(383) Piega

Fare una piega dove è necessario è una delle regole d’oro per far avanzare le cose. Se lo fai, se ci riesci, devi scordartelo subito, devi far finta che tutto vada esattamente come volevi tu e non pensarci più, mai più.

Se non ce la fai, se continui a recriminare, se ritiri fuori la questione ogni tre per due – dimostrando palesemente che non l’hai mica digerita – evita di farlo. Evita. Non puoi continuare a sbattere in faccia a tutti il fatto che tu ti sei fatto andare bene qualcosa che in realtà non ti andava bene. La vita va avanti e tu t’imponi di rimanertene inchiodato lì. Rpeto: se non ce la fai, evita di farlo. Amen.

Negli anni ho accettato il fatto che ci sono cose che non riesco a fare. Non sono affatto d’accordo con chi dice che bisogna sempre superare i propri limiti, penso che ci siano dei limiti che non debbano per forza essere valicati bensì intelligentemente gestiti. So, per esempio, che ci sono cose su cui per me fare una piega è assolutamente fuori questione (tradimenti di ogni tipo, cattiveria, mancanza di rispetto e via dicendo), non posso fare finta di niente, non posso passarci sopra – se non con un TIR – è così e basta. Lo so, dovrei essere più flessibile in quanto tolleranza e sopportazione, ma non lo sono. Non lo sono e non faccio nulla per migliorare, mi tengo così come sono. Amen.

Tutto questo bla-bla-bla per arrivare al punto: posso fare una piega su moltissime cose, ma proprio moltissime. Talmente tante che a fare una lista non basterebbe un anno, talmente tante che si potrebbe sviscerare il concetto di tolleranza e di sopportazione, di pazienza e di comprensione per il resto della mia limitata esistenza. Una cosa devo aggiungere, però, per onestà intellettuale: tutte queste cose su cui posso fare una piega non sono cose importanti. Sono dettagli, sono un contorno che puoi lasciare nel piatto, sono sfumature che in un attimo scompaiono, sono niente. Posso fare una piega su una moltitudine di niente e per questo sentirmi benissimo. Ma proprio benissimo.

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(382) Varie

… et eventuali.

Non nascondo che certe volte mi siedo qui, davanti alla mia tastiera consumata dai polpastrelli, pronta per scrivere e mi blocco. Faccio fatica a decidere l’argomento. Il titolo di questi post non è scelto alla selvaggia, c’è una logica di finto disordine alla quale sottostanno – a volte malvolentieri – e questo mi impone un certo rigore nel trovare qualcosa di blandamente intelligente da buttar giù anche quando parto dal niente.

Se parti dal niente e un’idea compare non devi far altro che seguirla. La osservi mentre si espande e mentre la traduci in parole ne ammiri la forma. Anche quando è bislacca o addirittura brutta, non sei nelle condizioni di ragionarla con obiettività quindi conviene evitare la zona giudizio e pubblicarla.

Un salto nel vuoto senza paracadute? No, non esattamente. Se non mi fossero spuntate le piume sulle ali non mi ci metterei neppure. Ho due alette da pollo, niente di che, non faccio voli lunghi né raggiungo quote impressionanti, ma due/tre metri li faccio. Comunque, saltando dal trespolo dell’aia attutisco la botta dell’atterraggio senza colpo ferire.

Se parti, invece, dal troppo – quindi troppe cose da dire – anziché farsi più facile si fa ben più spinosa la situazione. Tutto sembra urgente, tutto preme per uscire in contemporanea e permetterlo sarebbe un suicidio inutile quindi si va per esclusione. Il titolo s’impone. Regole che ho fatto io e, per quanto me ne possa pentire ogni sacrosanto giorno, le regole non si cambiano in corso d’opera. Non si fa e basta.

Scegliendo il titolo Varie, ho cercato di fare una furbata, non credo mi riuscirà tirare fuori qualcosa di decente. Un argomento troppo vasto ti boicotta la focalizzazione. Io funziono per focalizzazione, le cose vaghe mi mettono a disagio. Amo le parole per questo, definiscono e circoscrivono, quindi mi tranquillizzano.

Credo che la vastità sia cosa ingestibile per un Essere Umano. La Natura può, noi no. Dovremmo affidarci a Lei di più, noi limitiamo ciò che non dev’essere limitato soltanto perché non sappiamo gestirlo. Siamo patetici. Piuttosto di ammettere la nostra finitezza costruiamo muri e confini per spezzettare il disegno che ci contiene. Poveri noi.

Tutto questo mi riporta a un’origine lontana, lontanissima, dove varie cose si sono sistemate per permetterci di far parte del Tutto, dandoci il beneficio del dubbio. Non ci siamo meritati nulla, sia ben chiaro. Stiamo abusando del beneficio e la nostra arroganza è cresciuta smisuratamente. Abbiamo varcato ogni confine del buonsenso, abbiamo calpestato ogni dono riducendolo in polvere. (…)

Mai più titoli aperti. Mannaggia a me.

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(381) Incubatrice

Il mio cervello – ma penso quello di tutti – è un’affascinante incubatrice. Anche se non me ne accorgo, le idee che nascono senza sosta vengono supportate da quel nutrimento costante e termoregolazione adeguata che permettono loro di crescere e svilupparsi. Le idee meno forti non ce la fanno. Quelle, però, che anche se graciline perché nate premature hanno in sé tenacia e visione lunga, quelle sopravvivono. E poi sono cavoli miei.

