(845) Me

Si passa una vita a cercarsi e quando ti trovi ti cadono le braccia. Ti aspettavi che le cose si aggiustassero magicamente, che quella fosse la chiave. Wrong. Le deliziose sorprese del ritrovamento di pezzi di te che stavano persi nell’inconscio (se esiste, un motivo ci sarà no? Eh!) non è che siano una festa. Maneggi pezzi di quel che ignoravi – e che ora vorresti ricominciare a ignorare bellamente (e felicemente anche) – e ti domandi che cosa diavolo te ne puoi fare. 

Per quanto la lista sia breve (è davvero così?), il carico è comunque troppo.

Il maneggiare con cura perde proprio di valore, dovresti chiamare la squadra antimine per sanare la situazione. Certo, certo, la consapevolezza. La padronanza delle proprie potenzialità, la compassione nei confronti dei propri limiti e di quelli degli altri. L’illuminazione. Tutto bellissimo. Ma da dove iniziare? Non è che al momento del ritrovamento c’è pure un bignamino da consultare. E a dirla tutta il pulsante ON/OFF non funziona, s’è bloccato sul ON e le batterie non sono destinate a scaricarsi, a meno che tu non ti voglia scaricare. Bitch.

Faccio un esempio: scopri che stai mettendo in atto una dinamica di protezione che ignoravi. Ovvio che lo fai perché ti senti minacciata da un qualche mostro che sta là fuori. Ok. Questo è quello che pensavi. Sciocca. Il mostro non sta fuori bensì dentro. E adesso, fenomeno che non sei altro? Ecco. Roba del genere. Ritrovarsi con i propri mostri belli in fila davanti a te che ti strizzano l’occhio (sicuri che da lì non li sposterai neppure con le bombe), non è proprio tranquillizzante. Evviva, ora li vedi. Evviva, sei consapevole. Evviva. So what?

Quindi, lo dico serenamente e senza paura di essere smentita: la ricerca, prima o poi, comporta un ritrovamento – bisgona saperlo. Il ritrovamento riserva un sacco di sorprese – bisogna saperlo. Raramente bellissime – bisogna saperlo. Alcune carine, altre mostruose. Facendo una media… son cazzi. Ora, certo che il senso della vita sta nella ricerca. Ovvio. Certo che affrontare noi stessi è l’unico modo per aggrapparsi a un senso. Ovvio. Certo che sprecare l’esistenza agendo alla cavolo, tirando colpi a destra e a manca, è un’opzione come tante. Ovvio. Certo che si può fare di meglio. Ovvio. Soltanto che essere te, davvero te, comporta dei fastidi – bisogna saperlo.

Tutto qui. 

 

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(791) Preziosità

Nel tempo è diventata la prassi, la ricerca del dettaglio prezioso è la strada per mantenere alto l’amore per le persone e per le cose. Non c’è altra via. Devi proprio metterti lì, con un certo impegno, e guardare con gli occhi che vogliono trovare quel dettaglio, quella caratteristica, quella cosa che tante volte ha forme strane, ha colori strani, ha modi strani per farsi scoprire. Sembra tutto fuorché attraente, poi lo guardi meglio e qualcosa c’è, qualcosa che ti tiene lì e che ti fa allargare un po’ la mente. Ti fa dire: “Ma guarda!”. Basta questo: “Ma guarda!”.

La preziosità non coinvolge concetti di perfezione e di finitezza, è soltanto un granello che così com’è non è stato replicato in nessun luogo e in nessun altro corpo. Prezioso per questo? Sì, anche. Anche se non è tutto qui. Il granello è prezioso quando ti fa credere di nuovo nel mondo. Assurdo? Forse, ma a qualcosa ci si deve pur aggrappare no?

