(1086) Kleenex

Vanno via come le caramelle. Una volta che hai sulla scrivania una di quelle confezioni carine che ti fa spillar fuori i fazzolettini uno dopo l’altro è finita. Si perde il controllo. Le ciliegie a confronto perdono appeal perché loro sono lassative, ma i Kleenex no. Vittoria su tutta la linea.

Mi piacerebbe individuare nelle mie competenze quella che può produrre effetto Kleenex, mi risolverei la vita. 

Dovrebbe essere utile, morbida e a portata di mano. Facile da applicare a un target trasversale e che lasci un buon ricordo. Eh. Sono convinta che esiste in me questa competenza, che è più indole che frutto dell’esperienza, ma non avendo mai fatto analisi approfondita sull’argomento ancora mi è nascosta alla vista. Ci ho pensato adesso che ho posato lo sguardo sui Kleenex che ho posizionato esattamente sulla scrivania davanti a me, accanto al monitor. In evidenza, senza clamore. Stanno lì, e si offrono senza jingle né balletto, consapevoli che prima o poi io allungherò la mano e ne prenderò uno per usarlo. 

Forse se questo pensiero mi fosse venuto prima a quest’ora sarei altrove a fare altre cose. Forse non m’è venuto prima perché c’era scritto che avrei dovuto trovarmi qui e non altrove. Forse m’è venuto ora perché da qui in poi potrei aver bisogno di un superpotere per farmi arrivare in un luogo che ancora ignoro, a fare qualcosa che manco mi so ancora immaginare. Forse sono solo pazza e sto perdendo il controllo dei miei pensieri. Po’esse’.

Vabbé, però non è che mi viene un pensiero come questo e posso fare finta di niente. Sono condannata a pensarci per l’Eternità, o almeno fino al momento in cui non scoverò davvero il mio Kleenex-Power da mettere a buon frutto. Come se non avessi abbastanza cose da fare! 

Ho bisogno di dormire. Vado.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(940) Falchetto

Il falchetto che è in me ha vista lunga. Mi riscopro, di tanto in tanto, come quella che ci aveva già pensato e che ora sa cosa fare perché… ci aveva già pensato (e in tempi non sospetti). Una gran bella soddisfazione!

In realtà, la mia fame di conoscere cose che non conosco – anche random – mi ha aperto più di qualche volta a esperienze interessanti che mi hanno fatto crescere in autoconsapevolezza e competenza. Non tutto, è vero, ma tanto. Davvero tanto.

Se dovessi elencare ogni volta che ho letto un articolo o l’altro, che ho acquistato un libro o un altro (senza ancora leggerlo per di più!), soltanto sulla base di un vago e ipotetico questo-potrebbe-essermi-utile non finirei più. Forse il mio essere onnivora e curiosa comporta una certa dispersione di energie, ma in fin dei conti stare senza far nulla non sono capace, specialmente per la salute del mio cerebro che è meglio abbia da fare o parte per la tangente e chi lo ferma più.

Proprio ieri ho scoperto che ho bisogno di saperne di più su un dato argomento, che quasi tre anni fa reputavo foriero di nuovi progetti. Ecco, ricordandomi a spanne i titoli di un paio di e-book che mi ero downloadata li ho prontamente recuperati (Kindle, ti amo!) e son due giorni che studio come una matta. Con immensa soddisfazione. Sì, sono senza speranze.

Il morale si è ristabilito a un livello decisamente buono, le sinapsi stanno ricominciando a ingranare, credo di aver superato il tunnel anche stavolta e non ho intenzione di fermarmi fino alla prossima batosta.

Adelante Sancho!

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(920) Bus

Conoscevo l’ombra di un uomo che saliva sui bus random e scendeva al capolinea. Qualsiasi capolinea fosse lui scendeva. Qualsiasi ora fosse lui scendeva. Non sapeva, spesso, dove si trovasse. Si risvegliava in un altro luogo e in un tempo che non controllava più. 

No, non è una storia inventata, ma potrebbe essere l’incipit di una bella storia. Terribile, ma bella. Questa storia prima o poi la scriverò, ricorderò ancora quell’uomo e la sua ombra e ne farò qualcosa di utile. No, non per lui, forse per me, per liberarmi di quell’ombra e di quell’uomo e forse di tutti gli uomini e di tutte le loro ombre che ancora mi occupano la mente. Quelli reali e quelli no. 

Un bel traffico, lo ammetto e lo constato con una malcelata costernazione. Come si sono potute sommare tutte queste ombre dentro di me? Perché non ci ho fatto caso prima? Consapevolezza, questa sconosciuta. 

I bus che ho preso e da cui sono scesa non li conto più, forse dovrei. Ma ho idea che mi sentirei ancora più vecchia di quel che già mi sento e al momento preferirei non focalizzarmi troppo sulle somme che con il peso mi sotterrerebbero prima del tempo.  Comunque è quello che faccio ancora, prendere e scendere dai bus, penso di non aver fatto altro per tutta la vita in effetti. Che sia un’abitudine o un per-forza-di-cose? Non è quello che facciamo tutti? E le nostre ombre che fanno?