Le idee non nascono per rendermi la vita facile, mai. Sono lì proprio per farmi vedere i sorci verdi, ma mi prendo la responsabilità di questo: se anelassi a una vita priva di mordente le ignorerei bellamente, non lo faccio mai – masochismo? Bah! – ma lo fa un buon 50% della popolazione mondiale, mentre il restante 50% è come me. Credo che in questo nostro 50% ci sia chi riesce a farle fruttare bene e chi, invece, boccheggia – io sono tra questi – ma è importante provarci. Non perché si voglia salvare il mondo dai lobotomizzati – perlamordelcielono – soltanto per non vivere da zecche.

Ritornando al tema di oggi, la questione che il nostro cervello sia una bella incubatrice di potenziali elettrizzanti salti quantici me lo fa apprezzare ancora di più. Me lo fa studiare con più interesse. Me lo fa maneggiare con più cura. Tutto parte da lì, da lui e da quello che lui sa fare di noi, minimizzare il suo potere è giocare contro di noi. Stupido e letale.

Fatto sta che se lo dico a un lobotomizzato quello mi ride in faccia. Io non glielo dico, ma userò la mia piccola e umile incubatrice per farlo ridere di meno e renderlo potenzialmente meno dannoso. Come? Non lo so, ci sono un paio di piccole e delicate idee che stanno lottando per sopravvivere e so che il mio cervello le sta accudendo per permettere loro di crescere. Tempo al tempo.

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(380) Finzione

Quando creo una storia simulo situazioni e quindi racconto ciò che non è accaduto, ma che accade solamente nella storia che sto raccontando. La finzione all’interno della mia storia non esiste, tutto è reale. Realmente accaduto esattamente lì dentro.

Come sono rigorosa nel mio creare una storia, così lo sono nel creare la mia realtà. Non c’è finzione, è tutto vero.

Non la definirei una scelta, piuttosto una condizione naturale. Non so fare in altro modo e se scelgo una modalità diversa mi costa troppa fatica, troppi pensieri, troppi disagi. Crolla la coerenza, crolla la verosimiglianza, crollo io.

Simulare, se lo si fa bene, può cambiare la realtà in cui viviamo. Ovviamente l’intento non dev’essere l’inganno, non deve avere come scopo danneggiare qualcuno o qualcosa, la purezza dell’azione determina il risultato. Sto dicendo che ci sono persone che partendo da una situazione di estrema difficoltà hanno saputo crearsi un ambiente mentale talmente forte, talmente vero, che specchiandosi in una realtà mediocre l’hanno convinta a modificare i propri contorni… da lì la finzione ha preso il largo ed è diventata l’unica realtà disponibile.

Possiamo chiamarlo il potere della mente, possiamo chiamarlo la grande illusione o possiamo – meglio – non chiamarlo affatto, tanto l’evento accade continuamente anche a nostra insaputa.

La finzione di cui parlo è quella che ci permette di costruire anziché distruggere. È l’unica possibile, per me. L’unica che può farsi perdonare qualsiasi cosa.

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(379) Houdini

Una cosa che mi fa tremare ogni volta che succede è la sparizione. Quel stramaledetto prima c’è e un secondo dopo non c’è più. Ci sono milioni di cose in una giornata che spariscono davanti ai miei occhi, continuamente, a volte ricompaiono e molte altre no. Vorrei che ricomparissero soltanto le cose belle, ma è ovvio che quelle sono le prime ad andarsene senza lasciare traccia appena mi distraggo un po’. Quelle brutte ritornano, spesso per restare.

Mi rendo conto che può sembrare una sciocchezza per chi non ci fa caso, per chi non ne fa una tragedia, per chi non viene toccato troppo in profondità. Me ne rendo conto e non sto dicendo che dovrebbe farlo, tutt’altro. Mi domando, invece, perché io non riesca a farlo. Non riesco a scivolarci sopra serenamente. Lo so che le sparizioni sono parte della vita eppure non riesco a capacitarmene.

Prima ci sei e poi non ci sei più. Senza preavviso, senza salutare. Ci sei e poi non ci sei più. E io che rimango, rimango vuota.

Dentro di me ci sta parecchia roba – il segreto è tenere in ordine le cose e il posto si moltiplica – e quella roba incastrata, come l’ho incastrata per farcela stare, occupa uno spazio e contemporaneamente obbliga le altre robe a starsene nel loro e a non muoversi. Togli un pezzo e crolla tutto. Quindi a ogni sparizione il mio spazio interiore subisce uno smottamento importante che ribalta l’ordine a favore del caos. Ci metto una vita a risistemare tutto e, comunque, quel vuoto permane anche quando altra roba lo occupa.

La cosa peggiore? Penso che sia colpa mia. F**k!