E allora vai di lente d’ingrandimento perché “le cose essenziali sono invisibili all’occhio” (cit. Il Piccolo Principe), ma le cose essenziali possono anche essere un’enorme delusione, no? E-N-O-R-M-E. Perché si va di principi e questi vengono presto disillusi, si va di immaginazione e si sa che è il modo migliore per sfracellarsi al suolo, si va di speranze e… bé, lasciamo perdere. Quindi le cose essenziali lasciamole al Piccolo Principe che è meglio. Andiamo di dettagli, di quelle cose che se le elimini non cade il mondo, ma se ci sono il mondo migliora. Quelle anche se si smaterializzano va bene lo stesso, le preziosità fan presto a disintegrarsi e nessuno gliene può fare una colpa, giusto?

Quindi. Quindi adattiamoci e facciamoci furbi, andiamo di dettagli e recuperiamo quello che c’è da recuperare. Andrà meglio, sono sicura che andrà meglio.

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(736) Zucca

Non nascondo – sia mai – che certe volte mi mancano i titoli dei post. Gli argomenti arrivano, ma i titoli devono essere sintetizzati in una sola parola e, soprattutto, non posso ripeterli. Ve ne siete accorti? Sembra facile, ma dopo due anni smette di esserlo e diventa una sfida a tutti gli effetti. Quindi girano sul web ho trovato questa immagine caruccia che raffigura zucche gialle-arancio e l’ho trovata decisamente bella. Da lì a decidere che la potevo utilizzare per uno dei miei post è passato mezzo nanosecondo. Da lì a trovare il titolo altro mezzo nanosecondo (usando zero fantasia, ovviamente). Da lì a decidere cosa diavolo avrei potuto dire riguardo le zucche… ebbé… ci sto mettendo più del previsto. 

Le zucche – in generale – mi piacciono, sia da guardare che da mangiare (in diverse ricette), le trovo piuttosto dignitose nel loro mostrarsi e offrirsi a noi, trovo pertanto inaccettabile lo scempio che ne viene fatto ad Halloween. Ok, mi è stato fatto presente che quel tipo di zucche non si mangiano, va bene. Non le mangiamo noi, ma magari vengono mangiate da altri Esseri Viventi, no? Comunque sia, prendere una zucca e ritagliarla non mi pare giusto. 

Sorprendente come un pensiero inutile come questo possa sgorgare limpido dalla tastiera quando ti trovi in una situazione di scrittura obbligata. Sorprendente come io abbia trovato il coraggio di scriverlo e come io abbia il coraggio di ritenerlo meritevole di pubblicazione. Sorprendente come io adesso troverò il modo di renderlo comunque utile… siete curiosi?

Eccomi al punto: non sai mai cosa il tuo cervello è capace di fare se non lo metti un po’ sotto stress obbligandolo a fare. Puoi pensare in un miliardo di direzioni diverse, ma ricavarne un niente infiocchettato da belle giustificazioni. Invece, quando gli si impone una sola via da percorrere, è obbligato a inventarsi qualcosa. Qualcosa di stupido, forse, ma è pur sempre qualcosa. Se si aspetta di concentrarsi su qualcosa di veramente intelligente si finisce con l’aspettare per sempre. Non c’è nessuna garanzia che il pensiero intelligente arriverà, prima o poi, o che sia proprio quello su cui ci stiamo focalizzando – magari nel concreto diventerà una abnorme idiozia. Non lo possiamo sapere finché non lo concretizziamo, e di lì si deve passare che lo vogliamo o meno. Quindi: pensare blandamente in loop senza costringersi in qualche modo a quagliare è e rimarrà sempre un’enorme perdita di tempo e di energie. A forza di pensare e basta la vita passa e basta. Tirare fuori dalle zucche anche soltanto cinque righe è meglio che pensare alle zucche senza tirarne fuori nulla. 

Così si scrive: provando, azzardando, buttando nel cestino. A volte va bene quello che esce, altre no neppure se le riscrivi 1000 volte. Ma scrivere non è un divertimento, è un impegno. Divertente per alcuni – per me lo è – ma pur sempre un impegno. 

Evviva le zucche!!!

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(495) Trespolo

Stai sul trespolo e aspetti. Non sai neppure tu che cosa stai aspettando, ma intanto, aspettando, ti guardi un po’ in giro e ti riposi. Catturi situazioni che potrebbero esserti utili prima o poi, non ne sei sicura, ma intanto che sei lì incameri tutto quello che puoi. La memoria si occuperà di buttare quello che non ti serve, lasciala fare.

