(774) Fragilità

Non ci facciamo i conti, ci pensiamo Déi, poveri noi. La fragilità è il nostro limite e il nostro limite ci parla giorno dopo giorno senza che noi prestiamo ascolto. Il nostro corpo è fragile, la nostra mente è fragile, le nostre convinzioni sono fragili, la nostra fede, la nostra volontà. Tutto quello che di buono abbiamo, in un istante con un colpo di forbici può essere tagliato via. La nostra rabbia, il nostro odio, la nostra arroganza, la prepotenza del nostro volere, invece… nessuna fragilità. Tutto quello che di pessimo riusciamo a fare di noi stessi è tutt’altro che delicato, diventa un macigno che rotolando si porta via tutto il resto. Senza pentimenti, senza cedimenti. Impressionante.

Il male, ce lo raccontano al cinema, non si ferma mai. Neppure la morte riesce a fermarlo. La nostra fragilità di fronte al male si propaga in modo devastante, ci sentiamo andare in briciole anche senza morirne. Perché non moriamo? Neppure quando il cuore ci va in pezzi, quando il corpo frana, quando la mente se ne va altrove, lontano da noi, perché?

Non sarebbe meglio? Alzi le mani, ti arrendi: ok, vado, hai vinto.

Non succede, non è così facile morire. Nonostante il tuo essere debole, spezzato, annullato dalla sofferenza, resisti. Non molli. Non per tua volontà, certo, non sai il perché, sai solo che non molli. Chi sta decidendo per te? Quale Dio crudele sta appropriandosi del tuo libero arbitrio per fare di te un fantoccio dolorante con cui giocare?

Nessun Dio, credo. Piuttosto penso sia la vita. E la vita non si sceglie, ti capita. La vita c’è, oltre al tuo volere e ai tuoi desideri. Se ne frega della tua fragilità, se ne frega della tua dignità, se ne frega e basta. Perché?

Forse sa che siamo meno fragili di quel che vogliamo farle credere, che spesso ce la raccontiamo per amor del dramma, per lamentarci e per tirarci indietro dando poi la colpa a lei. Lei ci conosce, facciamo così da millenni, eppure siamo ancora qua. Forse non stiamo benissimo, ma stare malissimo è un’altra cosa. Continuiamo a prenderla in giro o ci decidiamo a crescere una volta per tutte?

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(674) Umiltà

Di certo una dote, rara. Eppure mi sto domandando da qualche tempo quante facce può avere l’umiltà e se mi piacciono tutte. Siamo soliti pensare che ciò che non è umile è falsamente umile, e non a torto, ma la reale umiltà credo non abbia solo un modo per esprimersi e una sola faccia da mostrare.

Beninteso, non voglio dire che l’umiltà sebbene multifaccia e multiforma sia da dividersi in vera e falsa o buona e cattiva, dico soltanto che non penso che l’umiltà sia soltanto dimostrata dal prostrarsi, dalla mancanza di orgoglio, dal prendere le distanze rispetto alle proprie sicurezze personali. Non lo penso.

In realtà, mi imbarazza chi si prostra e chi si mette totalmente da parte perché non si pensa degno di considerazione. Sento dal profondo delle viscere che non va bene, che nessuno dovrebbe, che la dignità intatta e l’umiltà possono e devono abbracciarsi per completare l’uomo e la donna. Non si possono scindere senza causare uno scempio.

Non nutro la modestia, mi risuonerebbe dentro come una campana sbeccata. Non nutro l’arroganza, mi schiaccerebbe a terra piena di vergogna. Non nutro la superiorità come sentimento, mi ridurrebbe in cenere prima del tempo. Mi piace, però, valutare per bene i miei limiti e le mie forze, mi piace guardare le persone negli occhi – fossero il Papa o un neonato – considerandomi alla pari come Essere Umano. Mi piace riconoscere i meriti, i pregi, le capacità, i talenti, le genialità dei miei simili e imparare da tutti. Mi piacerebbe anche che le mie qualità fossero riconosciute senza doverle ostentare, perché ostentare è una di quelle cose che mi mette fortemente a disagio e lo evito più che posso.