 

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(378) Carote

Non immaginavo che carota avesse tanti sinonimi e addirittura in diversi ambiti:

carota /ka’rɔta/ [lat. tardo carōta, dal gr. karōtón]. – ■ s. f. 1. (bot.) [radice ingrossata della pianta omonima] ≈ Ⓖ (region.) pastinaca, Ⓖ (region.) radica gialla. ● Espressioni: fig., pel di carota [persona dai capelli rossi] ≈ fulvo, (region.) roscio, rosso. 2. (fig., pop.) [affermazione non vera] ≈ bugia, fandonia, frottola. 3. (geol.) [cilindro di roccia o di terreno estratto dal sottosuolo] ≈ campione, saggio, sezione. ‖ tasto. ■ agg. invar. [di colore rosso arancio] ≈ (non com.) aranciato, arancione. ‖ giallo.

Questo è uno dei tanti casi in cui benedico la mia curiosità. Una questione che ha a che vedere con la serendipità – tanto per fare un esempio – e che mi permette di scoprire. Tonnellate di cose inutili, è vero, ma tra tutte ci sono quelle che mi fanno fare un giro e mezzo torcendomi i pensieri. Non è cosa da sottovalutare.

Sapere che una carota non è solo quella che mi mangio sentendomi Bugs Bunny, ma è anche una bugia… bè… mangiarsi una bugia non è cosa da poco, no? Se ingoi, invece, un campione di roccia è tutta un’altra faccenda, giusto? Ok, sembra idiota, ma andiamo oltre alle parole, rendiamole vive, estraiamo dalle parole che conosciamo i significati che abbiamo sempre ignorato e riporteremo a galla anche pezzetti di noi che ci eravamo persi per strada.

Amo la mia lingua, amo tutte le lingue del mondo, anche quelle che si sono smaterializzate nel tempo portandosi dietro mondi difficilmente duplicabili. Le parole sono delle traduzioni, soltanto traduzioni dei pensieri, ma a volte possono essere così intense, piene, belle… da farci ammutolire. Scrivere una parola e darle voce sono due azioni che vivono autonome, ma quando si sposano rafforzano l’impatto e acquistano densità.

Tutte le carote che mi sono mangiata durante la mia vita non sono tutte frutto della terra, e dalla terra non è mai uscita una bugia che mi abbia ferito come succede troppo spesso dalla bocca degli uomini. Le parole nutrono, le parole uccidono. Le carote fanno bene alla vista, ma solo quelle che mangia Bugs Bunny.

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(377) Yoga

Ammiro sinceramente chi abbraccia questa splendida disciplina. Li guardo come un marziano può guardare con nostalgica tenerezza il suo pianeta che non rivedrà più. Come se in un’altra vita io fossi stata non solo una Yogi, ma  Patañjali in persona. Sento profondamente un legame che per quanto prima fosse forte è destinato a non ripristinarsi mai più.

Lo dico con un certo rimpianto, ma senza dannarmi l’anima. Fingere non mi piace, mi costa fatica.

Il mio cervello corre come un pazzo, fa niente se dormo o sono sveglia, lui corre e basta. Quand’ero adolescente cercavo di acchiappare al volo più pensieri che potevo per esternarli più che potevo. Non stavo zitta un attimo. Ho rischiato il linciaggio più di una volta, eppure non ho mai avuto un calo di voce, neppure nei momenti in cui mi devastava la febbre influenzale.

Mi succede ancora, ci sono delle giornate in cui i pensieri arrivano tutti insieme e vogliono uscire dalla mia bocca e se sono soltanto un po’ stanca e non mantengo la guardia alta rischio la vita. Col tempo i pensieri si sono affinati, il sarcasmo si è ridotto ma l’ironia ha preso forme pungenti che non sempre vengono accolte con piacere dal pubblico a cui mi rivolgo.

In tutto questo – anche se si potrebbe pensare che sono uscita dal seminato, non è così – so che la pratica dello Yoga potrebbe essermi utile – placare la mente – eppure la mia mente le pensa tutte per tenermici lontana. Non lo so, accade sempre qualcosa che mi spinge via, qualcosa che mi fa scegliere un altro modo per rafforzare il marasma di pensieri anziché affidarmi alla pace, al Nirvana.

Born to run. Non c’è dubbio.

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(376) Radiografia

Bisognerebbe guardarsi dentro di più. L’ho sempre pensato, ma arrivata a questa età sto facendo una cernita delle persone che ho incontrato per valutare la validità della mia affermazione. Trovo uno scollamento pazzesco tra la teoria e la realtà, e questa cosa mi deprime.

Partiamo dal presupposto che guardarsi dentro sia una buona regola per mantenere i contatti con se stessi. Diamo anche per scontato che farlo continuamente, in modo ossessivo, diventa patologicamente dannoso (= esistono anche gli altri). La sana via di mezzo dovrebbe essere quella più trafficata, ma così non è.

Un fatto evidente è che chi si guarda davvero dentro perde, a poco a poco, quintalate di leggerezza e gaiezza. Come se quello che vedono portasse via pezzi sostanziosi di ottimismo e di positività. Aspettative troppo alte che si frantumano al suolo o scontentezza atavica per essere soltanto Umani? Vallo a capire.

Per esperienza personale, scendendo di livello – gradino dopo gradino – dentro la mia psiche che è collegata alla mia anima – il più delle volte, anche se non sempre – ho rischiato di spaccarmi le ossa. Ci ho rimesso la felicità, temo. Assurdamente parlando lo rifarei, assurdamente parlando lo continuo a fare quotidianamente, assurdamente parlando lo farò finché campo.