Osservare è il presupposto principe per garantirti la sopravvivenza. Osservare non è un’occupazione così tanto per far passare il tempo, è una missione. Non una mission impossible, bensì una molto possible. Io, che ho ben poche qualità da 007, riesco però a osservare anche quando sono sovrappensiero. Una parte di me, registra le cose e soprattutto i suoni, gli odori, i colori, i sapori. Come se i miei sensi viaggiassero in autonomia e si smazzassero il grosso del lavoro per me. Quando scrivo le cose escono – sembra magicamente – e mi stupisco di quanto siano dettagliate. 

Il mio trespolo è comodo, ma a volte ho bisogno di farmi un voletto attorno, così tanto per cambiare prospettiva, perché vedere le cose dall’alto è spettacolare e concedermi un po’ d’aria fresca mi ristabilizza l’umore.

Osservo e rifletto. Non troppo scientificamente come fa Sherlock Holmes, ovviamente, ma lo studio che mi sono imposta in questi anni mi ha permesso di costruirmi una certa mappa emotiva che risulta alla luce dei fatti piuttosto affidabile. La riflessione parte sempre da un punto di vista soggettivo – il mio, ovvio – ma ho imparato a spingerlo oltre, con l’intenzione di raggiungere soggettività anche lontane dalla mia. Una bella sfida, a volte stordente, ma utile.

Mi viene difficile osservare me stessa dall’esterno, ancora dopo tutti questi anni, mi stanco facilmente, il resto del mondo è ben più interessante di me. Dovrei farlo di più, forse, perché capirei un po’ meglio le reazioni che il resto del mondo ha nei miei confronti, ma – come dicevo – non mi è facile, mi annoio alla vista di me stessa. Ci sarà un escamotage capace di aiutare questo processo?

Mi metterò alla ricerca.

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(455) Eremo

Non ci resisterei troppo, al massimo sei mesi secondo me. Sarebbe un modo per disintossicarmi da 45 anni di mondo, non un abbracciare la solitudine totale per finire lì i miei giorni. 

Do per scontato che avrei un sacco di scazzi durante i sei mesi, per quanto io possa bastare a me stessa in fatto di immaginazione fantastica (e anche meno fantastisca) con un sacco di storie da scrivere e da costruire – non è che me ne starei con le mani in mano e roba del genere- non sarebbe una condizione naturale, anche se sono in origine un’introversa viscerale. La voglia/bisogno di sentire la voce delle persone che amo, la tentazione di sbirciare su facebook e via così, no non sarebbe un’avventura facile però, sicuramente, realizzerei una sorta di desiderio egoistico all’ennesima: farmi i fatti miei a dispetto del mondo intero.

Detto questo, so bene che non lo farò mai. L’Eremo è una di quelle condizioni che non realizzerò, perché sicuramente il realizzarla la renderebbe odiosa. Ciononostante, quella condizione di solitudine cerco di attuarla ogni volta che mi si presenta l’occasione e se l’occasione non mi si presenta (in certi periodi è un delirio) allora me la cerco e la strappo via a morsi dal quotidiano che mi macina.

Ho un piccolo Eremo dentro di me, molto basic, niente di chic, piuttosto freddino, niente comodità, silenzioso quel tanto che basta e accessibile solo a me. Ce l’ho, lo frequento spesso, direi ogni giorno a piccole dosi. Non sono quella delle meditazioni, non ne sono capace e mi piacerebbe tanto, ma quella delle fughe di silenzio random. Quelle mi vengono benissimo, sono una specialista.

Non sto a dire che può bastare per elevare lo Spirito, ma il mio Spirito ha compassione di me e sopporta questi stupidi escamotage che metto in atto per evitare l’esaurimento. Mi sostiene con la speranza che prima o poi mi ci metterò d’impegno e lo curerò come e quanto merita. Ora non ne ho le forze, e per quanto mi dispiaccia essere come sono, penso sempre che da qualche parte si debba pur iniziare e essere una specialista delle fughe di silenzio nel mio piccolo Eremo interiore non sia poi così male come inizio.

