(798) Apertura

Si procede a testa bassa, di solito. La testa te la fanno abbassare per forza di cose gli eventi che cadendoti addosso si fanno trasportare da una parte all’altra a tempo indeterminato. Cose che non si risolvono e che per quanto tu faccia non si risolvono e che per quanto tu t’ingegni non si risolvono e che per quanto tu ti incazzi non si risolvono e per quanto tu le gestica in modo-Zen non si risolvono. In poche parole: l’inutilità d’azione e di pensiero. L’annichilimento.

Certo, ci sono dei periodi in cui ‘ste bastarde cose che non si risolvono e che non riesci a risolvere (che non è la stessa cosa, lo sappiamo benissimo) sembrano avere meno peso, sei distratta a fare altro e smetti di proiettare la tua energia in quel punto. Bellissimo. Perfetto. Ma dura poco. 

A conti fatti rimane soltanto una cosa da fare: fottersene. Ma non è da tutti. Perché se sei una che le cose le vuole risolvere, girarti dall’altra parte come se la questione non ti riguardasse non è facile. A volte non è neppure difficile, è semplicemente impossibile. Eh. Quindi? Niente. Quindi niente.

Però.

Però se appena appena vedi una piccola apertura, basta soltanto un raggio di sole che sbuca inaspettato, allora pensi: va bene, vedrai che anche questa maledizione che sembra eterna, eterna non è. Nulla è eterno. Certo, sarebbe bello risolverla prima di tirare le cuoia, ma alla fine se non deve essere così io comunque potrò dichiararmi un fottuto osso duro che nonostante non sia riuscito a piegare gli eventi a suo favore non s’è fatto neppure spezzare da loro, mica è poco. Eh.

Quindi? Quindi valutando che ci sono aperture, ci sono sempre aperture, allora viaggiare perennemente a testa bassa potrebbe farci perdere quel raggio di sole improvviso e fugace che ci fa tirare un respiro e ci fa procedere ancora per un po’. E adottare la filosofia del sticazzi potrebbe poi non essere una cattiva idea. Se non si risolve, sticazzi. Non suona mica male.

Sticazzi potrebbe essere la soluzione. Crediamoci.

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(797) Tacere

La gestione del tacere non è cosa di poco conto. Un maldestro calcolo dei tempi e dei modi può rovinarti la vita. All’opposto, saper maneggiare ad hoc la capacità di dosare il tacere può salvarti la vita. Quindi?

Ho una voglia maledetta di fottermene e di dire quello che penso, in questo ultimo periodo. Fanculo alle conseguenze, il tacere a prescindere – per paura delle conseguenze – può anche farti andare in pappa il cervello (per non parlare dell’amor proprio). Quindi?

Dovrei farlo, dovrei semplicemente dire alle persone interessate quello che penso di loro e del loro atteggiamento, dovrei sbattermi del politically correct e dell’educazione a ogni costo e dovrei semplicemente far presente le mie ragioni. Niente insulti, soltanto le mie ragioni – che garantisco sono piuttosto ragionevoli – e poi andarmene. Capiti quel che capiti, mi tolgo dalle balle e via. Quindi?

Quindi che ne so! Sono un’artista dello stare al proprio posto, evitare discussioni e via di questo passo. Anni e anni e anni di training. Ora vado a scoprire che questo diavolo di autocontrollo non mi ha reso che frustrazioni e furibonde incazzature con me stessa… a che pro? 

La questione delle conseguenze è bastarda perché, in realtà, non è che preventivare le conseguenze sia una scienza esatta, tutt’altro! Ti fa immaginare come potrebbe andare a finire e basta. Ti fa riflettere, ti fa valutare meglio la portata delle tue azioni, tutto qui. Le conseguenze che mi fanno chiudere la bocca sono quelle che provocano sofferenza, perché odio essere causa di mortificazione o delusione o che ne so io. Però ci sono situazioni che ti impongono di parlare, di asserire, di far presente con forza che il tuo pensiero è diverso e che la vedi in altro modo e che non ti sta bene così. 

Non mi sta bene così, non funziona con me. 

Ecco, questo potrebbe essere l’unico appiglio per incentivare in me un cambiamento di assetto senza scompigliare troppo la mia indole pacifica. A che pro? Perché tacere può sbriciolarti l’Anima oltre che il fegato. Taci quando hai torto, taci quando non hai opinioni al riguardo, taci quando ti uscirebbero soltanto cattiverie gratuite, taci quando non sei sicura di affermare il vero, taci quando quello che vuoi dire potrebbe scatenare l’inferno senza creare utilità a nessuno (magari parli in un secondo momento), taci se sei furiosa e hai pensieri confusi che uscirebbero male e verrebbero fraintesi. Ecco, questi sono buoni motivi. Ma non tacere quando qualcuno ti calpesta, quando vedi la verità umiliata, quando le bugie prendono il sopravvento, quando quello che vivi ti fa urlare “basta!”, quando qualcuno te lo impone perché pensa che tu non abbia nulla di interessante da dire. Tacere solo perché la tua coscienza te lo impone, non per altro.

Questo funziona per me. Così mi sta bene.

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(796) Superficie

La mia superficie è quieta. Molto quieta. Questo trae in inganno le ignare gocce che picchiettano con gran foga sulla mia superficie pensando che la quiete assorbirà qualsiasi riverbero e qualsiasi propagazione di movimento. Si sbagliano. La quieta non assorbe, al massimo attutisce e quindi ha più tenuta rispetto ai colpetti che riceve, ma non può durare per sempre. A lungo, sì, anche molto a lungo, ma non per sempre.

Il mio a-lungo sta per esaurirsi.

Questo è più che un avvertimento, è proprio un dato di fatto. Lo si può notare nel mio non nascondere l’esasperazione, nel mio silenzio denso, nel mio negare risposte per sfanculare le discussioni. Perché la quiete ne ha abbastanza e in superficie si dovrà pur notare qualcosa.