Non sto dicendo che sono un esempio da seguire, tutt’altro. Sto affermando qui e ora che la felicità dell’inconsapevolezza è una benedizione. Se ce l’hai tientela stretta e cerca di contagiare chiunque ti sia vicino. Un consiglio inutile, ma posso fare questo per mettere in guardia chi passa di qui. Ci tengo alla felicità degli altri, mi ricordano un po’ com’era la mia. Eh!

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(375) Lisergico

Rifuggo per natura tutto quello che chimicamente può spingere oltre le mie sinapsi. Ho sempre avuto la sensazione che basterebbe una spinta un po’ più forte e per me non ci sarebbe ritorno. Credo anche che rientrare in una realtà/gabbia dopo che ti sei fatto un bel volo sia il modo migliore per non voler più ritornare in quella gabbia. In poche parole: accetto la mia condizione e cerco di fare tutto quello che posso per non morire soffocata. Per esempio, scrivo.

Non giudico chi vola al di là di se stesso usando metodi pericolosi, penso soltanto che non ne valga la pena. La vita reale non fa schifo, a meno che tu non voglia solo vederla e viverla nei suoi momenti peggiori.

Ho fatto scelte diverse da molti miei coetanei, né migliori né peggiori, e nel bene e nel male mi posso prendere tranquillamente tutte le responsabilità del caso. Ero in me, non ho giustificazioni. Ero in me, non ho meriti pazzeschi. Ero in me e ho sperato che bastasse. Molte volte non è bastato, essere me non è il modo migliore per raggiungere risultati esorbitanti. Essere Einstein sicuramente sì.

Tutto questo pensiero grottesco m’è uscito da non so dove, forse da un commento che spesso ho colto di qua e di là riguardo a quanto faccia bene questo e quanto faccia male invece quello (marijuana vs alcool) e io non so mai se posso dire quello che penso oppure no, perché ogni volta che estrinseco il mio modesto pensiero qualcuno si incazza e mi dice che sono una bacchettona. E a me la marija mi fa vomitare e la grappa mi fa sputare i polmoni, non ci posso fare niente.

Mi domando, però, perché se sono in una stanza – sobria tra ubriachi – devo essere io quella che si scusa. Sicuramente sono io quella che se ne va. Ma senza rancore, solo un po’ perplessa su come le cose si ribaltino in fretta e io riesca a finire sempre con il culo per terra.

C’est la vie.

 

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(374) Tattoo

Farsi attraversare dal dolore non perché accidentale – e quindi inevitabile – ma perché volontario. Un dolore che vuoi, che ti sei cercato, si assorbe con una rapidità impressionante. Come se non dovesse lasciare tracce, anche se la lascia, anche se la traccia è più visibile delle altre, anche se la traccia ti ha cambiato – inevitabilmente.

La cosa più insopportabile è cadere dentro un dolore che non ti immaginavi volesse proprio te. Ti viene da chiedergli: ma che cosa ti ho fatto? Perché io?

Ogni tanto l’occhio mi cade sui tatuaggi che ormai sono la mia pelle da tanto tempo e non ricordo il dolore, ricordo il perché del dolore. Ricordo il perché di quei segni, ricordo il come e il quando. Di solito il dolore che ti arriva all’improvviso non si porta appresso un motivo e se il motivo lo trovi a posteriori è soltanto per giustificarlo, per renderlo meno inutile.

L’inutilità dei segni che il dolore ti lascia – e del dolore stesso – è un’altra cosa insopportabile. Si può passare tutta una vita a cercare i motivi dei segni che non volevi, che non ti sei cercato, che non vorresti e che non augureresti a nessuno, senza trovarli.

Oggi per me un nuovo tatuaggio che, anziché un dolore, segna un sollievo. Quasi una rinascita, anzi migliore perché non poggia sulle ceneri ma è radicata alla terra con solida tenacia. Tutto questo di certo non ha senso per il resto del mondo, e non mi dispiace. Dieci anni sono abbastanza per chiunque, dieci anni possono bastare per altre dieci vite. Capire il dolore non è affatto necessario, spesso è meglio trovare il modo di farlo scivolare via. Bisognerebbe saperlo fare, ma io non ne sono capace. Di questo mi dispiace. Davvero.

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(373) Mentore

La fortuna più grande è poter incontrare sulla tua strada un Maestro. Siamo d’accordo, chiunque incontri ti può insegnare qualcosa, ma la Visione di un Maestro può salvarti la vita.

A me è successo.

Forse è successo perché lo desideravo più di ogni altra cosa al mondo, avevo bisogno di una luce che mi facesse indovinare un sentiero, un luogo aperto e sconfinato dove il vento ti si oppone solo quel tanto che serve per testare la tua capacità di essere – nonostante – e resistere – nonostante. Forse è successo perché c’era una sorta di consapevolezza in qualche cellula urlante del mio corpo che non mi faceva stare in pace. Forse è successo perché da sola non avrei potuto fare ed era scritto che l’avrei trovato e che avrei saputo riconoscerlo e seguirlo e magari raggiungerlo, anche solo per un sorriso e un grazie.

