(996) Spensieratezza

Se dovessi disegnarla non saprei da che parte iniziare. Mi si sporcherebbero le mani dal tanto pensarla senza aver concluso niente. Quella gaiezza di cui parla il dizionario a me scappa via appena ne scorgo l’ombra. Non sono programmata per questo, mi ripeto. Dandomi ragione coi fatti.

Partendo da questi presupposti non è che si va da qualche parte. Si resta fermi lì.

E se fossi obbligata ad andare oltre, cosa dovrei inventarmi? Artifizi. Che non sono altro che il frutto dell’abilità creativa. Dovrebbe essere il mio pane quotidiano, eppure quando le cose le cali su di te cambia tutto. Perdi lucidità e tiri colpi selvaggi come se non ci fosse un domani. Come se non ci fosse un domani, ma un domani c’è. E il domani è qui.

Devi scendere a patti con le tue convinzioni per liberarti dal pregiudizio, probabilmente. Ma le convinzioni fanno capo a lezioni imparate, fossero anche state fuorvianti o una sorta di infiniti fraintendimenti le cose non cambiano. Si chiama imprinting e ci marchia la carne viva che trattiene il ricordo. Così è. 

Un reset completo per ripristinare le funzioni di fabbrica è un’opzione pericolosa, la lobotomia non è una strategia vincente, anzi non è proprio una strategia. 

Spostarsi un po’. Da qui a lì. Si può fare? In linea di massima si può. Mezzo passo basterà? In linea di massima potrebbe bastare. Mi farà sentire meglio? In linea di massima no, ma prima di afferrare la spensieratezza per la collottola e scrollarla come merita mi ci dovrò avvicinare, e ci si avvicina di mezzo passo alla volta o si perde l’equilibrio. 

Ricordarmi che non sono più quella che ero l’ultima volta che ci ho sbattuto contro, andandomene per altre strade, potrebbe essere già quel mezzo passo. Forse prendere in considerazione di concedermi un aggiornamento dell’intima visione che ho di me stessa, a questo punto, visto che è una cosa che mi si impone di affrontare e che è una possibilità per riscrivere la mia storia di oggi e di domani (così come l’ho scritta ieri non funziona più, evidentemente), forse sarebbe il caso. 

Che poi non è mai il caso, spensierato e leggero, che vorrei. È sempre una lotta con le Forze Oscure che si agitano dentro di me.

Evviva.

 

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(389) Aerostato

aeròstato (ant. areòstato) s. m. [comp. di aero– e –stato, sul modello del fr. aérostat]. – Aeromobile che si sostiene per effetto della spinta che l’aria esercita su di esso; più in partic., sono detti palloni gli aerostati senza propulsore, e dirigibili quelli con propulsore. A. libero (o sferico), quello privo di dirigibilità che naviga trasportato dalle correnti aeree; è costituito da un involucro impermeabilizzato (che racchiude una certa quantità di gas più leggero dell’aria), cui è vincolata una navicella per l’equipaggio e i carichi, ed è usato per sondaggi aerologici. A. frenato, quello collegato a terra da un cavo di ritenuta per limitarne sia la quota sia la mobilità, usato soprattutto per l’esplorazione dell’atmosfera (detto in tal caso pallone meteorologico); sistemi di aerostati frenati sono stati usati anche nella difesa contraerea di obiettivi fissi e di navi (palloni di sbarramento).

Oggi ho avuto un’illuminazione: sono un aerostato. Nata come aerostato libero e vissuta come aerostato frenato. Non ce n’è per nessuno, non c’è un’altra definizione che potrebbe anche solo vagamente rappresentarmi meglio.

Non ho ancora capito chi sia stato a legarmi con un maledetto cavo a terra, ma appena lo scopro gliela faccio pagare. Mi ha costretto, l’infame, a esplorare l’atmosfera per decenni e come riconoscimento ho avuto addosso la controffensiva di centinaia di individui incazzati solo per il fatto che mi trovassi lì ancorata e – tra l’altro – controvoglia. Nessuno mai che si fosse fermato per liberarmi, avrei tolto il disturbo istantaneamente, per darmi addosso sì ma non per sollevarmi dal cavo di ritenuta.

Trovarsi legata mentre invece te ne andresti volentieri in alto, non è bello. Venire presa come quella che si mette in mezzo, ancora peggio.

La vogliamo finire o no?!

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(281) Intrico

Quando tutto è troppo ingarbugliato cosa si fa? Si prendono le forbici e zak, un bel taglio secco. Il buonsenso te lo dice, lo spirito pratico te lo ripete, il calcolo matematico (l’agoritmo delle rotture di balle) te lo conferma: zak.

E io, invece, lì a cercare di capire com’è stato, quand’è stato, che il tutto si è ingarbugliato… era partito così bene, liscio!

E perdo tempo, perdo la pazienza, perdo la voglia e l’entusiasmo (sembra una canzone di Vasco e forse lo è, non ho voglia di indagare proprio ora che se no perdo il filo). Fatto sta che anche quando capisco e trovo il perché e il dove dell’intrico, non serve a niente. Devo comunque usare le forbici e zak.

La questione irritante è che gli intrichi non seguono tutti la stessa logica, non sono fissati in una dinamica standard. Gli intrichi sono creativi. Ognuno ha il suo estro, ognuno ha i suoi motivi, ognuna ha i suoi nonsense e la matematica non può nulla contro di loro. La prevenzione è vana.

Ti ci trovi in mezzo e che tu sia stato poco accorto o semplicemente un idiota, il dato di fatto non cambia. Non hai altro modo per tirartene fuori, ovvero: Zak.

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