(403) Laringite

Male di stagione? Eccomi pronta! E non sto a dire quanto mi girano le palle, che non sto bene e tutto è più pesante e che non posso mangiare, bere, dormire… insomma: laringite. Non è il colera, non è il caso di farla tanto lunga, lo so, ma ne farei volentieri senza. Grazie.

Questa premessa non è soltanto uno sfogo isterico (anche se potrebbe sembrarlo), è un modo per approfondire il pensiero (che ci vuole poco partendo dal basso) e arrivare all’illuminazione che in questi giorni di sofferenza mi ha aperto una via percorribile. Procederò con ordine: gola in fiamme = fatica e dolore anche solo a respirare, figuriamoci a parlare. Ergo: se non vuoi soffrire inutilmente stai zitta. Silenzio = Soluzione.

Il processo è disarmante nella sua banalità, ma se lo sperimenti su te stesso porta a risultati non così ovvi. Dovendo star zitta per la gran parte del tempo ho notato cose interessanti sia su di me che su chi mi sta attorno. Parto da me: parlare stanca, il silenzio dà sollievo. Io parlo troppo, senza se e senza ma. Farei meglio a parlare di meno, e questo farò d’ora in poi. Passando agli altri: chi mi conosce si aspetta che io parli, se non lo faccio si fermano e mi guardano come mi vedessero per la prima volta. Ho ricevuto più sguardi interrogativi in questi giorni che in tutta la mia vita. Non vorrei appesantire troppo la cosa, ma è possibile (direi anche probabile) che il mio parlare tanto vada a indebolire la mia comunicazione. Non è detto che sia proprio una risultanza matematicamente precisa, però sospetto che il punto sia proprio questo: sono esausta e un bel po’ di silenzio (direi qualche tonnellata al giorno) potrebbe essere il modo per arrivare ad una sorta di equilibrio.

Conto molto sul fatto che adesso la cosa mi risulta talmente chiara da non scordarla per un bel pezzo. O almeno fino alla prossima laringite. Amen.

 

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(402) Indolenzimento

Ci sono dei periodi, mai troppo lunghi grazie al cielo, in cui mi ritrovo semiparalizzata da un indolenzimento sinaptico che ha dell’imbarazzante. Mi rendo conto che per chi mi guarda dall’esterno sembro un’idiota zombizzata che si trascina di qua e di là senza senso. A pensarci bene sembro così anche a guardarmi dall’interno, e non è affatto bello.

Non ci posso fare nulla, arriva quando arriva e se ne va quando se ne va, al massimo posso cercare di dissimulare la cosa e sperare di non fare troppi danni nel mentre. Ho sempre attribuito queste fasi a una questione di overload, un sovraccarico di pensieri e tensioni varie che mi fa andare in sciopero il discernimento. Ma non è detto, voglio dire che non è una diagnosi sicura, è più che altro un’ipotesi.

Di stronzate ne ho fatte parecchie e non è che le ho fatte sempre in questi periodi di semiparalisi sinaptica, quindi non sono qui a giustificarmi nascondendomi dietro questo, sia mai. Sto solo riflettendo sul fatto che il silenzio in cui sono immersa, mentalmente parlando, scopre vuoti che non vorrei vedere-sentire-avere. Credo che la dinamica sia: più non li voglio e più ci sono.

Non è una diagnosi, è un’ipotesi. E di ipotesi è pieno il mondo. La mia testa, invece, sembra essere vuota. Sembra, ma non è detta l’ultima parola. La ruota gira, sempre, e venire schiacciati è un attimo pertanto: run babsie run.

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(401) Tavolata

Un tempo sognavo una tavola grande, molto grande, dove far accomodare tutti gli amici e tutti quelli che avrei voluto diventassero miei amici. Casa nostra era così, porte aperte per accogliere, sempre. 

In quel tempo avrei servito a tutti cibo e bevande per poter guardare ognuno negli occhi in cerca di un contatto sincero. A fine serata sarei stata affamata, ma felice per tutta quella umanità assorbita.

Quel tempo è passato, adesso la tavola non la vorrei così grande, così piena di umanità, penso che non riuscirei a trattenere tanti occhi nei miei tutti insieme. Forse è la stanchezza o forse la mia umanità sta pesando più di quel che dovrebbe.

In questo mio tempo cerco ancora gli occhi di chi mi sta di fronte, ma senza indagare. L’incontro si è trasformato in qualcosa di molto più delicato, meno invasivo e meno irruente. Non amo stare in mezzo a troppe persone, preferisco scostarmi un po’ per non farmi fagocitare. Ho acquisito un nuovo senso dello spazio, non temo più le vertigini della solitudine.

Tutto il tempo, nel mio presente, è un muovermi lenta, chissà perché. So solo che va bene così e non me ne frega niente se ai più sono diventata straniera. Indosso meglio il mio nome, ora. Senza scuse né giustificazioni.