Questa è la mia faccia dell’umiltà, non quella che i Santi potrebbero vantare, ma la mia personale modalità per pormi nei confronti del mondo con la presenza di cui sono capace – né più né meno. Basta test, basta chiedere il permesso e basta chiedere scusa. Ho una faccia soltanto e questa contiene versioni molto personali di pregi e di difetti. Come tutti, semplicemente come tutti.

 

 

 

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(592) Sorvolare

A volte per riuscire a dare davvero il 100% di me stessa in una situazione devo costringermi a sorvolare sui dettagli. Non posso intignarmi su particolari che non mi vanno a genio altrimenti mi cadono le braccia e non vado avanti. Diamo per scontato che la situazione perfetta non esiste, almeno io non ne ho mai incontrata una che una, quindi quello che devo fare prima di buttarmici è: valutare quanto questa imperfezione mi può essere sopportabile o meno. Insomma, fin dove devo lasciare che il mio fastidio si spinga. Metto in chiaro a me stessa che arrivo fin lì e non oltre e poi faccio conto che devo gestirmi il fastidio al meglio se voglio arrivare alla meta finale. 

Se i dettagli non sono proprio cosa da poco e il fastidio supera la soglia prefissata e sfocia nel dolore (quando i nervi stroppiano), manco mi ci metto. Dico grazie e me ne tolgo subito.

Sorvolare sui dettagli, però, non è che mi viene proprio facile. Di mio sono una che non si rassegna a farsela andare bene, una che quando vede che certe storpiature si possono raddrizzare non riesce a stare zitta. Lo so, sono una pigna nel c—, me ne rendo conto. Ma me ne frego. Solitamente me ne frego perché molto probabilmente parto da presupposti di arroganza blandamente mimetizzata. Va bene, mea culpa. Ma me ne frego anche di questo, non ho sensi di colpa al riguardo. Non lo so il perché, di fatto è così.

Quindi, partendo dal presupposto del “Conosci te stesso” non è che mi sia facile mantenere alto l’entusiasmo. Comunque è un doppio lavoro quello che devo fare: fai finta di niente e chiudi la bocca. Ti pare? A una come me? Se avessi ancora sedici anni non mi terrebbe zitta neppure una tempesta di fulmini scagliati da Zeus, ora le cose sono diverse. Non è che nel frattempo son diventata pigra? Molto probabilmente sì, discutere all’infinito mi sfinisce. Preferisco sorvolare. Fino dove e fino a quando… bhé, mica posso prevedere il futuro!

Tiro fuori il parafulmini, è meglio.

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(582) Morso

C’è questa cosa strana e fastidiosa che succede quando stai tentando di far comprendere al tuo interlocutore che sì, hai capito dove vuole portarti col suo ragionamento, ma la conclusione che a lui preme tanto per te è ininfluente. E lui ovviamente ti spiega per filo e per segno la logica che a te sembra sfuggire. Non sei in disaccordo con lui, no, non capisci. Quindi per farti capire meglio la voce rallenta, il concetto viene ripetuto per diverse volte e l’intercalare diventa: capisci, ora? Ti è chiaro?

Ed è preso così bene dal suo spiegare ed estrinsecare concetti aulici che tu – per quanto ti impegni – non riuscirai mai a cogliere l’arguta teoria e lui non si ferma e non si ferma e non si fermerà finché per sfinimento – perché ammettilo che non hai altra possibilità – non gli darai ragione.

Se un cavallo si trovasse in una situazione come questa, ma un cavallo è troppo furbo per trovarcisi, con uno scatto fulmineo del maestoso collo gli mollerebbe uno di quei morsi che farebbero zittire chiunque e per sempre. E adorerei poter essere un cavallo per farlo, davvero. Anzi, no, una cavalla. Perché in questo modo lo stupore sarebbe ancora maggiore e anche l’umiliazione che il demente si troverebbe a dover gestire sarebbe più bruciante.