Strano che nessuno abbia notato qualcosa.

Preoccupante il fatto che piuttosto di modificare il proprio picchiettare, le gocce fingano di non sentire l’aria frizzare. Probabilmente le gocce si aspettano un gesto eclatante, un terremoto apocalittico o qualcosa del genere. Eh no. Non sarebbe nel mio stile. Perché anche se profondamente esasperata mi impongo comunque una tenuta nervi sufficiente per non scivolare in cafonate – anche se la tentazione è enorme. Basta un attimo di distrazione e il lavoro di anni va a pallino. Non ho intenzione di rischiare. Quindi, sto cercando nuove modalità per gestire questo irritante picchiare sulla mia superficie come se la mia quiete non fosse lì che per questo: per essere spezzata continuamente.

Si va per priorità, giusto? Ok, faccio una lista e implacabilmente depennerò.

Augh.

 

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(795) Offrire

In linea di massima un Essere Umano qualsiasi ha una consistente quantità di cose da offrire. Attenzione, cura, ascolto, pazienza, comprensione, affetto, amore – tanto per dirne alcune, oltre a tutta la lista delle faccende materiali, ovviamente. 

Offrire significa avere l’intenzione di dare qualcosa a qualcuno senza voler nulla in cambio: tu offri e basta. Non ci metti il carico di un ritorno, un’aspettativa. Non c’è calcolo, c’è solo l’offerta. E l’offerta non è vincolante, può anche essere rifiutata. Il “Preferisco di no” (cit. Bartleby). ci sta, è parte del gioco.

Se offri qualcosa che per te ha molto valore, valore che il ricevente scelto non riconosce, puoi ricevere un rifiuto. Accettare un’offerta significa saper “godersi” il dono senza ritorni fastidiosi – del tipo adesso-come-posso-ricambiare perché se è davvero un’offerta non è contemplato un “ricambiare”. Non immediato almeno, non obbligato di certo.

Quando offri qualcosa è buona regola farlo con i dovuti modi. Non la sbatti addosso al tuo interlocutore, gliela porgi. Porgere è un verbo bellissimo, include una certa grazia, una naturale gentilezza. Ecco, un’offerta si porge. E se la presenti bene acquista ancora più valore.

Tutto questo discorso per dire che stasera al Der Mast abbiamo offerto al pubblico presente (oltre un centinaio di persone di buona volontà) uno spettacolo che per quasi due anni abbiamo curato con tutto l’amore che avevamo  in corpo e tutto questo è arrivato a chiunque in sala. Proprio a tutti. Hanno accettato di entrare nel mondo della Vecchiaccia (opera di Stefano Benni) e di lasciarsi trasportare dai suoi ricordi, dalle sue gioie e dai suoi dolori. Hanno ridacchiato, hanno ascoltato, hanno sospeso un po’ il respiro quando la tensione si faceva pesante. 

Niente di più bello di un’offerta che viene accolta e apprezzata. Niente di più bello che poter offrire una cosa con tutto il cuore e vedere che chi la riceve ha voglia di darti il suo grazie perché quella cosa lì non se la dimenticherà più.

Perfetto.

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(794) Segnalibro

Ormai uso i post-it, perché nei libro che leggo solitamente ci sono sempre mille passaggi che devo ricordare e che vorrei ricordare – anche se raramente ne ricordo più di una manciata (per evidenti limiti neuronali). Mi piace sottolineare le righe che dovrei memorizzare, se lo faccio ci sono più probabilità che mi si imprimano in testa e comunque so che se lo riprenderò in mano dopo qualche tempo basterà seguire i post-it e le sottolineature e ricomporrò velocemente tutto il resto. 

Faccio lo stesso anche con gli eventi che si introducono nella mia vita, alcuni li sottolineo dentro di me con forza perché non voglio farmeli scappare. Ad altri ci metto il post-it perché vorrei far presente a me stessa che non serve replicare l’esperienza, già l’ho fatta e già m’è servita. Tanto basta.

Mi sono accorta, però, che ne ho troppi di post-it sparsi tra i giorni attraversati e ormai le pagine si sono gonfiate e sembra tutto troppo. Troppo da ricordare, troppo da accettare così com’è, troppo da sopportare. Sto pensando di alleggerirmi il carico e toglierne alcuni. Soltanto alcuni. Magari quelli che hanno colori sbiaditi e che coinvolgono persone ormai lontane. Inizierò da questi e vediamo che effetto che fa.

Sono incerta se dare loro l’addio o semplicemente toglierli facendo finta di niente. Non so se poi rimpiangerò il momento del distacco, perché troppo frettoloso e poco celebrativo. Non lo so. Per alcuni penso di aver dato più che abbastanza, per altri meno, ma in fin dei conti non è che posso pretendere di essere sempre equa e giusta. Posso pure perdonarmi qualche mancanza, no?

Il segnalibro oggi lo posizione tra le parole “mancanza” e “perdono”. Credo sia un buon inizio e, tutto sommato, una fine onorevole. Sì, onorevole.

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(793) Candido

Spesso pensiamo che soltanto perché la nostra vita fino a quel momento è andata in un certo modo le cose sono destinate a restare così per sempre. Non riusciamo a vedere le pagine bianche che sono lì davanti ai nostri occhi che chiedono di essere riempite. Candidamente, entusiasticamente, creativamente. Non le vediamo.

Karen Blixen ha scritto che la pagina bianca è una risorsa perché contiene infinite possibilità. E come darle torto?

Invece noi ci facciamo sopra uno scarabocchio e poi ne prendiamo un’altra, un altro scarabocchio e poi un’altra pagina. Come se non avessero significato, come se il disegno alla fine non contasse nulla, ma il disegno conta, soprattutto alla fine. Soprattutto alla fine.

I segni che tracciamo non possono essere cancellati, ma possono essere modellati dai segni che seguono. Immaginarsi il risultato finale aiuta. Ti fa procedere in una direzione mirata anche se mai certa e definitiva. C’è margine di sviluppo in ogni storia, basta saperla guardare. Basta avere il coraggio di viverla.