Spero.

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(365) Trecentosessantacinque

365: i *Giorni Così* che ho scritto, i giorni che ho vissuto, i giorni che sono passati da quel 28 settembre 2016 in cui ho voluto iniziare questa piccola cosa senza senso. Fa impressione, no?

Devo ammettere che non è la prima cosa senza senso che ho fatto, e che le precedenti son durate parecchio, però questa ha un elemento che la rende inaccessibile a qualsiasi altro genio volesse farmi concorrenza: è completamente e assolutamente inutile. Non solo: non viene minimamente pubblicizzata né da me né da alcuno. Provate a fare di meglio se ci riuscite!

La confessione scoop che oggi voglio offrire a chi si fermasse qui per festeggiare è che *Giorni Così* è il mio egoistico modo per tenere traccia di me. Lo faccio già sul cartaceo, è vero, ma lì le cose diventano più psicoanalisi da lettino: dico cosa ho fatto durante la giornata, dico cosa mi ha fatto girare le palle, dico cosa mi propongo di fare il giorno seguente. Una noia da guinness dei primati. Invece, qui sul diario virtuale, mi impongo di parlare d’altro. Parlare di tutto quello di cui di solito non voglio parlare perché mi sembra che sia ovvio, visto che lo penso.

Ho scoperto che quello che penso non è ovvio neppure per me stessa. Una scoperta sconvolgente e nel contempo affascinante, ve lo assicuro. Significa che finché non lo scrivo non so che lo sto pensando. Il che la dice lunga sulla mia presenza mentale in questa dimensione terrestre, ma anche su un altro aspetto della mia persona che viene spesso giudicata malamente.

Mi spiego: quando parto per la tangente e mi infervoro su un concetto, la gente spesso si infastidisce, o si spaventa, perché pensa che io mi voglia mettere in cattedra per fare lezione. Ergo, la gente mi pensa una presuntuosa-a-tratti-arrogante che crede di avere la verità in mano e vuole imporla al resto del mondo. Non dico che non sia così, perlamordelcielo, dico solo che ragionando ad alta voce il pensiero prende una forma che riesco a vedere, che riesco a riconoscere, che riesco a tenere in mano per rigirarmelo per bene e capire un po’ di più. Più trovo davanti a me contrapposizione di veduta e più il pensiero è stimolato a farsi solido, a farsi specifico, a farsi spesso anche ingombrante. E io capisco meglio. Da lì inizio un percorso a ritroso, molto intimo, in cui mi faccio domande pungenti e imbarazzanti (Perché la pensi così? Perché t’incazzi così? Perché parli troppo? E via dicendo… ) e vengo a capo un po’ del mistero che sono.

Ecco, questa cosa qui non ho mai avuto la possibilità di dirla a nessuno. Nessuno me l’ha mai chiesto e nessuno ha mai pensato che al di là di ciò che si vede e si sente può esserci una me piuttosto diversa. Piuttosto in bilico, piuttosto in ricerca, piuttosto vulnerabile. E non è che sia così importante che nessuno se lo chieda, diventa invece di vitale importanza per me perché io ho il dovere di chiedermelo e di non scappare davanti alla risposta. Le risposte che riproducono la realtà delle cose, fanno risultare il mistero che sono meno mostruoso. Più umano. Non per gli altri, no, ma per me stessa sì.

Buon primo anniversario *Giorni Così*!!!

 

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(285) Beccare

Qua e là. Ho fatto così nella mia vita, ho trovato cibo neuronale (non troppo, mai troppo, scherziamo?) un po’ qua e un po’ là e finché mi nutriva ho continuato a beccare. Quando non ce n’era più, o non mi interessava più, cambiavo il qua e anche il là.

La Cultura (con C maiuscola) è altro, me ne rendo conto, ma nutrirsi di quel che c’è (anche augurandosi di meglio e quindi cercando di meglio) è stato il mio modo di crescere… se non in Cultura, in consapevolezza. Per quello che è il mondo, per come è il mondo, per quanto il mondo offre e toglie.