Il fatto è che da quell’incontro ho iniziato a mutare forma interiore e si sono fatti vivi bisogni che pensavo fossero solo bizzarri e ridicoli fastidi. Non lo erano. E non so se ringraziare o maledire il mio DNA, perché non è ancora finita.

La cosa certa è che quando incontri un Maestro e te lo sai dichiarare, quando lo sai far fermare e lo sai ascoltare e poi lui prosegue – senza di te – sei meno fragile anche se sei la stessa. Vale la pena patire, per ogni grano di conoscenza che raccogli.

Non ho mai abbandonato il mio Maestro, lo seguo senza occhi e senza passi, lo sento senza bisogno della sua voce. Eppure, quando ritorna presente e i suoi pensieri mi si poggiano davanti come gradini da salire, non ho mai dubbi, mai ripensamenti, mai scollamenti. Lui rimane il mio Maestro, io rimango grata debitrice. Non solo di una vita, ma di tutte quelle che a me sono state destinate. Ovunque, in ogni tempo.

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(372) Omettere

Un verbo di un certo peso. Può rivelarsi un’arma a doppio taglio, eppure nel tempo ho imparato a rivalutarlo. Ci sono casi in cui glissare ti aiuta a evitare una guerra atomica – glielo direi volentieri ai due idioti che stanno tenendo in scacco il pianeta in questo periodo – e una guerra atomica significa morte per tutti – anche dei succitati idioti.

Quando ho pensato che la pura onestà di pensiero potesse essere espressa anche al di fuori delle mura domestiche ho provocato devastazioni. E non esagero. In quei frangenti, molto probabilmente, avevo sovrastimato la fibra di chi mi stava di fronte – è vero, doppio errore – ma sono pur sempre una persona che tende al fatalismo e se mi ci abbandono la cautela friulana va a farsi fottere.

Omettere di dire esattamente come la pensi, certe volte è lecito. In generale, però, è da codardi e lo penso anche adesso e nonostante tutto. Tornassi indietro direi le stesse cose per ottenere gli stessi risultati catastrofici, soltanto per il fatto che le persone che si sono sentite devastate e che mi hanno giurato odio eterno sono uscite dalla mia vita e la mia vita ne ha beneficiato parecchio.

Omettere di agire, di prestare soccorso o di intervenire per aiutare qualcuno, di parlare per difendere un principio sacrosanto o un diritto altrettanto sacrosanto o una persona indifesa o un ambiente naturale in pericolo, è da pezzenti. Non sto parlando di situazioni del genere, sto parlando di questioni di minor importanza, dove il non dire può fare enorme differenza. Non dire a uno stronzo che è uno stronzo se questo stronzo ti può tirare un pugno in faccia e farti secco, non è codardia, è buonsenso. Non significa che per evitare il pugno tu debba sorridergli e schierarti dalla sua parte, ovviamente, ma se eviti di dirgli stronzo e lo affronti con astuzia, giochi meglio. La tattica giusta ti fa vincere la guerra e la guerra (come diceva Sun Tzu) si vince prima di scendere in campo per la battaglia.

Non vado in guerra, mai, ma ho imparato che in battaglia l’ingenuità si paga cara e che poi non c’è rimedio che tenga.

Ecco.

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(371) Giornale

Non leggo i giornali. Non leggo i giornali dove le idee politiche dell’editore, e quindi dei giornalisti, mi storpiano i fatti per loro comodità e tornaconto personale. In questi ultimi anni di internet forsennato riesco a barcamenarmi meglio e mi illudo di avere una visione dei fatti variegata. Non “meno di parte”, ma almeno diversificata. Significa che alla fine della giornata le stronzate vengono asciugate via e i fatti restano. Quasi sempre.

Un processo che sto ancora studiando, ma che ha la sua logica ferrea e forse la fisica potrebbe avvalorare la mia strampalata tesi. Le stronzate non hanno radici, i fatti sì. Il vento a cui mi oppongo, fatto da miliardi di stronzate che dal web mi investono in modalità random, mi lascia rimasugli di notizie appiccicate ai neuroni. A fine giornata ripulisco tutto e tra i brandelli scorgo qualcosa che assomiglia a un fatto accaduto.

La cosa è più faticosa di quel che si possa pensare, infatti a fine settimana chiudo porte e finestre e mi barrico dentro di me perché le orecchie mi fischiano e le ossa scricchiolano. Il vento è vitale, ma abusarne può rivelarsi fatale.

Leggere il giornale è un gesto che non mi appartiene, trovo molta più verità in un romanzo che in un articolo a tre colonne. Ci sono penne felici su cui mi soffermo, ma senza quel senso di devozione che ha accompagnato le precedenti generazioni – padri/madri, nonni/nonne. Dovrei sentirmi in colpa? Boh, so che mi ci sento un po’ – virtualmente parlando – ma appena finisco di leggere l’articolo di turno e mi rendo conto che mi ha rubato tempo, attenzione e buonumore, mi passa subito.

Pulitzer è stato la luce nel tunnel, poi il tunnel si è rivoltolato su se stesso e tutto ha perso di valore. Scribacchini della malora!