 

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(400) Humour

Ci sono proprio nata, l’ho ereditato per geni e l’ho perfezionato nel tempo grazie alla vicinanza della mia famiglia. Non sto dicendo che sono una simpatica umorista, tutt’altro, ma che nel mio sangue c’è la risata. Anche quando fa male perché serve soltanto a sollevare le sorti di una giornata, di una settimana, di un mese, di un decennio tragico. 

Sei lì, in mezzo al vuoto che t’inghiotte e mentre ti guardi scomparire spari una cazzata. E ridi. La capisci solo tu, ma non lo stai facendo per un pubblico, per un applauso, per una pacca sulla spalla. Soltanto per accompagnare il tuo affondare.

E quando scopri che funziona, smetti di sentirti in colpa. Perché se stai male e ridi sembra che tu non stia così male. Potresti risultare mostruosa agli occhi del mondo, gelida per chi ti sta accanto, idiota persino. Sono giudizi superficiali, devono scivolare via subito perché rovinano l’operazione di salvataggio che la tua anima sta portando avanti nonostante te.

Se riesci a farlo, se riesci a restare attaccato a quell’amaro che ti fa storcere la bocca e che si trasforma in risata per un pensiero stupido che ti fa uscire di botto dalla situazione che stai vivendo e ti rende disumano anche solo per due secondi… se ti riesce l’acrobazia, diventa la tua arma segreta. Tanto lo sai che non è finita, lo sai che poi passa, lo sai che il dolore è uno stato mentale limitante, lo sai. E allora ridici sopra, fallo a pancia all’aria, fallo in mezzo al vuoto e che sentano tutti. Fallo. Non pensarci, fallo e basta.

Che son bravi tutti a fare gli scemi a Zelig, prova a farlo quando stai per essere inghiottito dal vuoto. Lì che ti voglio. Non ti scappa da ridere? Dovrebbe. Fidati, dovrebbe.

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(399) Malavoglia

Se potessi trovare il modo di non fare MAI le cose di malavoglia, avrei risolto tutti i miei problemi in un colpo solo. Odio fare le cose malvolentieri. Quelle cose che sono un fastidio che non riesci a digerire e che per quanto tu possa provare a guardarle con altri occhi non cambia un tubo. Restano una spina nel fianco, a pain in the ass – come dicono perfettamente gli americani.

Mille volte al giorno, cose piccole e grandi, che mi capitano tra i piedi e mi vengono imposte: dalla situazione, da chi mi sta attorno, da-cosa-diavolo-non-so e che non posso schivare. Mille volte al giorno sono troppe per chiunque, ammettiamolo serenamente, santiddio!

Bene, mi ritrovo sempre al punto di partenza: le faccio, rosicando, quindi per forza, odiando me stessa per essere stata incastrata di nuovo e il resto del mondo che trama 24/7 contro di me (e vince pure). Che vita grama, che grama vita!

Certo che so sfoderare il mio più lucente vaffanculo, con una certa maestria lo confesso, ma non posso usarlo mille volte al giorno. Anche se non si trattasse di buonsenso o di buongusto sarebbe comunque una questione di poca intelligenza e morte sicura. Uno su mille, quello più incazzoso, c’è sempre, pronto a spaccarti il muso, eh!

Fatto sta che non ci sono festivi né feriali che tengano, mille volte al giorno per tutti i giorni dell’anno. Può darsi che la mia soglia di tolleranza con l’avanzare dell’età si sia abbassata drasticamente – non lo nego – eppure la sensazione di essere una calamita per i fastidi e le zecche mi rimane.

Di malavoglia. Lo faccio, va bene, ma di malavoglia. Sia chiaro. A tutti.

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(398) Cariatide

Lavoro con le parole perché sono l’ambiente mentale che mi permette di delineare al meglio l’essenza di ogni cosa. Attraverso le parole arrivo al nocciolo della questione. Appena riesco a trovare la parola giusta per dirlo, per esprimere il mio pensiero, allora so che la mia possibilità di toccare un altro Essere Umano si può concretizzare.

Credo fermamente che il far crescere il pensiero passi attraverso la parola, che contiene e che scopre, che amplifica e solidifica sfumature che soltanto immaginare non può essere abbastanza.

Per quanto io ami le arti visive non posso pensare a un mondo fatto di uomini che hanno dimenticato il potere delle parole. Mi vengono i brividi se ci penso.  Gli stessi brividi quando mi si consegnano in mano parole svuotate, sbranate dall’uso senza criterio e dal cattivo gusto.

Curare i pensieri, nominando ciò che è più intimo, aiuta a sconfiggere i mostri-del-non-detto che possono schiacciarci facilmente se li lasciamo agire nel buio. Poter accrescere in una giovane mente la capacità di maneggiare le parole che sanno sorreggere, soppesare, scandagliare, sorprendere, rassicurare, spronare, stratificare, ampliare – e chissà cos’altro ancora – il nostro possesso del mondo (solo in senso metaforico e mai in modo definitivo o definito) credo sia il dono più bello che possiamo farle.