Il concetto di base è che non mi servono spiegazioni, penso che la tua logica sia stata strutturata su fondamenta traballanti, che quello non sia il punto cruciale su cui discutere, che potrebbe anche essere utile, ma di sicuro non servirà a nulla se avessi il buonsenso e la gentilezza di rivolgere altrove l’attenzione, esattamente dove ti sto indicando io che – da donna – potrei darti la chiave per fare un salto quantico e trovare giovamento alla tua povera visione e per il tuo povero essere uomo. Arrogante, supponente e strapieno di pregiudizi mortificanti.

No, non tutti gli uomini, soltanto gli ometti come te.

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(566) Noioso

Noioso quando sai già come va a finire. Nessuna attesa, nessuna suspense, nessun tremore = noia. Questo tipo di noia ha il peso del “perdere tempo”, se mi accorgo che sto perdendo tempo il fastidio si trasforma in furia perché il tempo non si perde!

Noioso quando qualcosa che si ripete a martello ti porta all’esasperazione, anche in questo caso il fastidio si trasforma in furia e vado di katana. Perché passare il mio tempo cercando di tenere lontano il fastidio è perdere tempo e il tempo non si perde!

Noioso è tutto quello che con me non c’entra niente: per esempio litigare è un’attività noiosa, fastidiosa, senza alcun senso utile. Noioso è chi fa il fenomeno, chi pensa di poterti passare sopra senza colpo ferire, chi dice di saperla lunga e pensa che a te freghi qualcosa.

Andando per deduzione, tendo ad annoiarmi poco perché scelgo di fare cose interessanti e di interagire con persone altrettanto interessanti, ma non riesco proprio a limitare il fastidio che provo nel dover affrontare rotture di scatole a non finire durante la giornata. Ho provato a respirare profondamente, ad affidarmi al mio Buddha interiore, a lanciarmi in apnee inquietanti, ma non funziona: il fastidio ha sempre la meglio.

Mi rendo conto che questo stato rende me fastidiosa agli altri, ma non ci posso fare niente. L’idiozia mi infastidisce, l’inettitudine mi infastidisce, la spocchieria mi infastidisce, l’arroganza mi infastidisce, l’indolenza mi infastidisce ecc. – sì, la lista potrebbe continuare per giorni – e essere infastidita mi infastidisce. Non se ne esce.

Una doccia bollente, qualche buon proposito per domani, un buon libro in cui immergere i pensieri e… buonanotte.

 

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(555) Pochezza

Sì, la pochezza di certa gente mi lascia sempre esterrefatta. Sempre. E no, non sono un’arrogante, né una presuntuosa, sono soltanto nauseata dalla esasperante limitatezza di certi ragionamenti. Più sei ignorante più ti senti in diritto di dire la tua, ma la tua è una visione claustrofobica e maleodorante di tutto ciò che vedi perché non solo non hai i mezzi per raffinare il tuo pensiero ma di questo tuo imbarazzante gap ne sei persino orgoglioso.

Sì, quanto è bello poter far uscire tutta l’immondizia che hai dentro senza essere menato a sangue soltanto per il fatto che stai sporcando l’ambiente circostante con la convinzione che TU PUOI. Sputi su tutto e tutti. Tu la sai più lunga, tu vedi meglio di tutti, tu hai le risposte e le risposte portano sempre a una conclusione semplice e chiara: il mondo fa schifo, tutto fa schifo, tranne TU.

E questo ti fa stare bene, benissimo. Perché ti puoi lamentare, perché puoi guardare gli altri con superiorità, gli altri che non vedono, che non meritano, che se hanno qualcosa è giusto che la perdano – che qualcuno gliela tolga! – e che quel qualcosa vada a te. Tu meriti, tu vali, tu sei stato martoriato dalla vita e sempre ingiustamente. Tu vuoi la tua rivincita, tu vuoi che il mondo sappia chi sei, sappia che tu sei migliore di quello che loro pensano. Tu vuoi che tutti lo riconoscano così finalmente ti potranno baciare il culo.