 

 

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(370) Nero

Adoro il nero. Lo porto addosso sempre. Capelli, abiti, scarpe, a volte anche sulle unghie. Morticia Addams (quella di Carolyn Jones, ovviamente) è l’icona che mi affascina da una vita. Venivo spesso presa in giro per questa fissa del dark da ragazza, me ne sono sempre fregata. Ovviamente, anche se ci rimanevo male – di solito perché venivo presa alla sprovvista, la cattiveria gratuita non me l’aspetto mai – me la facevo passare persistendo nella mia posizione. Finché non cambio gusti o cambio idea per convinzione intima, persisto. Sono così.

Detto questo, il vedere nero mi dura pochissimo. Ci sono momenti in cui cado nel black hole della mia anima in pena, ma poi l’altra metà d’anima – che è guerriera – mi dà una botta intercostale e mi ributta su. Vedo nero quando sono stanca. Essere stanchi è normale, ma quando si è stanchi bisognerebbe dormire o andarsene per un po’, lontano, e respirare aria diversa. Mi piacerebbe poterlo fare, ma non me lo concedo più da molto tempo e non so più come si fa – forse.

La questione del nero, però, è una cosa sottile ed è salutare riconoscere la natura del nero in cui si sta affondando. C’è un nero senza ritorno e da lui bisogna proteggersi, non cadergli in braccio. Lo vedo spesso in chi incontro e annuso il pericolo. Vorrei soffiarglielo via perché so quanto bastardo sa essere, ma che diritto ho di interferire con le scelte del mio prossimo? Nessuno, questo è pacifico.

So solo che il nero va dosato, va monitorato, va gestito.

Io, per esempio, odio gli spaghetti al nero di seppia – anche se non ho nulla contro le seppie, beninteso – e cerco di evitarli sistematicamente.

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(369) X

L’abusata X, dall’incognita matematica all’X Factor, quando moltiplica e quando segna errore, quando conta e quando condanna. Sempre lei: X.

Mi sembrava doveroso fermarmi un po’ per valutare la sua condizione e, mentre la guardo, trovo che sorreggere il cielo e attaccarsi alla terra sia la caratteristica che più mi piace di lei. Perché il fattore X si basa su principi solidi. Due piedi a gambe divaricate: così il grounding regge e può sorreggere quel peso di cui ti stai caricando. E se alzi le braccia a specchio rispetto alle gambe, sentirai il peso appoggiarsi meglio perché troverà equilibrio in te e tu in lui.

Una posizione che, una volta trovata e calibrata, ti può far resistere a lungo. Magari non sei proprio contento, ma intanto resisti e poi si vedrà. Solo che quel a lungo non è mai per sempre – ammesso che il per sempre esista. Una volta capita l’antifona inizi a preoccuparti. Se ti sposti, se sposti anche solo di un grammo il peso crolla lui e tu ci rimani sotto e ciao.

Restare lì schiacciato tra il sopra e il sotto diventa inevitabile. Schiacciato eppure in equilibrio, ridicolo. Succede e quando succede non puoi farci molto. Quello che puoi fare è scrollare la testa e dirti: “Ma come m’è venuto in mente?”. Ma non troverai la risposta, nessuno ti darà risposta perché la domanda è sbagliata. Se ti domandassi, invece, “Tutto questo peso è necessario?”, allora sì che le cose inizierebbero a cambiare. Un nuovo equilibrio all’orizzonte, un nuovo assetto, un nuovo modo di vivere le tue spalle e le tue gambe. Perché questo è necessario, è bene che tu lo sappia.

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(368) Zig-Zag

Mi viene benissimo. La via diritta, quella che ci metti un secondo ad arrivare, non fa proprio per me. Lo zigzagare, sì. Posso vantare trillioni di sudati chilometri in questi miei anni, costati fatica a badilate, senza arrivare a nulla. Ancora. Ma si sa che lo zigzagare non garantisce nulla.

La cosa più assurda è che non è mai stata una scelta, sempre un accomodamento per offrire ai miei desideri qualche chance in più. Va da sé che quel nulla a cui dico di essere arrivata è in realtà un nulla parziale.

Si dà il caso che tra uno zig e uno zag io abbia incontrato tanti pieni che mi hanno permesso di nutrirmi mentre andavo, e tutto questo cibo d’anima non rientra in quel nulla da me citato prima. Il nulla riguarda tutte le ambizioni che si sono inabissate senza lasciare traccia in superficie, alzando il livello del mio oceano, posandosi sul fondo come lava fattasi masso una volta raffreddata.

Non so andare dritta, oppure non trovo strade dritte, ancora non l’ho capito cosa succede ogni volta, so solo che mi ritrovo nel mio eterno zig-zag a percorrere chilometri cercando di non piombare sul fondo assieme a tutto quello che mi porto appresso. Desideri? Quelli scappano via. Quelli sanno dove scappare – beati loro – sono io che non so trovare nel mio zigzagare nessuna scappatoia. Ancora.

 

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(367) Kryptonite

Per riuscire a sfangarsela nella vita, Superman insegna, bisogna capire il più velocemente possibile qual è la nostra letale kryptonite. Il resto della tua esistenza la trascorrerai a schivare come la peste questo elemento e vivere nel pieno delle tue forze il più a lungo possibile.