Io ho deciso che ritiro fuori il mio coraggio, ma in modo diverso. Non traccerò più i miei segni dentro ai margini che già conoscono, li farò strabordare e li osserverò mentre prenderanno forme che ho sempre sognato. Solo sognato, mai vissuto.

L’ho deciso ora. Perché solo ora? Ora sono riuscita a vedere il mio disegno, quello che fino a oggi ho tracciato e ho visto i margini da cui posso uscire e mi sono chiesta: quando ti decidi a farlo? Mi sono risposta adesso, prima solo con il pensiero e poi con l’azione. Ma prima è il mio pensiero che deve immaginare il nuovo tracciato e poi il resto seguirà.

Sono pronta. Ora mi butto a letto e sognerò un nuovo sogno. Vediamo come va.

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(792) Pubblico

Davanti a un pubblico bisognerebbe porsi con rispetto. Rispetto per se stessi e per il pubblico, intendo. Sei lì sul palco e chiedi l’attenzione di persone che molto probabilmente non conosci di persona eppure sono lì per te – se sono lì per te significa che in qualche modo loro ti conoscono e comunque hanno voglia di conoscerti meglio – se non sono lì per te, ancora peggio. Più rigore in quello che dici e nel come ti poni. Più accuratezza, più oculatezza, più sensibilità.

Non è che sei al bar e puoi permetterti di sparare le minchiate che ti passano per la testa senza preoccuparti delle conseguenze e del peso di quello che butti addosso agli altri, sei in una posizione che ti impone responsabilità e decoro. Poi se riesci a brillare tanto meglio, ma nel caso non ci riuscissi almeno sei stato dignitoso. 

C’è un bel po’ di lavoro da affrontare prima di potersi affidare a un pubblico. Preparazione, di pensiero e fisica, e costruzione dell’evento. Non vai sul palco e t’inventi qualcosa, non lo fai neppure se sei un professionista navigato, non lo fai perché sarebbe irresponsabile, pericoloso, insultante. Lo sai e non lo fai, non ci pensi neppure. Se lo fai significa che sei un presuntuoso e non sei il professionista che dichiari di essere.

Ci vogliono delle doti per stare su un palco che non hanno nulla a che vedere con l’aspetto fisico – la bellezza intendo – ma con quello che ti porti dentro. Il carisma non è cosa da tutti, ma la presenza uno se la può costruire costruendo se stesso non per apparire ma per essere, essere al meglio delle proprie possibilità. Discorso lungo, lo so, però a certe cose bisogna pensarci, non ci può andare bene tutto, non possiamo farci andare bene quel che il nostro innato senso del giusto e della decenza registra come oscenità. Perché lo è, lo sono. 

Ci lasciamo convincere da quattro idioti che va bene così, ma non va bene così. Lo sappiamo, le nostre viscere ce lo urlano eppure dubitiamo. Perché ci facciamo trattare da idioti? Perché? Perché? Perché?

 

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(791) Preziosità

Nel tempo è diventata la prassi, la ricerca del dettaglio prezioso è la strada per mantenere alto l’amore per le persone e per le cose. Non c’è altra via. Devi proprio metterti lì, con un certo impegno, e guardare con gli occhi che vogliono trovare quel dettaglio, quella caratteristica, quella cosa che tante volte ha forme strane, ha colori strani, ha modi strani per farsi scoprire. Sembra tutto fuorché attraente, poi lo guardi meglio e qualcosa c’è, qualcosa che ti tiene lì e che ti fa allargare un po’ la mente. Ti fa dire: “Ma guarda!”. Basta questo: “Ma guarda!”.

La preziosità non coinvolge concetti di perfezione e di finitezza, è soltanto un granello che così com’è non è stato replicato in nessun luogo e in nessun altro corpo. Prezioso per questo? Sì, anche. Anche se non è tutto qui. Il granello è prezioso quando ti fa credere di nuovo nel mondo. Assurdo? Forse, ma a qualcosa ci si deve pur aggrappare no?

E allora vai di lente d’ingrandimento perché “le cose essenziali sono invisibili all’occhio” (cit. Il Piccolo Principe), ma le cose essenziali possono anche essere un’enorme delusione, no? E-N-O-R-M-E. Perché si va di principi e questi vengono presto disillusi, si va di immaginazione e si sa che è il modo migliore per sfracellarsi al suolo, si va di speranze e… bé, lasciamo perdere. Quindi le cose essenziali lasciamole al Piccolo Principe che è meglio. Andiamo di dettagli, di quelle cose che se le elimini non cade il mondo, ma se ci sono il mondo migliora. Quelle anche se si smaterializzano va bene lo stesso, le preziosità fan presto a disintegrarsi e nessuno gliene può fare una colpa, giusto?

Quindi. Quindi adattiamoci e facciamoci furbi, andiamo di dettagli e recuperiamo quello che c’è da recuperare. Andrà meglio, sono sicura che andrà meglio.

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(790) Vicolo

Non tutti i vicoli sono ciechi. Non tutti i vicoli ciechi lo sono sul serio. In tutti i vicoli ciechi, comunque, si può fare inversione di marcia per uscirne. 

I vicoli servono a collegare una strada principale con una secondaria, o due secondarie, o due principali, insomma… sono un collegamento. Sono una scorciatoia, spesso. Tagli passando da lì per arrivare là. Seguendo questa logica posso affermare serenamente che non ho fatto altro che passare da un vicolo all’altro senza mai arrivare alla strada principale, a volte sono incappata in una secondaria, ma non è durata mai troppo. Che ridere.

