi ti sta urlando addosso, non dentro di te.

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