Per tutti questi motivi, in questi ultimi mesi, mi sono sentita una cariatide. Eppure oggi, con le parole giuste, calibrandone l’intensità, la magia si è compiuta di nuovo e il pensiero di una mente ha trovato soluzione e sollievo. Una strada che le si è aperta non grazie alla cariatide, ma soltanto grazie al potere della parola. Non smetterò mai di crederci, mai mai mai. Sì, ho detto mai.

 

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(397) Nebulosa

Tutto sta andando bene, è giusto ricordarmelo. Tutto sta andando bene e sembra che non possa far altro che migliroare, anche questo me lo devo tenere ben presente. Con queste premesse, va da sé che questa confusione in cui sono immersa non è presagio di cose nefaste, può essere stordimento per uno stato di cose che non provavo da tempo. 

In quanto a razionalità teorica non mi batte nessuno.

Allora parliamo meglio della nebulosa che mi avvolge e che mi rende tutto lontano. Lontano e privo di interesse. In uno stato emotivo normale mi sentirei in colpa: ma come? Non ti interessa quello che ti succede attorno? Cattiva bambina!

La cosa strana è che non è che non mi interessa quello che mi sta attorno, ma guardo tutto da lontano e questo mi rende poco coinvolta. Non riesco a organizzarmi, non riesco a dare priorità, non riesco a spingere via la nebulosa. Mi interessa tutto e niente. L’ultima volta che mi è successo ero poco più che venticinquenne e mi sentivo pienamente legittimata a restarmene dentro la nebulosa e godermela un po’. Vent’anni dopo un po’ di meno. Un vago senso di imbarazzo lo sento. Anche un po’ di preoccupazione, a dirla tutta.

Mi guardo da lontano, mi interesso poco al momento. Mah!

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(396) Jerk

Arriva per tutti il momento in cui anziché affondare il colpo si decide – anche controvoglia – di girare i tacchi e andarsene. In quel preciso istante il calcolo che la tua mente riesce a fare, preciso all’inverosimile, è che semplicemente non ne vale la pena. Il costo dell’energia che ci devi mettere va al di là del risultato che otterresti. Non ne vale la pena. E te ne vai prima di cambiare idea e far partire un diretto al naso che è lingua universale e funziona a meraviglia – non viene mai frainteso. 

Il sunto di questo tuo gesto pieno di buonsenso, quello che ti vede andartene e lasciare il potenziale luogo del delitto, si può riassumere nell’assioma:

Mai discutere con un idiota, ti trascina al suo livello e ti batte con l’esperienza.  (Oscar Wilde)

Una volta attraversata l’esperienza, però, ti rimane quel pugno non dato che ti pesa nella tasca e ogni volta che ci ripensi ti dai del cretino. Dovevo farlo, per una volta nella vita dovevo scendere a compromessi con la mia etica e la mia dignità e avrei dovuto spaccargli il naso. Certo che sei contro la violenza, certo. Certo che hai fatto bene ad andartene, certo. Certo che se ricapitasse lo rifaresti di nuovo, certo. Eppure, una volta nella vita quel pugno bisogna tirarlo.

Chiamiamola pure una questione di bilanciamento – tra torti e ragioni, tra giusti e sbagliati, tra intelligenti e cretini, tra colpevoli e innocenti. Un dannato bilanciamento che va al di là della compassione, dell’orgoglio, della buona creanza. Un bilanciamento che faccia quello che deve fare, in modo semplice e senza troppo sottotesto: riportare i pesi in equilibrio.

Una cosa, però, bisogna che sia chiara: ogni pugno che ci siamo risparmiati ha aggiunto il suo peso, la sua cattiveria, a quello precedente. Se aspettiamo troppo a liberarlo, la sua portata diventa pericolosa e il risultato distruttivo, pertanto, scegliere bene il bersaglio è un atto di dovuta responsabilità.

Vado giù di lista e di profonda riflessione.

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(395) Xilitòlo

Lo xilitòlo è un dolcificante che non provoca carie, senti il dolce e quel dolce non ha controindicazioni, tanto che ci sono pure le caramelle e il chewing-gum. Ecco, penso che sarebbe bello che ci fosse un modo per addolcire certe cose della vita. Diventa difficile trovare lo zucchero per mandare giù la pillola, spesso ti ci vuole molta energia per contrastare l’amaro di certi eventi e abusare di zucchero comporta carie. Un abuso di xilitòlo sembra la soluzione, il dolce a contrastare l’amaro e i denti sani.

Certe volte la soluzione ce l’hai sotto il naso e non te ne accorgi. Certe volte te ne accorgi, ma non la metti in atto perché non hai voglia di sobbarcarti la rottura di scatole che si porta appresso. Lo xilitòlo sembra non avere rogne in appendice, una rarità notevole vero?

