(1000) Mille

Ben più di mille direi. Mi sono riproposta di arrivare a ben a 1095, perché tre anni hanno un bel peso. Però, sono qui a festeggiare i 1000. Che sono importanti perché tondi. Belli da vedere, no?

Si augura spesso “mille di questi giorni”, perché non 999 o 3000? Perché 1000 va bene da dire, ti dà un senso di compiuto. 1000 possono essere un bel traguardo quando si parla di anni, tanto per fare un esempio. 

No, non penso che questa mia giornata a replicarla per 1000 sarebbe una gran figata, ne sceglierei ben altre da rivivere, ma era un pour-parler, non potete prendere sul serio tutto quello che scrivo. Figuriamoci quello che penso. 

Una cosa ridicola che mi accompagna da sempre è che quando parlo le persone pensano che io lo faccia pensando di essere quella che la sa più lunga. Soltanto perché quando penso sono assertiva e quando i pensieri mi escono dalla bocca hanno quel tono lì. Prendo il pensiero e lo poso davanti a me usando parole più precise che posso. Non lo butto lì a caso, non lo faccio piombare giù come un carico d’acciaio da una gru, non lo faccio saettare come un fulmine di Giove, lo poso. E basta. Lo faccio senza traballare perché i miei pensieri non traballano. Se sono confusi e insicuri non li faccio uscire, sarebbe idiota, non comunicherebbero niente. Quelli me li tengo per me. Quelli più stabili li poso e li offro.

Non significa che siano perfetti o bastanti a sé stessi. Sono soltanto lì per comunicare qualcosa che va a completarsi con il pensiero degli altri. 

Mille volte mi è successo di dovermi difendere da chi si è infastidito da questo mio modo di esprimermi. Attenzione, non infastidito o offeso da quello che ho detto, ma dal modo assertivo che uso. Senza condizionali, soprattutto. Se non quando la grammatica lo impone, sia-mai-che-io-dia-contro-alla-mia-amata-lingua-madre, il condizionale non fa parte di me. Io non farei, io faccio o farò. Farei se potessi, o se volessi. Ma io non esprimo desideri ad alta voce, sono superstiziosa. Io esprimo quello che voglio o non voglio, quello che posso o non posso fare. Il resto non serve dirlo, non serve a niente.

Forse l’ho già detto, ma in questi giorni mi è ricapitato di suscitare il fastidio di qualcuno, e ogni volta sono lì a chiedermi se sia il caso di scusarmi o meno. Decido che no, non è il caso. Non ho più l’età per rimettere sempre in discussione ogni dettaglio che mi riguarda, i miei mille anni sul groppone serviranno pur a qualcosa. Poserò ancora i miei pensieri per offrirli, ma forse non così tanti come in passato, forse sempre di meno. 

Ecco perché questi 95 post che mi separano dalla fine mi saranno cari. Non scriverò più in questo modo, una volta terminati i miei ***Giorni Così*** intendo. M’inventerò altro, molto probabilmente. Ancora non so cosa. Ma qualcosa mi inventerò.

Per ora festeggio i Mille, i 1000!!!, giorni che ho offerto a chi è passato di qui. Guardando alla meta che si avvicina…

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(838) Artigianato

Non credo nel “buono alla prima” neppure per le idee geniali. Il “buono alla prima” è una scusante per la mediocrità, perché non ti vuoi sbattere più di tanto, perché non lo ritieni così importante, perché hai altro da fare che ritieni più meritevole e per milla altre ragioni.

Le idee geniali possono essere meravigliosamente geniali se rimangono idee, poi si scontrano con la realtà e la materia e perdono il loro smalto. Quindi le devi raccogliere e modellare. Non una volta magari. Magari mille volte. Il segreto è continuare a crederci e non accontentarti. Ma è soltato una questione di quanto lo vuoi. Tutto lì.

Un artigiano che costruisce una sedia non può fare spallucce se la sedia traballa. Se non trova il modo per farla poggiare solidamente, la rifà. Punto daccapo. E ti viene nervoso, lo so, ti prende proprio lo scazzo, me ne rendo conto, ma la sedia non diventa sedia a dondolo solo per alleviarti il fastidio. Vedi tu.

Quando lavori sul far stare in piedi le cose, non sdraiate se è scritto che devono stare in piedi, si tratta sempre di piccoli tocchi che si inseriscono perfettamente in quel contesto. Ci vuole tempo? Certo. Ci vuole pensiero? Certo. Ci vuole dedizione? Certo. E se ci metti tutto questo, e raggiungi il tuo scopo (non è affatto scontato), quando qualcuno dà una manata per scombinare la tua creazione, ti incazzi? Certo. E non poco. Esageratamente.

Puoi mostrarlo o meno (non è scontato neppure questo), ma l’incazzatura è devastante. Chiedi, no? Chiedimelo! Dimmi dove vuoi modificare e ne parliamo serenamente, ci lavoriamo su, rispetta quello che c’è, rispetta il mio lavoro. Rispetta la mia persona. Perdio.

Quante volte arriviamo nella vita delle persone per farci largo a colpi di machete? Le persone si incazzano? Bhé, dovrebbero. Dovrebbero incazzarsi smisuratamente, santocielo. Se non lo fanno ringraziamo il nostro santo protettore, perché ci meriteremmo la mazza chiodata. Così da ricordarci che non si fa. Non si fa. NON-SI-FA.

Come laboriosi artigiani noi ci stiamo modellando, è un lavoro sfinente, è un lavoro che non ci viene pagato in monete d’oro (al massimo con grammi di consapevolezza), è un lavoro che non si quantifica e non finisce mai. Farsi strada a machete spianato nell’esistenza di un Essere Umano è un crimine. Un po’ di delicatezza, perdio. Un po’. Non dico che siamo fatti di cristallo, ma neppure di titanio!

Ok. Anche se non ci credete oggi per me è stata una gran bella giornata, ho interagito con persone che fanno dell’artigianato (personale e professionale) un’opera d’arte e questo mi ha riempito di gioia. Incontrare questo tipo di umanità fa crescere in me la voglia di essere ancora più delicata quando entro nei mondi di chi mi sta davanti.

E si bussa.

Sempre.

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