Devo dire che per certi versi i vicoli fanno meno paura, anche se in certi momenti sanno essere bui e minacciosi e ti tremano le gambe ad attraversarli. Te ne accorgi, però, sempre quando ti ci trovi dentro, in mezzo, e via di bestemmie. Ho quasi l’impressione che a forza di conoscere l’ambiente io mi sia un attimo adagiata. Insomma, so come ci si muove tra i vicoli e rimanerci dentro non mi sembra così male. Forse mi sbaglio. Forse me la sto raccontando perché è l’unico modo per ignorare la paura di ritrovarmi allo scoperto, alla luce.

Forse.

Certo che dovrei smetterla di pensare. Anziché alleggerirmi le cose sembra che ogni volta che m’immergo nelle mie miserie queste siano le uniche a contare davvero qualcosa. Il buio di questo vicolo non mi fa bene. Per niente.

 

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(789) Inconfondibile

Parlerò di cose inconfondibili: l’aroma del caffè per esempio. Cosa c’è da dire? Nulla, appena l’effluvio arriva alle tue narici è fatta, sai di cosa si tratta. Spesso l’olfatto ci svela l’essenza di cose e di persone prima ancora che ne registriamo consciamente i dettagli. Il nostro cervello tiene memoria impressionante degli odori che ci hanno colpito, volenti o nolenti.

Ci sono cose che ci risultano inconfondibili agli occhi, al tatto, all’orecchio, al gusto… al cuore. Non ci sono dubbi, nessuna esitazione. Sappiamo di cosa si tratta ancor prima di farci la domanda. Una voce inconfondibile ti può far tremare dal piacere o dal terrore, chi di noi non ha mai sperimentato una o l’altra emozione?

Ecco, credo che la mia massima ambizione sia sempre stata questa: essere una persona inconfondibile – nel bene, certo, ma probabilmente anche nella definizione dei miei difetti, perché no? – per chi mi ha incontrato almeno una volta. Questa piccola follia non fa capo a un progetto, a una strategia, a un calcolo, a un interesse particolare. Si limita a essere un’ispirazione. Fa capo a  un’idea di me che è fumosa e inconsistente, ma che si aggancia a una sensazione piacevole che vorrei lasciare negli altri, anche solo per un fugace nanosecondo.

Non è qualcosa che faccio intenzionalmente, è quel meccanismo che mi parte in automatico e – lo giuro – soltanto ora, in questo preciso istante in cui sto scrivendo, mi si è palesata davanti con una chiarezza impressionante.

Tutto molto semplice, anche banale volendo, ma sintetizzando io inizio e finisco lì. Da questo punto in avanti si apre davanti a me un lungo percorso di introspezione furibonda per scovare il rimedio a questa patologia assurda. Anni e anni di frustrante ricerca e di fallimenti inequivocabili. Non è bello tutto ciò?

Secondo me dovrei smettere di scrivere, certe illuminazioni si pagano care. Chi riesce a dormire ora?

Eh.

 

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(788) Tornare

Quando il passato torna a galla ci si impone di stare sul chi-va-là. Non è per sfiducia, per-l’amor-del-cielo, ma per cautela sì. Quel frammento di passato ti si ripresenta davanti, non invitato, e tu devi decidere cosa farne. Lo ascolti? Lo ignori? Gli dai spazio? Lo sbatti fuori con un calcio in culo? Ecco, sembra facile ma non lo è.

Il mio presente è costellato da questi eventi, roba da non crederci lo so, una sorta di maledetto loop.

Ogni tre per due mi ricompare un fantasma (che si fa carne e ossa) per chiedermi qualcosa. Mai per darmi qualcosa, beninteso, sempre per chiedermi qualcosa. E allora io – che sono persona scrupolosa – mi fermo, ascolto, valuto, soppeso, rifletto, e poi vedo come muovermi. Nove volte su dieci è un’immensa rottura di balle, nove volte su dieci mi presto a questa rottura di balle in nome di qualcosa che è stato e che non è più e non è più perché ha cessato di avere alcun senso secoli prima. Insomma: una merdaviglia.

Ora: io non so perché le persone pensano di ricomparire nella mia vita, come se niente fosse, per chiedermi qualcosa. Non lo so. Forse perché hanno dimenticato che mi hanno fatto uscire dalla loro vita per una buona ragione, ovvero perché ero inutile. Quindi… vuoi che te lo ricordi? Così ti passa quella parvenza di nostalgia che ti sta confondendo e puoi sfancularmi di nuovo? Va bene, sono qui per questo, non c’è problema.

Eppure, ben sapendo che il tutto sarà fallimentare, io ascolto-valuto-soppeso-rifletto e mi presto a essere usata di nuovo. No, non lo faccio perché sono buona, soltanto perché sono una cogliona e questo deve per forza essere messo agli atti. Lo sto scrivendo perché ci risiamo, un pezzo del mio passato è tornato a galla, s’è fatto un giro largo e mi si è presentato alla porta. Me lo sto guardando e riguardando e so già come andrà a finire, ma stavolta vorrei sorprendere me stessa e provare – per-l’amor-del-cielo soltanto provare, a non rimanerne impigliata.

Se c’è una ragione per tutto questo ancora mi è oscura, però vorrei capire, vorrei davvero capire. E se non ci fosse nulla da capire? Allora vorrei saperlo, grazie. In fin dei conti me le devo smazzare io ‘ste cose, mica chi?

Amen.

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(787) Lei

Lei non sa più da che parte girarsi. Deve essere forte, deve essere autonoma, deve essere capace di dire-fare-baciare-lettera-testamento con coraggio, combattendo per se stessa e per tutte le Lei del mondo. Perché il mondo delle Lei ne ha bisogno visto che il mondo dei Lui non capiscono un cazzo. Proprio così.

La cosa bastarda è che ogni Lei che si rispetti è fatta anche di altro. Cose da nulla, cose che prendono in considerazione l’emotività- tanto per buttare lì una cosa da nulla. Perché sarebbe facile potersi programmare e non perdere un colpo, ma ogni giorno è un riprendersi in mano, un ricostruirsi, un cambiare idea e cambiare bisogni e cambiare. Perché la vita è cambiamento e ogni Lei lo sa.