Quando ho scelto lo xilitòlo come topic per questo post ero certa che sotto non ci fosse granché da scoprire e che mi sarei messa in un vicolo cieco – come già mi è successo più volte nei miei ***Giorni Così*** – e, invece, ho iniziato un percorso affascinante di neurone in neurone che mi sta proiettando nell’Universo delle Sciocchezze dove il glitter la fa da padrone. Tutto questo per dire che anche sotto lo xilitòlo c’è qualcosa da dire se il sabato sera ti ritrovi davanti al PC e togli il freno ai pensieri e lasci andare le mani sulla tastiera. Lo xilitòlo è un pretesto, come tutto nella mia vita, per scrivere.

Scrivere toglie l’amaro di certe cose, di certi eventi, di certe situazioni, di certi ricordi, di certi dolori, di certe paure, di certe persone, di certe notti e certi giorni. Giorni così, appunto.

 

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(394) Stranire

Non so come ci riesco, ma è il mio potere magico. Appena possibile, quando meno me l’aspetto, scatta l’incantesimo e rendo nervosa la persona che mi sta di fronte. Quasi mai è per quello che dico, piuttosto per un qualcosa che succede a livello energetico. Quel qualcosa scatta e la persona che mi sta vicino mi vorrebbe prendere a pugni.

Non è mai successo, ma questo soltanto perché sono solita frequentare persone di buonsenso e ben poco violente – se per fortuna o per astuzia non saprei dirlo – eppure la mia presenza riesce a mettere a disagio chiunque. Random.

Mi piacerebbe poterlo pilotare, farlo solo con chi non mi piace, sarebbe un bel modo di evitarmi seccature, invece è un potere indomato e temo indomabile. La cosa che poi rende tutto ancora più interessante è che riesco a fare anche il contrario con la stessa dinamica: riesco a tirare fuori il meglio dalle persone. E non per interessi egoistici, altrimenti sarebbe un gioco sporco del quale sarebbe meglio non vantarsi, soltanto perché quello che faccio o quello che dico o puramente per un fatto di energia buona produce benessere che si propaga.

Non voglio, però, togliere peso a quel mio lato oscuro che riesce a far girare le palle al mio prossimo, tutt’altro. Sto semplicemente valutando che questi mie superpoteri sono talmente allineati l’uno all’opposto dell’altro che alla fine si annullano. Non c’è colpa e non c’è vanto. Sono come tutti gli altri: insopportabile e irresistibile assecondando la luna del momento.

Che sollievo!

 

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(393) Z

Essere l’ultima. Della serie, della fila, della giornata. Non mi ha mai preoccupata più di tanto, l’ho sempre dato per scontato. Fermo restando il fatto che non ho mai sopportato il profetico “i primi saranno gli ultimi” – concetto ridicolo sotto ogni punto di vista – non ho mai provato invidia per i primi, neppure per i secondi e i terzi, piuttosto ero certa che in tutti loro ci fossero dei meriti che a me mancavano.

E giù la testa a lavorare, a mettersi alla prova, a sputare sangue. Per anni, anni e anni. Talmente tanti anni che non ho fatto altro fino a oggi. Oggi ho alzato la testa e non so se ridere o se piangere perché il cambio di visuale mi lascia perplessa. Sono molto lenta a capire le cose della vita, funziono in modo semplice e lineare, talmente lineare che a volte sembro stupida. Sembro. Il verbo sembrare può trasformare tutto: da una Z si passa alla A con un gioco da nulla. Ma quando una Z sembra una A la magia è grossa e non ambisco, in tutta onestà, a tanto. Posso al massimo stirarne bene i lembi e renderla ____ piatta. Cosa c’è di più perfetto di una linea retta che si estende all’infinito? Niente, ma mi assomiglia poco.

Rimango una Z, ho deciso. Con gli occhi aperti, però, e orgoglio sventolante.

 

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(392) Quark

quarkkòok› s. ingl. [formato da qu[estion m]ark «punto interrogativo» e fig. «cosa ignota o inconoscibile», e usato come parola di significato indeterminato da J. Joyce nella frase three quarks for Muster Mark del romanzo (1939) Finnegans Wake] (pl. quarkskòoks›), usato in ital. al masch. (per lo più in forma invariata al plur., e con la pron. ‹qàrk›). – In fisica delle particelle, denominazione data (1964) dal fisico statunitense M. Gell-Mann ai costituenti fondamentali della materia adronica, cioè di tutte le particelle osservate che sono soggette alle interazioni forti; l’esistenza di tali costituenti è attestata da numerose evidenze sperimentali, per quanto non siano mai stati osservati quark isolati, nonostante i molti tentativi di rivelarli con tecniche diverse: tale circostanza ha portato a formulare una teoria delle interazioni forti (v. interazione, n. 1), detta cromodinamica quantistica (v. cromodinamica), che attribuisce il confinamento dei quark all’interno degli adroni osservati a meccanismi legati a un numero quantico interno, detto colore. In base alle proprietà osservate i quark sono fermioni (hanno cioè spin 1/2) e hanno carica frazionaria, pari a −1/3 o 2/3 della carica del protone; ogni tipo di quark è replicato in tre colori. I tipi (o sapori, come si dice per distinguere questo numero quantico da quello di colore) di quark finora individuati sono 6, indicati con le lettere u, d, s, c, b e t: i primi due (up e down) sono i costituenti dei protoni e dei neutroni, ossia della materia ordinaria; il terzo è presente nelle particelle strane (v. strano), il quarto in quelle dotate di charm (v.), il quinto, in gergo detto bottom o beauty, in quelle dotate di un numero quantico; il sesto quark, scoperto nel 1995 e detto top o truth, essendo molto pesante decade così rapidamente che non fa in tempo a formare particelle adroniche.