Il dubbio che la mia ombra ormai ne abbia piene le palle di seguirmi mi resta. Specialmente in questo momento. Non so perché ma mi sento più sola. 

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(647) Didascalia

Chi mi conosce sa quanto io odi le didascalie. O sono utili, quindi mi dai info ulteriori, oppure lascia stare, non sono scema, ci arrivo da sola – o ci sono già arrivata – grazie.

Però.

Ci sono delle volte in cui mi trovo costretta a usarle. Non perché io ritenga chi mi sta di fronte uno scemo bisognoso di vedersi sottolineare l’ovvio, ma perché mi rendo conto che il mio modo di comunicare non sta avendo il successo che speravo. Sto parlando una lingua che risulta ostica al soggetto a cui mi sto riferendo. Tristissimo per una che fa il mio mestiere, ma una bella doccia d’umiltà ogni tanto ci vuole e la vita con me non perde un colpo in questo senso.

Se per le cose pratiche basta che mi concentri un po’ e trovo il modo di colmare il gap, per le questioni emotive la faccenda si complica. Spiegare la gentilezza a un carro armato è una perdita di tempo, pretendere empatia da una carta moschicida lo stesso, penso di essermi spiegata. Non credo di essere l’unica a riscontrare questa difficoltà nella gestione dei miei rapporti interpersonali, quindi immagino che se dovessi trovare una soluzione a questa incapacità umana avrei vinto al superenalotto.

Rimurginandoci sopra da stamattina ancora non sono arrivata a grandi illuminazioni, ma qualche timida considerazione me la sono fatta, per esempio: metti che al telegiornale intervistino uno dei nostri politici e metti che quello che sta dicendo ci risulti incomprensibile per una qualsivoglia ragione, se passasse sotto la didascalia dell’esatto pensiero che il politico sta comunicando ci potrebbe essere d’aiuto, giusto? Non sto dicendo di riportare parola per parola ciò che sta uscendo dalla sua bocca (quelli si chiamano sottotitoli per i non-udenti ed sono parecchio utili, ma è un’altra cosa), intendo dire riportare in poche parole il concetto espresso. Molto probabilmente avremmo delle sorprese interessanti.

Scopriremmo che sotto quelle frasi che sembrano sensate, logiche, giuste, si nascondono concetti che sono sciagurati, disumani, atroci. Perché, Signore e Signori, le parole possono giocarci brutti scherzi. Le parole possono mascherare, possono nascondere, possono mistificare, possono reinventare la realtà. Le parole possono suonare dolci anche quando il loro significato è terribile, possono risultare crude quando fotografano la verità – specialmente quella che non vogliamo sentire – pur essendo giuste e umane.

Io amo le parole, ma come tutto hanno un limite, hanno una portata massima, e se usate da una mente malsana possono causare sofferenze enormi. Sarò didascalica: state attente alle parole, ma soprattutto a chi le sta usando. Non c’è da fidarsi, credetemi.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(575) Doccia

Sono sempre stata un tipo da doccia, bollente per la precisione. Se mi immergo in una vasca d’acqua bollente e magari profumata, dieci secondi e mi addormento. Con la doccia è diverso. L’acqua che scorre si porta via il peso dei pensieri e fa aprire porte e finestre mentali da cui l’aria può circolare.

Sembra un dettaglio ma non lo è. I tipi da bagno sono diversi dai tipi da doccia. Non meglio né peggio, ma diversi sì.

Fosse per me mi butterei in doccia ogni due ore, sono certa che il mio stato mentale ne trarrebbe un giovamento pazzesco. Ringiovanirei di almeno dieci anni in pochi giorni, ne sono certa. Comunque, la questione si pone ogni volta che mi trovo nella condizione scomoda di dovermi inventare qualcosa per togliermi dai guai. Posso passare ore alla forsennata ricerca dell’appiglio giusto, ma non succede nulla finché non mi butto in doccia. Dopo mezz’ora (almeno) devo uscirne alla velocità della luce prima che l’Illuminazione mi sparisca del tutto. A volte mi porto carta e penna perché arriva tutto insieme ed è un casino ricordare ogni dettaglio, specialmente per me che mi dimentico cosa sto facendo mentre lo sto facendo.

Le idee migliori mi sono arrivate tramite l’acqua bollente della doccia, sì, come se stessero appollaiate dentro i tubi e aspettassero pazientemente che io mi decida ad aprire il rubinetto. Impressionante, davvero. Vorrei, però, riuscire a controllare meglio la dinamica che si scatena perché se mi arrivassero i numeri della prossima estrazione del superenalotto potrei sistemare una doccia in ogni stanza e nessuna spesa sarebbe più utile e salvifica, poco ma sicuro.

Eh.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(486) Lucchetto

Certe cose vanno lucchettate (trad. chiuse con il lucchetto). Il diario segreto, la bicicletta parcheggiata, il cancelletto che se rimane aperto fa entrare il cane della vicina nel tuo giardino e fa la pelle ai tuoi gatti, la bocca quando parla troppo invece di tacere.