C’è ancora molto da beccare, per me, e non so se mi basterà una vita, ma sono sicura che finché terrò stretta questa filosofia avrò una possibilità di accrescere in consapevolezza. Della Cultura me ne occuperò nella prossima esistenza, mica posso fare tutto e tutto insieme!

 

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(244) Quadro

Avere il quadro della situazione non è cosa ovvia né immediata. Mi ci vuole tempo. Anche troppo, spesso. Probabilmente non sono così arguta come dovrei, oppure sono troppo pedante riguardo i dettagli e mi ci perdo.

Dipingere un quadro non è cosa da un giorno, i quadri migliori sono il risultato di ore e ore di lavoro-energia-tormentonellaricerca. Faccio così anch’io quando una situazione ha bisogno di essere analizzata per farsi capire: ore e ore di energia-tormento-lavoro. Ne vale la pena.

Appena il quadro si può dire completato lo si fa asciugare. Si sceglie una cornice e lo si appende a una parete: eccola lì la situazione, decidi tu se tenerla o buttarla. Io non butto via, metto da parte.

Devo trovare il modo di alleggerire le mie pareti. La confusione non mi aiuta a pensare.

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(197) Armonia

Una ricerca incessante, paziente, che non è mai sazia senza per questo rivelarsi avida. Soltanto imprescindibile.

Inarrestabile, una forza inarrestabile. In ogni cosa che faccio, sempre. Anche mio malgrado, anche quando potrei chiudere un occhio, anche quando mi crea un sacco di fastidi, anche quando ci rimetto, anche quando sono stanca e vorrei solo dormire e fregarmene di tutto. Anche quando non ce ne sarebbe bisogno perché nessuno se ne accorgerebbe mai… 

Spesso l’armonia è la parte solida di quel che sono, non perché io la possegga (la mia ricerca è prettamente egoistica), ma perché è lei a possedere me e non c’è trattativa in questo. Più la cerco e più lei mi sfugge, pur tenendomi per il bavero. Una situazione grottesca, lo ammetto.

Eppure, quando per un istante la sfioro e lei mi sorride… vale tutto. Tutto.

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(180) Totem

La discesa è necessaria. Non è una scelta, è inevitabile. Discendere. Prendere posto dentro di te, in silenzio. Periodicamente discendere per prepararsi a un nuovo parto di se stessi.

Lo dico così perché non so dirlo meglio. Dirlo così mi basta – senza pretese di essere capita. Capita da chi, poi? Non è importante. Tanto discenderò lo stesso e lo farò in silenzio, come faccio sempre. Funziona.

L’Orso mi accompagnerà. Non sarò sola.

A questo proposito posso affermare con serenità che questa cosa di me non la cambierei mai, neppure se cambiandola riuscissi a guadagnarmi l’amore di qualcuno. Non sarebbe amore destinato a me. Ormai so riconoscere l’amore, quello che è tuo non lo perdi neppure a volerlo.

Quindi discenderò.

In silenzio.

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(134) Passione

In questi giorni mi ritrovo di nuovo a confrontarmi con aule piene di ragazzi della scuola superiore. Un’esperienza che non finisce mai di stupirmi, ho desiderato farlo per molto tempo ed è uno di quei desideri rischiosi che vale la pena concretizzare. Sono assolutamente grata per quello che sto vivendo (che si va ad aggiungere all’esperienza triennale in un liceo della mia zona che si è conclusa da poco).

Questa la premessa, ora veniamo al sodo: sono lì davanti a loro (chi incuriosito, chi infastidito, chi indifferente alla mia presenza) per parlare delle mie passioni (la lettura, la scrittura, la comunicazione, la creatività) scrutando i loro visi per capire se quello che sto dicendo va a segno oppure no.

In alcuni ragazzi sì, in altri no. Com’è ovvio che sia.