Ecco.

Questo tipo di decerebrato quando lo incontri ti fa veramente vomitare. Ti vien voglia di dargli una testata sul naso, così senza neppure parlare. Te la do a prescindere, perché te la meriti, perché – sì – è giusto che il mondo sappia di te e sappia che tu meriti, meriti esattamente quello che dai al mondo ogni giorno. Meriti di essere ripagato per la tua immondizia e per la tua crassa boria che spargi ovunque senza ritegno. Meriti una testata in pieno viso. E se ti rialzi, ne prendi un’altra. Perché? Perché qualcuno che tu hai ferito, qualcuno su cui tu hai sputato, qualcuno che hai danneggiato e che hai deriso, denigrato, umiliato, ecco proprio quel qualcuno ha diritto pure lui a una soddisfazione. Il tuo silenzio è un principio di ricompensa, secondo me.

Bé, da qualche parte si dovrà pur iniziare, no?

 

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(502) Quintessenza

Incontrare la quintessenza dell’incompetenza è un’esperienza che consiglierei a tutti. Se poi si unisce alla quintessenza dell’arroganza, si raggiunge il top. Anche questa la consiglierei, perché da quel momento in avanti il mondo non ti sembra più lo stesso.

È come se ti si fossero spalancate le porte della percezione, dove tutto quello che pensavi fosse illusorio diventa reale e tutto ciò su cui basavi il tuo solido sapere si rivelasse essere aria fritta.

Non riesci a capacitarti del fatto che quello che stai vivendo sia un evento eccezionale e al contempo non così raro – solo che a te, con questa intensità, non era mai capitato – e che per quanto tu faccia non potrai cambiare le cose: la quintessenza (di qualsiasi cosa) vince su tutto.

E non serve appellarsi al buonsenso, ai limiti che non vanno superati, al rispetto per una professionalità che vive di esperienza e preparazione… macché! Tutte idiozie, l’arroganza da sola potrebbe ribattere con veemenza che i soldi fanno il padrone e gli altri son pur sempre schiavi, figuriamoci quando questa arroganza viene sublimata a quintessenza. Non se ne esce.

Ci sono tanti modi per vivere, e vivere da arroganti (anche se sublimati) non è mai stata una mia ambizione, ma per quanto io cerchi di scappare vado sempre a cozzare con una fottuta quintessenza di qualcosa e – come ho già detto – non c’è battaglia che tenga, è sempre lei che vince. Vince su tutto.

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(501) Maleducazione

Oggi, per la prima volta in vita mia, ho risposto a tono. Non ci ho messo neppure un secondo in esitazione, ho risposto mantenendo la mia posizione e facendo indietreggiare la maleducata senza a mia volta esserlo, maleducata intendo.

Per chi mi conosce davvero, questo exploit potrebbe essere uno shock.

Io sono quella che all’arroganza contrappone il distacco, alla prepotenza risponde con la gentilezza e alla maleducazione riserva una battuta ironica. Funzionano tutte, direi anche sempre, puntualmente, ma oggi ho cambiato tattica. Ho risposto come Dio comanda: affermando la mia persona e pretendendo il minimo rispetto sindacale. Rispetto come persona e come professionista. Non te lo chiedo, me lo prendo il tuo rispetto mettendoti al tuo posto.  Io non entro nel tuo spazio e tu non entri nel mio spazio – diceva Johnny a Baby mentre le insegnava a ballare il mambo. Il mambo così funziona, così dev’essere ballato. Amen.

Ho rimurginato tutto il giorno sul motivo scatenante del mio colpo di scena – reazionario, direi – e forse il punto è che questa persona non mi conosceva e io non conoscevo lei, non ci potevamo guardare in faccia (era una telefonata) e oggettivamente parlando il suo sbottare malamente a prescindere da chi ci fosse dall’altra parte del telefono è stato idiota. Non mi sono offesa, mi sono incazzata. Non mi sono infastidita, mi sono incazzata. Non mi sono sentita spiazzata, mi sono incazzata. Quel sacrosanto “adesso basta!” che ti fa alzare la testa, abbassare la voce portandola tutta alla gola per snocciolare le tue argomentazioni lucidamene senza perdere una battuta, senza farti interrompere finché non hai finito. 