La mia kryptonite è: l’ottusità. A ogni scontro con questo stramaledetto componente della natura umana, io perdo. Robe che se fossi almeno un po’ furba non mi ci metterei nemmeno, ma non solo non sono furba, sono anche recidiva. Eppure la riconosco, la annuso da lontano, cerco di aggirarla – assicuro in buonafede che l’intenzione è quella – ma non dura molto. Appena abbasso la guardia… zak! Eccola lì, davanti a me che senza neppure salutare mi molla un diretto sul naso e finisco stesa a terra. Sempre.

L’ottusità, c’è da aggiungere a mia discolpa, sa celarsi bene. Sa vendersi bene. Sa carpire la tua fiducia per sbatterti a terra e piombarti a braccio teso sulla giugulare. Senza respiro si ragiona male e lei lo sa.

L’ottusità permette alla gente che si reputa normale di covare odio profondo fin nelle viscere e sputarlo in faccia alla prima occasione, al primo venuto, al primo segnale di vulnerabilità che intuiscono. E la gente ottusa ha grande intuito e ottima mira, c’è da rendergliene atto.

L’ottusità obnubila la ragione e chi ne è affetto non se ne rende conto perché la sua capacità dialettica, la sua retorica, la sua preparazione culturale sono ottima base per portarti lì dove ti darà il colpo di grazia.

Una sola cosa manca alla persona ottusa: la gentilezza. E una volta che lo hai capito, allora tu puoi essere la kryptonite da cui scappare, quella capace di neutralizzare il piano criminale messo in atto contro la Bellezza e l’Umanità.

Sii Kryptonite, sii gentile.

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(366) Arrovellarsi

Sembra che io non faccia altro che arrovellarmi sulle mille problematiche esistenziali che mi coinvolgono, e forse è proprio così. Non lo faccio apposta, mi ci trovo infilata dentro e non capisco come. Addirittura con coerente continuità! Com’è possibile?

Credo che a un certo punto la cosa mi abbia preso la mano e via. Come se fosse stato chiesto a me, a me!, di venirne a capo. Come se fosse stato chiesto a me, a me!, di trovare una soluzione. Come se fosse stato chiesto a me, sempre a me!, di salvare il mondo. Eh no! Nessuno mi ha mai chiesto nulla. Faccio tutto in autonomia. Me la canto e me la suono, one-woman-band. Una vera idiota.

La possibilità di godermi la vita con leggerezza, in fondo in fondo, mi fa schifo. Mi sembra una perdita di tempo. Mi sembra sia un buttare un’occasione che non tornerà più. Una vera idiota, confermo.

La giustificazione che nessuno me lo ha insegnato pertanto non so come si fa non regge. Poteva essere valida quando ero giovane, ma come ho imparato a stare davanti a un microfono senza che nessuno me lo insegnasse posso anche imparare a non dannarmi l’esistenza. Non sarà mica così diverso! Solo che non mi ci sono mai messa, non l’ho mai considerato come un ostacolo alla mia felicità, ho dato per scontato che fosse così e pace. Invece no. Raramente così e pace riguarda me e certamente non in questo caso, quindi dovrò arrovellarmi sul fatto che non ho mai pensato fosse importante pensarci. Vie d’uscita non ne vedo, ma su questo non voglio ancora arrovellarmici su.

Magari domani.

 

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(365) Trecentosessantacinque

365: i *Giorni Così* che ho scritto, i giorni che ho vissuto, i giorni che sono passati da quel 28 settembre 2016 in cui ho voluto iniziare questa piccola cosa senza senso. Fa impressione, no?

Devo ammettere che non è la prima cosa senza senso che ho fatto, e che le precedenti son durate parecchio, però questa ha un elemento che la rende inaccessibile a qualsiasi altro genio volesse farmi concorrenza: è completamente e assolutamente inutile. Non solo: non viene minimamente pubblicizzata né da me né da alcuno. Provate a fare di meglio se ci riuscite!

La confessione scoop che oggi voglio offrire a chi si fermasse qui per festeggiare è che *Giorni Così* è il mio egoistico modo per tenere traccia di me. Lo faccio già sul cartaceo, è vero, ma lì le cose diventano più psicoanalisi da lettino: dico cosa ho fatto durante la giornata, dico cosa mi ha fatto girare le palle, dico cosa mi propongo di fare il giorno seguente. Una noia da guinness dei primati. Invece, qui sul diario virtuale, mi impongo di parlare d’altro. Parlare di tutto quello di cui di solito non voglio parlare perché mi sembra che sia ovvio, visto che lo penso.

Ho scoperto che quello che penso non è ovvio neppure per me stessa. Una scoperta sconvolgente e nel contempo affascinante, ve lo assicuro. Significa che finché non lo scrivo non so che lo sto pensando. Il che la dice lunga sulla mia presenza mentale in questa dimensione terrestre, ma anche su un altro aspetto della mia persona che viene spesso giudicata malamente.