Un punto di domanda, un quark. Questa parola è deliziosa, mi fa sorridere. Se riuscissimo ad affrontare ogni evento della nostra vita come se andassimo incontro a una domanda che ti apre mille strade in risposta, sarebbe perfetto.

E la vita ci prova a farcelo capire che è tutta una questione di ricerca, di insondabile che deve essere sfidato ben sapendo che vincerà lui, di alternative che va a finire in un casino ogni volta perché non ce n’è una che calzi a pennello, nemmeno una mannaggia!

E poi le risposte che trovi sono sempre provvisorie perché siamo noi provvisori: nei desideri, nel nostro agire, nel nostro capire e nel nostro chiuderci e rimbalzare tutto. Provvisori e contradditori. Provvisori e pasticcioni. Provvisori e cialtroni. Noi, tutto insieme, a valanga fino a valle.

Il quark, però, ci riporta in pista. Noi pensiamo che lui non se ne accorga, ma sa esattamente dove porsi e con quanta forza opporsi alle nostre balengate. E combattiamo e ci incazziamo. Restando cialtroni, pasticcioni, contradditori e provvisori, ma non lo ammetteremo mai.

Il quark ride. Fossi in lui riderei anch’io.

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(391) Esplorare

Mettersi lì per scoprire tutto quello che puoi scoprire su qualcosa che non conosci è un viaggio che ripaga bene, sempre. Amo il mio lavoro perché mi permette di farlo non soltanto nel mio tempo libero (termine a me quanto mai sconosciuto), ma in ogni istante della giornata. Sì, diventa piuttosto faticoso, eppure tutto viene ripagato da quello che scopri.

La maggior parte delle cose di cui vengo a conoscenza non le userò mai. Una piccola parte le userò per produrre quello che devo – e che mi ha dato la motivazione per approfondire tale argomento. Quello che resta rimarrà impigliato chissà dove dentro di me e al momento giusto uscirà per rendersi utile.

Non è una scelta consapevole, è qualcosa che scoprirò mentre si avvererà. Un livello superiore dell’esplorazione, suppongo, affascinante per valutare il funzionamento del mio strambo cerebro.

L’accidia è il mio personale spauracchio, quello più potente, ed è lui a spingermi per non fermarmi mai. Quando me ne andrò da questa dimensione, se dovrò per forza far compagnia all’Oscuro Signore degli Inferi allora dovrà andare per esclusione. Il primo girone che scarterà sarà quello degli accidiosi, poco ma sicuro, per i restanti, suppongo, si dovrà un po’ mercanteggiare. Nel frattempo vedrò di sistemare ciò che posso esplorando qua e là, con l’età ricorderò sempre meno – e questo non è per per forza di cose un male – eppure avrò impiegato bene il tempo terreno a mia disposizione.

Dimenticavo: l’altro spauracchio è la noia. Amen.

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(390) Dicotomia

dicotomia /dikoto’mia/ s. f. [dal gr. dikhotomía “divisione in due parti”]. – 1. (filos.) [divisione logica di un concetto in due nuovi concetti distinti e contrapposti: la d. cartesiana mente-corpo] ≈ bipartizione, polarizzazione. ↓ divisione, separazione, suddivisione. ‖ antinomia, dualismo, dualità. 2. (estens.) [netta opposizione tra due entità, due punti di vista e sim.: una d. insanabile nella sinistra] ≈ contrapposizione, frattura, spaccatura. ↓ divisione, separazione.

Vediamo di fare il punto della situazione: non sempre so cosa voglio e non sempre quello che voglio è coerente con quello che sono. Di fronte a bivio di questo tipo prediligo la via che mi fa dormire sonni sereni.

Giusto precisare, però, che le cose che voglio e che non metto in atto sono pessime. Davvero pessime. Pessime non significa necessariamente oltraggiose, spregiudicate e bastarde (anche se non le escludo mai dalle opzioni), ma sicuramente da evitare perché inutili o dannose. Spesso mi immagino le scene in cui agirei in modo pessimo e me le costruisco nei dettagli, come se le stessi vivendo. A volte mi riesce talmente bene che mi sembra di averle vissute davvero, se arrivo a quel punto le archivio e non ci penso più. In questo modo ho evitato il carcere quando volevo menare a sangue una tipa o di finire sfracellata in un dirupo. Dico questo non per vantarmi, ma per far presente che se fino a ora non ho mai fatto cose di quel genere è perché ho scelto di non farlo. Per i miei motivi – né buoni né virtuosi – e questi motivi non è detto che siano a tenuta stagna. Non è detto che prima o poi non si frantumino lasciando il campo libero alla follia.