La cosa, però, che mi turba è che passione per loro è sinonimo di mi piace. Sono davvero pochissimi i ragazzi che sanno cosa vuol dire appassionarsi a qualcosa tanto da trovarci dentro la felicità. Io vorrei fosse ovvio per tutti, è assolutamente utopistico – me ne rendo conto – eppure non demordo. Parto sempre dal significato di passione per raccontare la mia storia e far arrivare a loro il messaggio: se non ce l’hai ancora una passione, è arrivato il momento di metterti alla ricerca, con il cuore aperto pronto ad abbracciare un pezzetto di felicità.

Sorridono, tutti, quando lo dico. Come se volessero davvero crederci, ma non ci riescono. Rimangono scettici. Un dubbio, però, rimane loro appiccicato addosso ed è lì che inizia il mio lavoro.

Sono pronta.

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(67) Nome

Ho fatto pace con il mio nome. Me ne sono accorta oggi: 4 dicembre = Santa Barbara. No, non perché io mi senta una santa (anche se a volte la mia pazienza mi sorprende, scherzo!) forse soltanto perché ormai è un nome che mi rappresenta.

Ho imparato a conoscerlo, a comprenderlo, a farlo mio. Credo che sia anche merito suo se sono così oggi. Voglio dire: straniera. Essere straniera è una condizione profondamente interessante: lo sei prima di tutto nei confronti di te stessa perciò ti conviene tenerti d’occhio per capire chi sei.

Un insegnamento importante, questo, perché guardi gli altri come “ovviamente stranieri” (se lo sei tu stessa nei tuoi stessi confronti, figurati gli altri) e presti loro più attenzione perché sai che l’attenzione che ti imponi ti aiuterà a conoscere mondi che potrebbero esserti alieni per sempre se non ti ci metti d’impegno.

Un’altra cosa importante: dai per scontato che tu agli altri risulti straniera (se lo sei tu stessa nei tuoi stessi confronti, figurati come gli altri possono “sentirti”) e porti pazienza quando sei guardata con evidente sospetto, magari sei oggetto di rifiuto o fastidio o sei vittima di pregiudizi/preconcetti.

Barbara è solo questo e tutto questo: straniera. Che può essere letto come “strana” e come “estranea”.

Da come mi guardi mi guardi, resterò esattamente così: estranea, strana, straniera. Credo sia consolante, dopottutto. Azzarderei un “rassicurante”. Almeno sai cosa ti aspetta.

Devo questo nome a mio padre, al suo essere stato un artigliere, un alpino. E quando mi è stato imposto (durante le lezioni di stenografia) di venire a patti col mio nome, non mi rendevo conto di quale lezione fondamentale mi venisse chiesto di imparare. Ci ho messo un po’ di tempo, ma non sono mai veloce nell’imparare le lezioni, purtroppo.

Però, una volta che l’ho imparata non la dimentico più. Una volta che l’ho imparata è mia e la posso anche condividere.

Credo che iniziare dal proprio nome sia un bel modo per avvicinarsi a noi stessi.

Parola di straniera.

b__

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(58) Positivo

Va tutto bene? Positivo.

Che non è una risposta politica, non è una risposta comoda, non è una risposta con il sorriso sulle labbra. E’ semplicemente l’unica risposta possibile.

Se ci soffermiamo sui dettagli si offusca il concetto. I dettagli sono sempre troppi e sono per lo più inutili, fanno zavorra. Noi stiamo lì a contarli e ricontarli e loro non fanno altro che aumentare non solo di numero ma anche di portata.

Va tutto bene? Positivo.

Perché è così, il positivo non lo si trova nella perfezione, lo si estrae dalla realtà e lo sappiamo bene che la realtà è bastarda. Non fa mai quello che vogliamo noi. Cerchiamo di far combaciare il nostro ideale, che abbiamo alimentato con l’immaginazione e ostinatamente contro corrente per decadi, con ciò che possiamo tenere in mano.

Eppure nutrire un ideale mi sembrava un gesto positivo.

Mi sono persa tra i pensieri perdendo il filo. E’ positivo, erano solo dettagli da nulla. Fuori piove, io sono al sicuro, al caldo, con chi amo.

Va tutto bene? Sì. Positivo. Dannatamente positivo.

b__

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