(962) Sicuro

Sentirsi al sicuro. Avere un posto sicuro in cui stare. Il senso di “casa” è questo no? E il massimo sarebbe poter trovare un posto così anche quando non siamo chiusi in casa nostra, magari quando siamo al lavoro o quando usciamo a divertirci. 

Spesso diamo per scontato che i posti in cui stiamo siano sicuri. Ci affidiamo, ci adagiamo – in un certo senso – a quell’idea. Quel “essere al sicuro” ci permette di vivere tranquilli e dare il meglio (e a volte anche il peggio) di noi stessi.

Non doversi continuamente difendere dagli attacchi di qualcuno o di qualcosa. Non dover stare perennemente all’erta nell’attesa che qualcosa di brutto capiti o che qualcuno ci arrivi addosso per distruggere quello che c’è o quello che siamo. Non dover preoccuparci continuamente della nostra sopravvivenza, ma allargare il nostro sguardo con l’ambizione di vivere bene e non semplicemente vivacchiare.

Dovrebbe essere questa la nostra priorità: sentirci al sicuro.

Non chiusi in casa, barricati, ma sicuri fuori e assieme agli altri. Non nascosti dietro a un muro, ma a cielo aperto con il vento che ci attraversa e senza per questo esserne devastati.

Sentirsi al sicuro ci fa dormire bene, ci fa mangiare bene, ci fa parlare bene a noi stessi e ci fa interagire bene con gli altri e in ogni contesto. Sentirsi al sicuro ci fa sorridere, ci fa prendere le cose brutte della vita con più leggerezza perché sappiamo che le cose brutte comunque succedono e dobbiamo comunque affrontarle.

Sentirsi al sicuro ci aiuta a comprendere chi al sicuro non è, ci rende più sensibili e più empatici?

No, non credo. Purtroppo il gap del “sentirsi al sicuro” è questo: ci si occupa solo di sé stessi e di accrescere la propria sicurezza, fregandocene di chi al sicuro non è. Dovremmo lavorare per colmare questa imperdonabile lacuna, credo. Perché sentirsi al sicuro è l’unica cosa che conta se pensiamo alla vita come al bene più prezioso che abbiamo.

Credo.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(380) Finzione

Quando creo una storia simulo situazioni e quindi racconto ciò che non è accaduto, ma che accade solamente nella storia che sto raccontando. La finzione all’interno della mia storia non esiste, tutto è reale. Realmente accaduto esattamente lì dentro.

Come sono rigorosa nel mio creare una storia, così lo sono nel creare la mia realtà. Non c’è finzione, è tutto vero.

Non la definirei una scelta, piuttosto una condizione naturale. Non so fare in altro modo e se scelgo una modalità diversa mi costa troppa fatica, troppi pensieri, troppi disagi. Crolla la coerenza, crolla la verosimiglianza, crollo io.

Simulare, se lo si fa bene, può cambiare la realtà in cui viviamo. Ovviamente l’intento non dev’essere l’inganno, non deve avere come scopo danneggiare qualcuno o qualcosa, la purezza dell’azione determina il risultato. Sto dicendo che ci sono persone che partendo da una situazione di estrema difficoltà hanno saputo crearsi un ambiente mentale talmente forte, talmente vero, che specchiandosi in una realtà mediocre l’hanno convinta a modificare i propri contorni… da lì la finzione ha preso il largo ed è diventata l’unica realtà disponibile.

Possiamo chiamarlo il potere della mente, possiamo chiamarlo la grande illusione o possiamo – meglio – non chiamarlo affatto, tanto l’evento accade continuamente anche a nostra insaputa.

La finzione di cui parlo è quella che ci permette di costruire anziché distruggere. È l’unica possibile, per me. L’unica che può farsi perdonare qualsiasi cosa.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(49) Costruire

Mi piace costruire, mi piace creare, mi piace vedere che quello che ho pensato poi sa stare su da solo. L’idea del costruire regge perché la penso come una cosa definitiva. Tutto quello che riesco a far stare su deve restare su per sempre.

Convinzione ingenua, lo ammetto, addirittura patetica. Lo so.

Ogni tanto mi scosto un po’ dalla mia posizione supponente e mi rendo conto che per fortuna  non  è così: quello che ho creato lo posso pure distruggere. Oddio, la parola distruzione non mi piace, ma se una cosa prima c’è e poi tu la annulli è comunque distruzione, anche se gli trovi un nome meno catastrofico.

Ecco, sono a questo punto qui: sto per distruggere qualcosa che ho creato e che ormai non ha più ragione per stare in piedi. Sento che è addirittura la mia creatura che me lo sta chiedendo, eppure mi sento a disagio nel portare a compimento il gesto di per sé drammatico.

No, non morirà nessuno. Ovvio.

Si chiude, semplicemente, un periodo che è stato lungo e denso di cose belle e brutte (ma quale periodo non lo è?). La dinamica è e sarà semplice: chiudo con un inchino e mi do ad altro. Pacifico che succederà, già mi sto dando ad altro ed è per questo che la creatura ormai non “serve” più.

Forse il verbo “servire” svilisce le cose, ma nella mia intenzione ha ben altra portata: ogni cosa che ora esiste nella nostra vita ha uno scopo e qualunque sia lo scopo va bene così. Quella cosa ci permette di traghettare la nostra anima da una sponda all’altra e credo che questo modo di servirci sia un dono che ci viene offerto e che faremo bene ad accogliere e usare al meglio.

Ringraziare questa mia creatura per il servigio che mi ha offerto è l’unico modo con cui mi posso permettere di distruggerla. Non è indolore neppure per me, se devo dirla tutta, ma è necessario. Un passo oltre tenendomi caro quello che è stato, ma senza più esserne legata da obbligo.

Va bene. Si procede.

Grazie. Di cuore, grazie.

b__

Share
   Invia l'articolo in formato PDF