Lei non può fidarsi, non può affidarsi. Non più. I Lui sono una minaccia, e lo sono davvero, anche quelli che sembrano innocui. Chi lo dice? Lo si capisce, se sei una Lei lo capisci fin da piccola. Quel mondo, tutti quei Lui, non sono terra sicura.

Quindi ogni Lei che viaggia nel mondo, ogni Lei che respira il mondo, ogni tanto prende una botta, ogni tanto si ritrova a terra e non sa neppure il perché, sente soltanto il dolore. Ogni Lei. Poi c’è chi se ne accorge subito e chi se ne accorge troppo tardi. C’è chi decide di agire in modo diverso e chi decide di non muoversi più. Mai più. Perché non tutte le Lei sono uguali, anche se tutti gli Esseri Umani sono uguali. Non è un controsenso? Bé, considerato che neppure tutti i Lui sono uguali nonostante siano tutti Esseri Umani, no. Non è un controsenso. Così va.

Un dubbio però ti viene guardando tutti i Lui che pensano di essere umani e invece non lo sono. Ogni Lei dovrebbe imparare a guardarli bene questi fake, ma lo si capisce sempre troppo tardi. Dopo che il danno è stato fatto. Perché ogni Lei pensa che quel Lui sia diverso, sia speciale, sia il Lui che fa la differenza. Raramente è così, bisognerebbe tenerlo presente. Eppure si spera, eppure si crede. 

Una cosa si domanda ogni Lei che alza gli occhi al cielo: perché i Lui che potrebbero alzarsi e con dignità potrebbero bloccare l’azione dei tanti fake, continuano a nascondersi, a giustificare la categoria, a far finta di niente? Forse perché non sanno cosa significa essere Lei.

E qui mi fermo perché non so più da che parte girarmi.

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(786) Caricatura

Spingersi oltre per forzare una convinzione che non ci serve più, che forse non ci è mai servita, ma che ora si rende con evidenza nel suo peso e nel suo carico. Senti che non va bene, così non va bene, non è mai andato bene ma per qualche motivo che-dio-solo-sa-e-forse-neppure-lui ti eri fatta andare bene. A cosa stavi pensando? Che cosa ti aspettavi? Che diavolo pensavi potesse accadere di diverso? Che film t’eri fatta, santo-di-un-dio?!

Ma che ne so. Davvero che ne so.

Credo sia soltanto una questione di carico. Bisogna caricare, forzare l’immagine fino a distorcela, fino a farla deforme e orrenda e ridicola, soprattutto ridicola. Anche quando non ti viene da ridere. Anche quando ti viene solo da tirare calci. Anche quando hai voglia di andartene, di mollare quella dannata situazione e metterci una pietra sopra. Un masso sopra, meglio.

Quindi, considerato che la vedi arrivare da lontano ‘sta fine, perché non la acceleri? Bella domanda.  N-O-N-L-O-S-O. Se lo sapessi non starei qui a scrivere, non mi servirebbe scrivere se già sapessi i perché e i percome. Serve ripeterlo?

Aspetto perché voglio vedere fin dove si arriva. Aspetto perché voglio sperare che non serva finire. Aspetto perché vorrei non dover finire. Perché a forza di finire ci si fa il vuoto attorno e nel vuoto mi viene mal di testa.

Ma che ne so. Davvero che ne so.

So cosa faccio per finire: spingo e forzo le immagini finché non si trasformano e acquistano la loro reale identità. Le guardo e le digerisco. Ed è finita, da quell’istante lì è finita.

Adelante Sancho.

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(785) Angolo

Anche se “nessuno può mettere Baby in un angolo” (cit. Johnny in “Dirty Dancing”), spesso è Baby che si mette in un angolo. Lo fa per diverse ragioni, per lo più per essere lasciata in pace, per poter pensare senza intromissioni, per fare mente locale su dov’è, chi è, cosa deve fare, cosa vuole fare, cosa fa e sciocchezze del genere.

Baby in quell’angolo, quando ci si mette da sola, sta perfettamente. Se ce la costringono, è tutta un’altra storia.

Non reagisce subito, perché comunque da quell’angolo la visuale è interessante. Sempre. Chi ti ci ha messo pensa che te ne resterai lì in silenzio e che il suo problema (ovvero tu) sia archiviato, quindi non bada più a te. Questo Baby lo sa. Prende questa cosa e la sfrutta finché ne ha abbastanza e se ne va. Semplicemente così, ogni sacrosanta volta, con freddezza clinica e sempre con lo stesso risultato: la consapevolezza che spinge alla scelta e quindi all’azione. La strategia di Baby non solo funziona, ma non viene percepita come strategia da nessuno. Nessuno la guarda, in quell’angolo, nessuno la pensa in ascolto, in attesa. Nessuno.

Quando il quadro è stato esaminato a sufficienza, e una certa idea della questione se l’è fatta, Baby si alza e se ne va. Anche se Johnny non arrivasse (e quando mai arriva un Johnny che ti toglie davvero dall’angolo, ma va là!) lei sarebbe pronta ad andarsene a costo di strisciare, di scavare, di spiccare il volo, di saltare come uno stambecco anche se stambecco non è. In qualche modo Baby farà. Lo ha già fatto migliaia di volte e sa come fare, quindi lo farà.

“Nessuno può mettere Baby in un angolo”, vero. E quando Baby è davvero costretta all’angolo non è detto che ci resterà. Sarà lei a decidere “chi, quando, come, dove” (ma questa è Vivian in “Pretty Woman” che è la stessa storia ma senza mambo in mezzo e comunque finisce bene anche lì perché le donne cazzute in un angolo sanno sempre cosa fare e per chi ce le ha messe non è mai indolore, dopo).

Fuck.