Bisogna far bene i conti con i sentimenti e l’emotività delle persone, giocare sul filo del rasoio non è cosa intelligente. La tolleranza ha un limite, la pazienza idem e il buonsenso non parliamone neppure. La stanchezza ti fa alzare le spalle e la noncuranza è cattiva consigliera. Il fastidio può portarti a sbroccare, la paura può trasformarti in un drago sputa fuoco. Ho reso l’idea?

Siamo tutti appesi a un filo, smettiamola di mettere alla prova la resistenza del nostro filo e quella degli altri, smettiamola di tormentarci e tormentare. Smettiamola di sputare sentenze, di sguainare il fioretto per infilzare il malcapitato di turno. Smettiamola.

 

 

 

 

 

 

 

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(389) Aerostato

aeròstato (ant. areòstato) s. m. [comp. di aero– e –stato, sul modello del fr. aérostat]. – Aeromobile che si sostiene per effetto della spinta che l’aria esercita su di esso; più in partic., sono detti palloni gli aerostati senza propulsore, e dirigibili quelli con propulsore. A. libero (o sferico), quello privo di dirigibilità che naviga trasportato dalle correnti aeree; è costituito da un involucro impermeabilizzato (che racchiude una certa quantità di gas più leggero dell’aria), cui è vincolata una navicella per l’equipaggio e i carichi, ed è usato per sondaggi aerologici. A. frenato, quello collegato a terra da un cavo di ritenuta per limitarne sia la quota sia la mobilità, usato soprattutto per l’esplorazione dell’atmosfera (detto in tal caso pallone meteorologico); sistemi di aerostati frenati sono stati usati anche nella difesa contraerea di obiettivi fissi e di navi (palloni di sbarramento).

Oggi ho avuto un’illuminazione: sono un aerostato. Nata come aerostato libero e vissuta come aerostato frenato. Non ce n’è per nessuno, non c’è un’altra definizione che potrebbe anche solo vagamente rappresentarmi meglio.

Non ho ancora capito chi sia stato a legarmi con un maledetto cavo a terra, ma appena lo scopro gliela faccio pagare. Mi ha costretto, l’infame, a esplorare l’atmosfera per decenni e come riconoscimento ho avuto addosso la controffensiva di centinaia di individui incazzati solo per il fatto che mi trovassi lì ancorata e – tra l’altro – controvoglia. Nessuno mai che si fosse fermato per liberarmi, avrei tolto il disturbo istantaneamente, per darmi addosso sì ma non per sollevarmi dal cavo di ritenuta.

Trovarsi legata mentre invece te ne andresti volentieri in alto, non è bello. Venire presa come quella che si mette in mezzo, ancora peggio.

La vogliamo finire o no?!

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(388) Borderline

Significa linea di confine, suona benissimo secondo me. Una linea di demarcazione per noi Esseri Viventi è la pelle. Se non ce l’avessimo non sentiremmo il mondo esterno a noi e potremmo confonderlo con il nostro mondo interno (fisico e non). Ci sono territori naturali dove le linee di confine non sono fatte per stabilire chi sia il possessore, ma per definire le diverse sostanze delle cose.

Quando hai una personalità in disordine – mi permetto un gioco di parole – vieni definito borderline, ovvero stai a un passo dalla psicosi. Diamo per scontato che lo siamo tutti, tutti a un solo passo, tutti dannatamente borderline. Vien persino da ridere a dirlo, lo sappiamo benissimo anche se ce la raccontiamo diversamente.

Quello che si può vedere dal bordo, dalla linea di confine, è interessante. Ti rendi conto che tante cose grandi ormai sono piccole, che cose vicine si son fatte lontane, che un passo di qua o uno di là a quel punto può fare la differenza e sta a te scegliere. Interessante e spaventoso. Quando stai sul bordo cadono un sacco di giudizi, te li ritrovi in briciole sparse ai tuoi piedi, e ti domandi perché diavolo te li eri impastati e modellati con tanta cura, a cosa diavolo pensavi ti servissero? Quando stai sul bordo potresti avere voglia di sederti un attimo, potresti sentire il bisogno di pensare – in generale o anche pensare a te.

Un giro lungo i bordi dei propri confini fa bene a tutti. Addirittura può rivelarsi liberatorio. Non costa nulla, se non un bel quintale di illusioni e cazzate varie, e può cambiarti la vita. Cambiarti tutto. Devi solo decidere se sei pronto a rischiare o se preferisci far finta di nulla. Sta a te.

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(387) Ombrelli

Credo che gli ombrelli siano un’invenzione splendida. Davvero. Sono utili, sono colorati – volendo – sono pratici, sono belli. Un’invenzione splendida, ripeto. Gli ombrelli sono quelle cose che ho disseminato un po’ per tutto il tratto Udine-Brescia, o Milano – Brescia, o Torino – Brescia, nei miei anni da pendolare. Li ho dimenticati ovunque: nelle stazioni, nei bar, nei negozi, negli uffici postali… ovunque.

