(790) Vicolo

Non tutti i vicoli sono ciechi. Non tutti i vicoli ciechi lo sono sul serio. In tutti i vicoli ciechi, comunque, si può fare inversione di marcia per uscirne. 

I vicoli servono a collegare una strada principale con una secondaria, o due secondarie, o due principali, insomma… sono un collegamento. Sono una scorciatoia, spesso. Tagli passando da lì per arrivare là. Seguendo questa logica posso affermare serenamente che non ho fatto altro che passare da un vicolo all’altro senza mai arrivare alla strada principale, a volte sono incappata in una secondaria, ma non è durata mai troppo. Che ridere.

Devo dire che per certi versi i vicoli fanno meno paura, anche se in certi momenti sanno essere bui e minacciosi e ti tremano le gambe ad attraversarli. Te ne accorgi, però, sempre quando ti ci trovi dentro, in mezzo, e via di bestemmie. Ho quasi l’impressione che a forza di conoscere l’ambiente io mi sia un attimo adagiata. Insomma, so come ci si muove tra i vicoli e rimanerci dentro non mi sembra così male. Forse mi sbaglio. Forse me la sto raccontando perché è l’unico modo per ignorare la paura di ritrovarmi allo scoperto, alla luce.

Forse.

Certo che dovrei smetterla di pensare. Anziché alleggerirmi le cose sembra che ogni volta che m’immergo nelle mie miserie queste siano le uniche a contare davvero qualcosa. Il buio di questo vicolo non mi fa bene. Per niente.

 

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(768) Vetrina

Si mette in mostra il meglio di sé sperando di vendersi. Questa dovrebbe essere la regola. Se lo fosse sarebbe tutto chiaro. Compri non solo quello che vedi – presumibilmente il meglio – ma anche quello che ci sta sotto e sopra, dentro e dietro.

Non funziona così, però, perché non sempre oltre quello che vedi c’è dell’altro. E se fosse solo un bene o solo un male sarebbe tutto molto più semplice. Eppure, se compri soltanto quello che vedi e c’è potrebbe non bastarti, se compri anche tutto quello che non vedi – nove volte su dieci – ti maledici per non averci pensato almeno mille volte prima di portartelo via. Tirando le somme: mai una gioia.

Poi ci sono quelli come me, e qui – modestamente – si aprono le voragini dell’inferno. Chi non ci ha mai puntato nulla su quello che stava mettendo in vetrina: per insicurezza, per incapacità strategica, per impossibilità reale o immaginata, per pigrizia, per indolenza e per qualsiasi altra ragione. In ogni caso, alla fine dei conti, sempre uno sbaglio. Enorme.

Concentrarsi su tutto quello che sta sotto, sopra, dietro, in parte, probabilmente per chi è fatto della mia stessa pasta, è prioritario rispetto a ciò che sta mettendo in vetrina. Per la serie: non capire un cazzo. Lo dico ora, ora che è tardi per mettere in mostra il meglio perché – evidenza dei fatti – è svanito con il passare dei troppi anni e delle vicissitudini maledette della vita. Infatti, ci ho riflettuto solo ultimamente. Voglio dire, ero così impegnata con le millemila idiozie che mi riempiono il cervello che la cosa più ovvia m’è passata sotto il naso e io… niente. Girata dall’altra parte.

Mi sorprendo sempre di quanto il mio “vedermi” fuorvia il 99% del mio “vivermi”. Considerato che la mia vista s’è ridotta – notizia fresca fresca e alquanto traumatizzante – e che nuovi occhiali stanno per posarsi sul mio naso, mi posso solo augurare che con le nuove lenti io possa scoprire ciò che ancora di me non ho saputo vedere. Così, tanto per approfittare del tempo che mi separa dalla cataratta senile. Perché se dice male dice male, e girarsi dall’altra parte non serve mica. Eh.

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(721) Lettering

letteringlètëri› s. ingl. [der. di (to) letter «segnare con lettere; imprimere il titolo su …»], usato in ital. al masch. – Nel linguaggio della pubblicità e della grafica, operazione consistente nello scegliere, secondo opportuni criterî, i caratteri (anche scritti a mano) con cui far comporre il testo che accompagna un annuncio pubblicitario, o che in genere serve di commento e integrazione a un’immagine, a un disegno o serie di disegni (per es., un racconto a fumetti). Anche, il risultato di tale operazione.

La forma delle lettere parla. Lo stile con cui le lettere sono graficamente presentate parla. Che tu lo voglia o no, ti parlano al cervello prima ancora che agli occhi. Che tu lo voglia o no la tua risposta, la tua reazione, è influenzata da quello che il tuo cervello ha ricevuto come impressione.

Detto questo, se funziona per la parola scritta, funziona ancora meglio, e in modo più dirompente che mai, per la parola parlata. Lo chiamano tono, riferito alla voce, intonazione se riferito alle parole e alle frasi. Poi c’è la cadenza, che ci portiamo dietro come retaggio culturale, e anche quella serve e si impone un bel po’ nel nostro modo di presentarci e/o rapportargli con gli altri.

Tutto questo si traduce come modo. Il modo che abbiamo di esprimerci ci rende più o meno piacevoli al nostro prossimo. Sto molto molto molto molto attenta al mio modo, molto attenta. Quando scrivo e quando parlo. Più quando scrivo che quando parlo – non mi scappano parolacce quando scrivo, se le scrivo le voglio proprio scrivere, non sono soltanto un fastidioso intercalare – e sto molto molto dannatamente molto attenta al modo degli altri. Chi è sincero e chi finge, per esempio. Chi se la tira e chi no, un altro esempio.

La mia attenzione è focalizzata sul modo perché anche se ne esistono miliardi di varianti, sono solo due le dinamiche possibili: quella rispettosa e quella irrispettosa. Non c’è pericolo di confonderle, non sono interscambiabili, sono limpidamente evidenti perché prendono direzioni opposte. Certo, bisogna farci caso, bisogna che tu lo ritenga importante per riuscire a captarlo immediatamente e reagire di conseguenza.

Io ci faccio caso sempre. Proprio sempre. Vado oltre il sorriso, punto al lettering. Deformazione professionale, chiamiamola così, assolutamente precisa e affidabile.

Non mi piace avere sempre ragione riguardo alla lettura dei modi di chi mi sta attorno, ma non sono io quella infallibile, è il lettering. Mi affido a lui e lui non sbaglia. Ora, ce la possiamo anche raccontare, la prima impressione può essere sbagliata, ma se sai dove guardare non è un’impressione è studio istantaneo. E quando ho ragione, solitamente, mi siedo al centro del mio silenzio e aspetto. Non c’è bisogno di fare altro. Il tempo dirà meglio di me. E anche questa è una certezza.

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