Mi spiego: quando parto per la tangente e mi infervoro su un concetto, la gente spesso si infastidisce, o si spaventa, perché pensa che io mi voglia mettere in cattedra per fare lezione. Ergo, la gente mi pensa una presuntuosa-a-tratti-arrogante che crede di avere la verità in mano e vuole imporla al resto del mondo. Non dico che non sia così, perlamordelcielo, dico solo che ragionando ad alta voce il pensiero prende una forma che riesco a vedere, che riesco a riconoscere, che riesco a tenere in mano per rigirarmelo per bene e capire un po’ di più. Più trovo davanti a me contrapposizione di veduta e più il pensiero è stimolato a farsi solido, a farsi specifico, a farsi spesso anche ingombrante. E io capisco meglio. Da lì inizio un percorso a ritroso, molto intimo, in cui mi faccio domande pungenti e imbarazzanti (Perché la pensi così? Perché t’incazzi così? Perché parli troppo? E via dicendo… ) e vengo a capo un po’ del mistero che sono.

Ecco, questa cosa qui non ho mai avuto la possibilità di dirla a nessuno. Nessuno me l’ha mai chiesto e nessuno ha mai pensato che al di là di ciò che si vede e si sente può esserci una me piuttosto diversa. Piuttosto in bilico, piuttosto in ricerca, piuttosto vulnerabile. E non è che sia così importante che nessuno se lo chieda, diventa invece di vitale importanza per me perché io ho il dovere di chiedermelo e di non scappare davanti alla risposta. Le risposte che riproducono la realtà delle cose, fanno risultare il mistero che sono meno mostruoso. Più umano. Non per gli altri, no, ma per me stessa sì.

Buon primo anniversario *Giorni Così*!!!

 

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(364) Vigilia

Lo stato d’animo che mi prende a ogni vigilia non ha niente di esaltante. Penso immeditamente a come sarà il dopo festeggiamento e a quanto vorrei avere già scollinato. Lo so, sono una guastafeste.

Penso che una cosa è bella se dura poco, forse perché mi stanco facilmente, quindi se ci fosse il modo di passare subito ai festeggiamenti senza attraversare la vigilia sarebbe perfetto. Viene benissimo quando me ne dimentico di brutto e al mattino appena sveglia qualcosa o qualcuno mi ricorda che è ora di festeggiare: l’entusiasmo mi sale a 1000 e sono pronta a fare bagordi. Carpe Diem.

In poche parole vorrei già essere a domani, quando festeggerò (penso proprio che lo farò da sola, ma che importa!) ben 1 anno dall’apertura di questo diario virtuale che ho chiamato *Giorni Così* appunto per non creare troppa aspettativa – so essere astuta se mi ci metto.

Di questo parlerò domani – accidenti! – oggi voglio dilungarmi ancora un po’ sul fatto che le vigilie, secondo me, siano state create apposta per rovinare la festa. Ti prepari a festeggiare, in poche parole ti scappa di festeggiare un po’ prima e così quando arriva la festa sei già stanco e ti prende la malinconia. Una cosa del genere può essere giustificata solo in caso di forzato Natale, dove la malinconia fa scempio di te già dal 1° dicembre e ti molla soltanto dopo la Befana quindi la vigilia è soltanto un pretesto per mangiare tortellini in brodo in vista dell’ingozzamento selvaggio del pranzo-merenda-cena-dopocena natalizio.

In tutti gli altri casi, la vigilia non è una buona idea. Mi propongo, pertanto, di ignorarla totalmente il prossimo anno, e se sarà proprio necessario fingerò di non accorgermi che il tempo passa veloce-lento-veloce-lento dribblando ogni mio tentativo di controllo e lasciandomi in balìa di me stessa e della mia idiosincrasia per le vigilie.

Meno 5

Meno 4

Meno 3

Meno 2

… 1

 

 

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(363) Jolly

“A questo punto mi giocherei il Jolly”, un’affermazione che non ho mai potuto utilizzare, ma che mi è rimasta lì in memoria e di cui non riesco a disfarmi.

Per giocarsi un Jolly, ovviamente, bisognerebbe avercelo. Ho pensato di averne parecchi di Jolly da giocarmi in tutti questi anni, ma una volta buttati sul tavolo si sono rivelati un bluff. Cioè, tanto per far capire il tenore della beffa: un auto-bluff.

Che non si tratta più di sfiorare il ridicolo, ma di attraversarlo alla velocità dell’Enterprise tanto per capirci. E non indenni, voglio sottolineare.

In poche parole, ho voluto così tanto poter giocarmi un Jolly che me ne sono inventati mille – totalmente fake – pur di crogiolarmi nell’idea che al momento opportuno li avrei sfoderati per… vincere. Sì, vincere. Perché io voglio vincere. Vincere in modo onesto, s’intende, ma vincere. Non mi piace la via di mezzo, neppure arrivare ultima. Mi piace vincere. Ma non basta. Bastasse questo, a cosa servirebbero i Jolly? Ci sarebbe una rivolta di Jolly se si scoprisse che non servono a una cippa. Triste giorno per i Jolly, per noi un po’ meno. Per me sarebbe una festa.

Fatto sta che non ne ho. Non ne ho e non so dove andarli a comprare. Non ne ho e non potrò mai dire “Mi gioco il Jolly”. Non ne ho e non potrò mai dare una complice e soddisfatta pacca sulla spalla al mio Jolly e andare a festeggiare in birreria con lui, come una vera squadra, la vittoria. Credo non ci sia nulla di più mortificante.

Scusate, ma ora vado a piangere in privato.

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