Certe volte, mentre corro sotto la pioggia in cerca di un riparo per non prendermi una polmonite fulminante, vedo perfetti sconosciuti che passeggiano tranquillamente perché portatori sani di bellissimi-utili-colorati ombrelli. Ogni tanto mi è pure sembrato che uno di questi ombrelli somigliasse paurosamente al mio, quello appena perso chissà dove, ma forse è stato solo un inganno della mente.

Non perdo tante cose, almeno non con questa frequenza e questa costanza da Guinness dei Primati, solitamente sto attenta. Ho perso una volta – inspiegabilmente, se ve lo raccontassi non ci credereste neppure voi – le chiavi dell’auto. Fu una giornata disastrosa, da non augurare neppure al tuo peggior nemico. Un’altra volta ho perso la borsetta, anzi, quella volta me la sono proprio dimenticata nella sala d’aspetto del medico condotto e quando l’ho ritrovata – grazie al suddetto medico – era stata ben svuotata di tutti i miei averi. Mi succede, solitamente, quando sono piena di cose in testa, ed è assurdo pretendere che ci stiano troppe cose nella mia testa. Come posso anche ricordarmi di riprendere l’ombrello che ho lasciato all’entrata soltanto dieci minuti prima?!

Non mi piace quando perdo le cose. Peggio quando perdo le persone. Ma se per le persone perse la colpa è da dividere a metà, per le cose me la devo prendere soltanto con me stessa. Eh.

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(386) Giustizia

giustizia /dʒu’stitsja/ s. f. [dal lat. iustitia, der. di iustus “giusto”]. – 1. a. [riconoscimento e rispetto dei diritti altrui, sia come consapevolezza sia come prassi dell’uomo singolo e delle istituzioni: agire secondo g.; fare un atto di g.; uomo di grande g.] ≈ correttezza, equilibrio, imparzialità, integrità, moralità, onestà, probità, rettitudine. ↔ disonestà, fraudolenza, immoralità, ingiustitia, iniquità, parzialità, scorrettezza. b. [di atto o comportamento, l’esser conforme a un diritto naturale o positivo: g. di un provvedimento] ≈ giuridicità, legalità, legittimità. ↔ illegalità, illegittimità. 2. (giur.) a. [potere di realizzare il diritto con provvedimenti aventi forza esecutiva, ed esercizio di questo potere: ministero di Grazia e G.; intralciare la g.; g. civile, penale] ≈ ‖ legge. b. (estens.) [autorità a cui tale potere è affidato: ricorrere alla g.] ≈ magistratura, potere giudiziario. ● Espressioni: collaboratore di giustizia [chi decide di collaborare con la magistratura pentendosi dei reati commessi] ≈ (burocr.) collaborante, Ⓖ (fam.) pentito. 3. [attuazione concreta della giustizia in casi determinati: chiedere, ottenere g.] ≈ riparazione. ● Espressioni (con uso fig.): fare giustizia (di qualcosa) → □; farsi giustizia (da sé) → □. □ fare giustizia (di qualcosa) [eliminare la presenza o gli effetti di cose fastidiose: occorre fare g. di questi intralci, di queste seccature] ≈ levarsi di torno (o dai piedi) (ø), liberarsi, sbarazzarsi. □ farsi giustizia (da sé) [reagire a un’offesa ricevuta senza ricorrere all’autorità giudiziaria] ≈ vendicarsi.

In realtà, a questa definizione non serve aggiungere nulla. Posso dire la mia per quanto riguarda le ingiustizie che ho dovuto ingoiare. Ecco, le ho dovute ingoiare perché mi trovavo senza mezzi per reagire, così pensavo. Ora mi domando perché non lo penso più, perché oggi reagirei diversamente?

Forse perché con l’età ho capito la mia forza, la forza di un comune Essere Umano che può decidere che quella cosa ingiusta che gli è capitata sul muso non va bene e non deve per forza andare bene anche se opporglisi potrebbe non essere facile o comodo.

Mi colpì molto un’affermazione di Eleonor Roosvelt, letta anni fa, che mi si impresse nella memoria: “Nessuno può umiliarti se tu non glielo permetti”. Che vuol dire tante cose, ma proprio tante, e tutte fanno capo all’idea che una persona ha di se stessa, del suo diritto di stare al mondo. Anni di costosa psicoterapia che porterebbero comunque a niente. Non è una cosa che si cura, è una cosa che si gestisce. Con tanta fatica e sofferenza, per tutti e nessuno escluso.

Non sono diventata invulnerabile, non sono meno esposta alle ingiustizie, non sono più potente o più furba o più abile nel gestire le cose della vita, questo no. Ho solo deciso a un certo punto che il mio oppormi non sarebbe stato silenzioso, non sarebbe stata soltanto una resistenza intima, perché così non basta. Non basta per niente, neppure per difendere quel grammo di autostima che giace in fondo al tuo stomaco. Non basta.