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(784) Ricaduta

La ricaduta è quella cosa che ti capita il giorno dopo che hai scritto un post intitolato “Ripresa”. In pratica è la vendetta del karma, che ti fa presente che non è mai detta l’ultima parola, che chi ride bene ride ultimo [ed è sempre il karma quello che ride per ultimo] e che mai dire gatto se non ce l’hai nel sacco. Conclusione: ben mi sta.

Il raffreddore oggi s’è fatto protagonista, con grande gioia dei colleghi che dribblavano i miei starnuti con grande stile. Li ho amati tanto oggi per non avermi defenestrata. Davvero tanto. Io stessa non mi sopportavo più.

Riprendendo la saggezza popolare di qualche riga più sopra, succede che quando pensi di aver raggiunto il top del minimo zaaaaaaaaaaaaaaak t’arriva la prova che mancava ancora un pezzetto. Non moralmente, stavolta, ma fisicamente sento la botta. La parte positiva è che posso riderci sopra perché i pensieri cupi sono passati, nella sfiga la fortuna. Eh.

Sembrerà stucchevole, ma quando sei nel baratro, anche il minimo miglioramento fa la differenza. Per questo motivo chi ha sofferto apprezza con più intensità gli attimi felici. Quando non hai nulla, ogni cosa bella che ti arriva è una festa. E non lo dico io, è proprio Legge dell’Universo.

Per questa logica, dal mio punto di vista, augurare a certa gente gretta, avida e meschina una secchiata di sana miseria significa aprire loro le porte della felicità. Sì, la mia compassione sa arrivare a tanto.

Ok, naso tappato, post pieno di stronzate, penso di essere arrivata anche per stasera al capolinea. Auguro a tutti la buonanotte e vado ad affrontare col vicks vaporub la mia oscurità che so mi sta aspettando pronta per divorarmi. Amen.

 

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(783) Recupero

Essere in fase di recupero, niente di meglio. Certo ancora non sto a bolla, ma sono in fase di recupero, questione di poco e sarò in forma. Questa consapevolezza alleggerisce anche gli ultimi strascichi di malessere di stagione che se ti lasci un po’ andare ti incupiscono maledettamente. Quindi, sono in fase di recupero.

Lo sento passando da un pensiero all’altro, odio meno cose e con minor veemenza. Un vero sollievo.

Recuperare significa che sei rimasta indietro con la vita, ti sei persa dei pezzi perché stavi cercando di non naufragare. L’emergenza è passata e si sta ritornando alla normalità. Ritornare alla normalità non significa un tuffo di salute e benessere, ma è un semplice sentirsi meglio, che è già qualcosa. Sembra più vicina la salvezza.

Recuperare significa anche che sei in uno stato di rinnovata presenza in te stessa, hai guardato la morte negli occhi (si fa per dire, in senso lato – la morte della voglia di esserci, per esempio) e sei venuta a patti: ok, ricomincio con un altro po’ di carburante per vedere come va. Una sorta di: mi fido, con riserva, ma mi voglio fidare, ora le cose andranno meglio. 

Con riserva. Meglio che niente.

Non è che ‘sta cosa del recupero sia ovvia, c’è anche chi non si permette di recuperare e si assesta sull’onda di un costante e persistente malessere come se fosse lì che la vita vive. Solo perché si fa fatica a uscire e la fatica sembra insopportabile rispetto allo stare in ammollo in quel limbo. Ecco, non sono fatta così. Faccio fatica, tutta la fatica che posso, per uscire dal limbo, altroché.

Recuperare un rapporto che si è sbeccato, invece, mi è alla lunga impossibile. Non recupero davvero, non ci riesco. Quel che si è rotto si è rotto, amen. Sto attenta a non rompere nulla per questo motivo, per il mio limite nel non saper recuperare fiducia in qualcuno che si è beffato di me. Per-l-amor-del-cielo, non è che c’è una fila di persone davanti alla mia porta che mi implorano di lasciar loro recuperare ciò che hanno rotto… ma, per la cronaca, se ci fosse non aprirei.

Preferisco così che mentire, almeno non devo recuperare stima di me stessa per aver ingannato sapendo di ingannare.

Insomma, tutto questo per sottolineare l’ovvio: sto meglio. Grazie.

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(782) Idiota

Ci sono soglie che non si dovrebbero superare. Ce lo dice il buonsenso, ce lo dice l’esperienza, ce lo dice chissà-chi-ma-qualcuno-ce-lo-dice-di-sicuro perché quando lo stiamo per fare la voce ci rimbomba dentro con una certa potenza: i-d-i-o-t-a!  E noi già sappiamo tutto quello che ci capiterà da lì a poco.

Ricordo l’ultima volta, l’ultima volta che me ne sono fregata di quella voce ammonitrice andando ben oltre la soglia, e pensavo mi fosse bastata. No, a una vera idiota le lezioni non bastano mai. Fatto sta che ora è tutto un scivolare verso quella soglia e sembra che qualcuno ci abbia messo l’olio per quanto liscia mi pare la via. Eh. Non dico altro.

Vorrei invece analizzare ora la sensazione del non-me-ne-frega-niente che precede il disastro: ecco, penso che in questo semplice e diretto concetto si concentri l’essenza dell’Essere Umano.

Non significa che non lo so. Non significa che non possa cambiare rotta. Non significa che son presa dagli eventi e povera me. Non significa che m’illuda del fatto che stavolta potrebbe andare meglio. Non significa che io mi avvalga di qualche segreto acquisito lungo la via della vecchitudine che mi salverà il culo un attimo prima. No. Tutto questo sarebbe ridicolo, vero?

Significa proprio che so, sono capace di intendere e di volere, me ne prendo tutta la responsabilità, sono pronta per affrontare la disfatta e lo faccio come se non me ne fregasse niente. Anzi, in fin dei conti me ne frega niente perché altrimenti farei altre scelte. Quindi: sono pronta, lo ripeto. Sia quel che sia.