A dirla tutta, non ho mai dovuto chiudere con il lucchetto il mio diario segreto perché in famiglia ognuno si è sempre fatto rispettosamente i fatti suoi e non i miei; nessuno ha mai tentato di fregarmi la bici, ma il motorino me l’hanno fottuto proprio nel giardino dei miei zii e avrei davvero dovuto mettere la catena e il lucchetto alle ruote – maledetta me! – invece il cancelletto prima o poi lo chiudo davvero e per sempre, ci faccio un muretto di cemento armato così la vicina la smette di dimenticarselo aperto. Per quanto riguarda la mia bocca, qui è tutta un’altra storia.

Dovrei. Lo so, dovrei davvero tenere la bocca chiusa. Dovrei farlo almeno per la metà delle volte che la apro per parlare, dovrei fermarmi un secondo prima e stare zitta. Dovrei.

Non lo faccio, voglio dire che riesco a stare zitta soltanto per un misero 10% delle volte che dovrei e per il 90% mi affido ai Santi in Paradiso e non va sempre bene. Anzi.

Esempio: sto parlando con qualcuno e questo qualcuno dice una stronzata. Una di quelle che non sanno nulla di logica, di buon senso, di educazione, di nulla. Una di quelle che tutti riconoscono come bestialità, anche chi non le sta ascoltando. Ecco, per il 10% delle volte me ne vado, e le restanti apro bocca e dico la mia. Non risolvo niente, non arrivo a niente, non sono utile neppure a me stessa, eppure apro bocca e dico la mia.

Credo di essere un caso estremo di autoboicottaggio, oppure sono del tutto idiota, ancora non l’ho capito. So soltanto che la questione rimane: devo imparare a chiudere la bocca.

Un bel tacer non fu mai scritto… Eh!

 

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(377) Yoga

Ammiro sinceramente chi abbraccia questa splendida disciplina. Li guardo come un marziano può guardare con nostalgica tenerezza il suo pianeta che non rivedrà più. Come se in un’altra vita io fossi stata non solo una Yogi, ma  Patañjali in persona. Sento profondamente un legame che per quanto prima fosse forte è destinato a non ripristinarsi mai più.

Lo dico con un certo rimpianto, ma senza dannarmi l’anima. Fingere non mi piace, mi costa fatica.

Il mio cervello corre come un pazzo, fa niente se dormo o sono sveglia, lui corre e basta. Quand’ero adolescente cercavo di acchiappare al volo più pensieri che potevo per esternarli più che potevo. Non stavo zitta un attimo. Ho rischiato il linciaggio più di una volta, eppure non ho mai avuto un calo di voce, neppure nei momenti in cui mi devastava la febbre influenzale.

Mi succede ancora, ci sono delle giornate in cui i pensieri arrivano tutti insieme e vogliono uscire dalla mia bocca e se sono soltanto un po’ stanca e non mantengo la guardia alta rischio la vita. Col tempo i pensieri si sono affinati, il sarcasmo si è ridotto ma l’ironia ha preso forme pungenti che non sempre vengono accolte con piacere dal pubblico a cui mi rivolgo.

In tutto questo – anche se si potrebbe pensare che sono uscita dal seminato, non è così – so che la pratica dello Yoga potrebbe essermi utile – placare la mente – eppure la mia mente le pensa tutte per tenermici lontana. Non lo so, accade sempre qualcosa che mi spinge via, qualcosa che mi fa scegliere un altro modo per rafforzare il marasma di pensieri anziché affidarmi alla pace, al Nirvana.

Born to run. Non c’è dubbio.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(272) Scrittore

Ogni volta che mi trovo davanti a qualcuno che mi fa dono della sua storia non posso far altro che ascoltare. Non sovrappensiero, non infastidita, non già sapendo come va a finire. Ascolto e basta.

Lo faccio da sempre, forse è per questo che ho fatto di questo il mio lavoro.

Scrivere, infatti, non è altro che continuo e attento ascolto. Di sé, dell’altro, del mondo. Di quello che c’è e quello che non c’è, di quello che si vede e quello che non si vede, di quello che sarà e di quello che non sarà mai, di quello che è stato e che può continuare a essere perché certe cose non finiscono a meno che tu non voglia proprio dimenticarle.

Ci sono molti mestieri che fanno dell’ascolto l’arte su cui svilupparsi, ma lo scrivere le supera tutte. Ecco perché ogni volta che qualcuno che vuole diventare uno scrittore viene da me e mi chiede cosa fare non rispondo. Non c’è una formula magica per diventare uno scrittore. Lo devi essere da sempre, anche se non hai mai scritto una riga in vita tua. L’ascolto fa lo scrittore.

Ma se la vita, il mondo, l’Essere Umano non ti piacciono, allora non scrivere, non saresti utile a nessuno, neppure a te stesso.

 

 

Share
   Invia l'articolo in formato PDF