Ho imparato a dirlo ben motivato il mio no, anche se non viene ascoltato non importa. Importa che io sia capace di tirarlo fuori al momento giusto per dare forza alla mia opposizione. Ora voglio essere io a oppormi agli eventi che cercano di schiacciarmi, non loro che si oppongono al mio voler vivere e vivere bene.

Ci sono persone che senza nulla, né potere nè ricchezze né istruzione né genio, hanno saputo non solo opporsi alle ingiustizie, hanno saputo vincerle. Quelle che io ho subito sono ridicole al confronto, ma non sottovalutiamo le cose piccole perché sono capaci di minare fortemente la nostra Anima.

Detto questo, ogni volta che un’ingiustizia si scaglia contro un Essere Vivente sento le viscere torcersi e mi auguro che quell’Essere Vivente non si lasci andare, non si faccia schiacciare, non pensi neppure per un istante che non ha mezzi né risorse per alzarsi e opporsi. Alzarsi e opporsi, o sedersi e opporsi – come ci ha insegnato il Mahatma Gandhi – e che lo faccia d’istinto, senza perdere tempo, perché così dev’essere e basta. Ogni secondo perso è un’occasione che diamo in mano a chi quell’ingiustizia è deciso a farcela ingoiare contando sul nostro silenzio.

Non è così che il silenzio vuole essere usato, non per agevolare chi si arroga il diritto di sopraffare un altro Essere Vivente. Mai.

 

 

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(385) Ustione

La pelle ricorda tutto, ogni sgarro che le hai fatto le è rimasto impresso. I segni – cicatrici, smagliature, macchie ecc. – rimarranno con te per sempre per ricordarti quanto sei stato idiota in un dato momento della tua misera vita. Un modo simpatico per darti una svegliata e farti usare il cervello – cosa non troppo ovvia, evidentemente.

Mi sono ustionata durante una lunga giornata al mare, il mare di luglio, senza ombrellone e con la crema solare sbagliata (a dirla tutta l’avevo scambiata con l’autoabbronzate, non serve aggiungere altro). La mia pelle da quel momento rifiuta il sole, me lo urla facendomi salire la febbre.

Questa cosa super irritante me la devo tenere assieme alle conseguenze del caso, nonostante io ami a dismisura il mare. Racconto questa cosa perché è la più raccontabile, ho fatto un discreto numero di idiozie ben peggiori di questa e le conseguenze me le gestisco meno bene. Questo per dire che con il senno di poi avrei potuto benissimo evitarmi sofferenze e fastidi se al momento opportuno avessi usato il buonsenso. Mi sembrava poco importante, mi sembrava che non ci sarebbero stati strascichi e che tutto si sarebbe sistemato con poco.

L’idiozia è congenita, non si cura, ma la cosa che mi rode è che persone ben più idiote di me riescano a gestirsi le conseguenze decisamente meglio di me. Lo trovo ingiusto, ecco. Volevo soltanto dirlo: è profondamente ingiusto.

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(384) Welcome

Il benvenuto lo si dà a chi vediamo con piacere, si tratti di persona conosciuta o meno. Una forma di accoglienza che riempie di calore e crea un ambiente invitante, ti senti tra amici. Mi è capitato spessissimo di non riceverlo, ho capito immediatamente che in quel luogo, in quella situazione, con quelle persone, non ci dovevo proprio stare e ogni volta è stata un’agonia.

Le regole della buona educazione, ovviamente, servono a chi non usa la propria sensibilità a favore degli altri bensì la tiene rivolta unicamente a se stesso. Sarebbe bello poter rifarsi ancora a quelle regole che la nonna ci ha insegnato e che anche se facevi fatica a rispettare, per lo meno, ti rendevano un bambino piacevole da frequentare. Belli anche gli scapellotti che ti mollava tuo padre quando te ne fregavi delle regole e facevi lo zoticone. Sono cose che ti segnano e che ti si rendono utili per sempre.

Il benvenuto non è soltanto una questione di sorriso e di voce che ti invita a entrare, è una deliziosa trafila di dettagli capaci di creare quell’atmosfera distesa che ti supporta mentre offri la parte migliore di te stesso ai tuoi ospiti. Per qualcuno è una cosa innata, è un’energia che sanno maneggiare perfettamente perché hanno un cuore gentile e accogliente, hanno una sincera predisposizione nei confronti degli Esseri Umani e della Vita in generale, sono persone con una marcia in più – senza dubbio.

Io sono stata fortunata, le regole del benvenuto le ho imparate in famiglia. Le ho imparate a suon di sgridate, perché non mi venivano sempre naturali. Le ho imparate perché capivo che erano giuste, che era così che ci si doveva comportare. Le ho fatte mie non perché io sia particolarmente gentile, o dotata, ma soltanto educata. Educata, sì.

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