Senza nulla togliere all’idiozia che ne fa da base, questo pensiero è comunque tipico dei folli, dei grandi personaggi di cui sono pieni i libri e che ci intrigano con le loro avventure… bello, no?

Sì, bellissimo. Dentro a un libro. Fuori un po’ meno. Eppure. E-P-P-U-R-E non se ne parla di frenare, di cambiare direzione, di almeno rallentare sperando in un rinsavimento. NO.

Il dado è tratto. (Cesare)

Sì, mi rendo conto, ma guarda che saranno casini inenarrabili. Guarda che te ne pentirai ogni giorno della tua vita. Guarda che poi la menerai per decenni di quanto la Sorte si sia presa gioco di te, ben sapendo che sei stata tu a volerti beffare di Lei – che non è astigmatica e ti riconosce ormai lontano mille miglia. Guarda che poi te ne penti e lo sai benissimo.

No. So che mi lamenterò. So che piangerò. So che la menerò per decenni rifacendomi alla Sorte, alla sfiga e a tutto il resto. Lo so. Ma non mi pentirò. Non l’ho mai fatto. Mai pentita di nulla, purtroppo.

Non me ne pentirò, fidati Babs.

Eh.

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(781) Depositare

Depositava ogni cent che aveva ed era il più ricco di tutti, Paperon de’ Paperoni, più ricco – anche se di poco – di Rockfeller. Taccagno, indisponente e prepotente, ma ricco. Il suo Deposito, il suo tesssssoro………………………. (sussurrato alla Gollum, ovviamente).

Mia nonna diceva: “Impara l’arte e mettila da parte”. In poche parole depositala in un cassetto e quando ti servirà non dovrai far altro che estrarla e usarla. Questa cosa per me ha sempre avuto un certo appeal, ci trovavo veramente il buonsenso che ti dà fiducia. Imparavo così le cose che lei mi insegnava senza chiedermi il perché (i perché distraggono e ti staccano dal presente, impari male e malvolentieri). Secchiate di bacelli di piselli o di fagioli da pulire, come si fa nonna? Così —– e mi faceva vedere e io la imitavo nei gesti e dopo un po’ non li rompevo più, riconoscevo quelli ancora buoni da quelli da buttare e via avanti.

Lei grande pazienza, io senza distrazioni perché sentivo che non stavo perdendo tempo, in qualche modo mi sarebbe tornato utile in un futuro. Vuoi farti un minestrone? Mica userai i fagioli con bacello incorporato! Eh, no.

Se un’anima buona mi avesse introdotto alla matematica facendomene apprezzare il senso nelle cose del mondo sarebbe andata diversamente. Avrei imparato quell’arte e l’avrei messa da parte. Che occasione persa, maledizione.

Depositare qualcosa che hai imparato significa che sei riuscito a impararla (mica cosa ovvia), che hai consapevolezza che prima o poi ti servirà e saperla fare ti mette un po’ più tranquillo (niente di ovvio neppure in questo) e che non hai buttato il tuo tempo mentre imparavi a farla (se impari con uno scopo e senza i boicottanti perché impari per sempre).

Nel mio deposito non ho molti cents (che ve lo dico a fa’) però ho molte cose che ho imparato e ho messo lì. Cose che faccio veramente veramente bene non ce ne sono molte, forse un paio, ma alcune delle altre le riesco a fare discretamente e questo mi piace. Il mio deposito è piuttosto caotico, meno sberluccicante di quello di Paperone, ma alla fine la Numero Uno nel mio deposito sono io e son ben difficile da rubare. Posso dormire sonni tranquilli.

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(780) Correggere

Si sta un attimo a sbagliare, a correggere – a farlo bene – ci si può mettere una vita. Non si cancella nulla, rimane sempre sotto una traccia e quella traccia ti ricorda l’errore. Forse il ricordo dell’errore è ancora più bastardo dell’errore stesso, è quella cosa che non ti permette di perdonarti.

Non è che tutti gli errori che facciamo dipendando totalmente da noi, ma sta a noi correggerli, comunque, non a qualcun altro. Forse è per questo che non si correggono mai del tutto, mai troppo bene. Correggerli, quindi, ha davvero senso? Eh. Che ne so. Immagino non sia per tutti uguale e per tutto uguale, come al solito. L’Abracadabra senza buonsenso può peggiorare la situazione, bisogna tenerne conto.

Guardare l’errore e riderci sopra? A esserne capaci magari aiuta, poi si analizzano i cocci e si cerca di capire cosa riattaccare e cosa no. Rimane un dato di fatto: ti rode sempre e comunque, quel danno non te lo toglierai mai di dosso. E sì, certo, ci possiamo anche voltare dall’altra parte e fare finta di niente, ma quante altre-parti esistono? Quante ne abbiamo a disposizione?

Ok, sono andata a infilarmi nel solito monologo squinternato, è più forte di me, ma la questione del correggere e cosa correggere rimane. Rimane qui, lì, là, ovunque. Correggere perché oggettivamente così non va bene, oppure correggere perché le conseguenze sono troppo pesanti e se lo sapevamo prima manco lo avremmo fatto o lo avremmo detto? Correggere per amore della Giustizia o della nostra comodità?

Chi vede il Giusto e non lo fa manca di Coraggio. (Confucio)

Il Giusto, però, non è comodo e non è questione di punti di vista. Per questo il Coraggio che ci vuole è considerevole. E soprattutto: non è mai finita. Le conseguenze del nostro mettere le cose a posto rimarranno con noi fino a farci maledire il momento in cui siamo stati coraggiosi e puri.

Ecco perché i SuperEroi a noi anime comuni ci fanno un baffo: loro non hanno scelta. E poi fatemelo scrivere: so’ bravi tutti a fare la cosa giusta quando il mondo ti implora di mettere le cose a posto, prova a farlo quando tutti pensano che invece così va benissimo e che sei tu che vuoi soltanto rompere le palle.

Eh. Auguri.

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(779) Privato

privare [dal lat. privare, der. di privus “privo”]. – ■ v. tr. 1. [rendere qualcuno sprovvisto di qualcosa che possedeva o a cui aveva diritto, con la prep. di del secondo arg.: p. qualcuno di una carica] ≈ defraudare, spogliare. 2. (estens.) [rendere qualcosa sprovvisto di cosa che possedeva, con la prep. di del secondo arg.: p. un ramo della corteccia; p. un libro della copertina] ≈ (non com.) deprivare, (lett.) orbare, spogliare, togliere. ■ privarsi v. rifl. (con la prep. di) 1. [fare volentieri a meno di un oggetto e sim., che non ci serve più, che c’è venuto a noia, ecc.: p. di un vecchio abito] ≈ liberarsi, sbarazzarsi, spogliarsi. ↔ conservare (ø), tenere (ø). 2. (fig.) [non fare deliberatamente qualcosa che si avrebbe il diritto o la possibilità di fare: p. di una soddisfazione] ≈ fare a meno, rinunciare (a).

Il vero privare non dà scampo, non per me. La sottrazione, la mancanza, ha lo stesso valore sia se la subisci sia che te la autoinfliggi. Privarsi di qualcosa è togliersi un bene – sempre – non ci si priva di un male, ci si libera da un male casomai. Quando qualcuno ci priva di qualcosa non ci toglie una sofferenza, ce ne infligge una, facciamoci caso.

Quando ci si sente privati di qualcosa che era nostro e in un istante non lo è più ci ritroviamo nello stesso sconcerto bambino della prima volta che ci è capitato. Ci chiediamo: perché? E non è mai una domanda scema, è lecita e sacrosanta. Dobbiamo in quel momento andare a fondo, dobbiamo trovare una ragione per farci una ragione nostra, una che riusciamo a capire e a giustificare e a digerire. Se la domanda resta in sospeso ci risuonerà dentro per secoli, facendoci impazzire. Perché? Perché me lo hai tolto, era mio. Quel bene era il mio. Non dovevi toccarlo, non dovevi prendermelo, non dovevi portarmelo via. Era mio e rimarrà mio anche se ora non ce l’ho più. E non ce l’ho più per colpa tua.

Fin dalla nascita veniamo privati di tante tante piccole cose che sono soltanto nostre e che nessuno si dovrebbe permettere di toccare. Sono cose delicate, cose che spesso non possiamo neppure nominare per non sporcarle. Sono cose che suonano come noi, che hanno il nostro stesso odore. Sono cose che senza di noi non servono a nulla, sono pezzetti del nostro daimon che, se si allontanano, si perdono per sempre e scompaiono.

Quello di cui siamo stati privati è un dolore che non finisce mai. La cosa peggiore è che per quanto ci mettiamo d’impegno a trovare quel perché maledetto, quel perché maledetto non sarà mai abbastanza per giustificare la violenza, l’oltraggio, lo scempio che ci hanno procurato, per il tempo infinito che sappiamo essere solo nostro e che nessuno potrà aiutarci ad alleviare.

Ognuno di noi ha una sua lista, ma sono sicura che le nostre liste se le confrontassimo sarebbero molto simili, paurosamente simili. E quando le guardiamo ci sentiamo tutti allo stesso modo: bambini violati e traditi. Come si può guarire da tutto questo? Come?

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(778) Risposte

Più invecchi e più capisci il significato del detto “è più difficile fare la domanda giusta che trovare la risposta giusta”. Saper fare le domande giuste non è cosa da poco, non da tutti, soprattutto non funziona sempre. Essere sintonizzati con il mondo sottile è soltanto una delle premesse imprescindibili, il resto è anche questione di culo e si sa che le botte di culo c’han un bel carattere tutto loro, colpiscono a seconda dell’umore.

Però qualcosa possiamo fare, senza contare troppo sul Fato, per esempio: se hai una sensazione stramaledetta che ti si infila in tutti i pori e fai finta di nulla posizionando la tua domanda su un punto di vista esterno a te, la risposta che riceverai sarà quella che il Caos vorrà. Non hai scampo, l’Universo farà di te uno scempio perché sei stato scemo e te lo meriti.

Quindi essere presenti a se stessi mentre si valuta una situazione ti può già aiutare ad avere le prime risposte utili per procedere. Ma non basta. Stare attenti, ma proprio all’inverosimile, a quello che succede dentro la testa e il cuore degli altri è ciò che ti permette di arrivare alle domande davvero importanti, quelle giuste, quelle che una volta che le hai individuate ti offrono risposte che ti rendi conto erano già tue e manco ti servono più. Questa è Arte. Questa è la condizione a cui anelare per vivere da Illuminati.

Già capire noi stessi per metà è un’impresa, capire gli altri è utopia. Capire un po’ gli altri, però, è probabile che se ci si basa su noi stessi (quella metà con cui ci possiamo raccapezzare) e si aggiungono alcune varianti, il contatto si compia. Gli occhi sono lo specchio del cuore? Può darsi, o dei pensieri. In fin dei conti tutto il nostro corpo parla di noi anche se non ne siamo consapevoli e non ce ne curiamo. Siamo libri aperti? Mah, forse sì, fermi a pagina due però.

Ritorniamo al topic della giornata, le risposte. Ci fissiamo sull’avere risposte dando poca importanza alle domande, ma non solo: se le risposte non ci piacciono cosa facciamo? Le ignoriamo. Semplicemente. Le risposte vere non sono mai confuse, non sono mai piene di sfumature. Bianche, nere, al massimo grigie, ma non ti danno adito a dubbi. Le risposte vere son risposte mica bluff.

Quindi mi domando: perché ci incaponiamo sul concetto di risposta, se fin dall’inizio non c’è in noi la minima intenzione, il minimo coraggio, di arrivare al punto per prendere una decisione? Semplice: noi siamo dei bluff.

Al diavolo le bussole, quindi, consegnamoci al Caos dell’Universo che la sa ben più lunga di noi!

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