Posso fare anche questo. Brava, Babs!

Cosa non farei mai, però, è armarmi di una pistola e sparare random a tutti i maleducati che trovo per strada. Perché non lo faccio? Perché questa cosa non posso farla? No, la potrei fare se lo volessi. Il punto è che non mi viene neppure in mente di poterlo fare. Non lo voglio fare. Non è la follia omicida che guida la mia reazione. Non è l’odio razziale, il pregiudizio, la vigliaccheria d’anima, il pensiero grezzo, la bile sovraesposta, non è questo che io alimento con il mio vivere. Tutta quella robaccia non mi appartiene, non ho imparato questo dalla vita. E non giustifico chi decide di farlo, e non evito di dargli il nome che si è guadagnato nel farlo, e non avvallo quel crimine e condanno strenuamente le invisibili firme che lo supportano.

Noi possiamo prendere una posizione, affermare la nostra presenza, dichiarare la nostra intenzione a non essere prevaricati, agire in modo da meritare e quindi – di conseguenza – pretendere il rispetto dagli altri quando viene a mancare ingiustamente. Possiamo farlo controllando le nostre paure, gestendo meglio la nostra emotività, monitorando i nostri sentimenti, respirando profondamente quando la fatica ci espone e ci rende vulnerabili. Tutto questo e molto altro possiamo fare.

Non possiamo superare il limite, però, perché soltanto un millimetro al di là della linea non c’è ragione che tenga, diventiamo noi quelli da condannare. Anzi, siamo noi quelli già condannati.  E senza appello.

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(478) Dolcetto

Ce la metto tutta a scovare l’aspetto consolante negli eventi bastardi. Ce la metto talmente tanto tutta da risultare patetica a me stessa. E non è affatto consolante. Nella mia stravagante forma mentis non è prevista la sconfitta totale. Francamente, non riesco a valutare una qualsiasi sconfitta come intera, completa, la considero sempre sconfitta per massimo il 97%. Sospetto il perché, però mi sembra una conclusione semplicistica e sono portata a pensare che non stia tutto lì.

Entra in ballo il concetto di umiltà, virtù della quale probabilmente sono sprovvista ma che ho in grande considerazione. Forse, quel 3% che ripara le mie sconfitte dall’essere complete è proprio il mio dolcetto. Lì ci metto quello che mi può tirar su un po’ il morale: il fatto che comunque ci ho provato, che comunque ho imparato qualcosa in più, che comunque se dovessi affrontare di nuovo la stessa situazione me la caverei meglio. Cose così, cose che mentre le pensi ti fanno sentire meno fallita, cose che ti racconti perché non vuoi infierire, hai compassione di te stessa e facendo un paio di conti non fai torto a nessuno se ti crogioli due minuti in quel benedetto 3% che ti concedi come premio di consolazione.

E non voglio dilungarmi sul fatto che nessuno mai ti offre un dolcetto quando crolli sconfitto, ti viene data una pacca sulla spalla che sa di pietà più che di comprensione, pertanto il dolcetto che riservi per te può essere il serbatoio segreto di energia a cui attingere quando tutto sembra finito.

Certo, se apri il dolcetto non trovi mai il biglietto della fortuna che ti fa fare la svolta, ma anche se disfatta mica sei così idiota da pensare il contrario. So con sicurezza che nessuna sconfitta se assorbita come totale, completa, intera, può portarti a un pensiero positivo, è sempre devastazione. E visto che di devastazione si può anche morire, scelgo una punta di arroganza zuccherina per ogni sconfitta che mi piomba addosso. Di meglio non so fare, purtroppo.

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(420) Nanosecondo

Precisamente il tempo che mi ci vuole per capire come girerà la cosa. L’illuminazione è questione di un istante, lo sanno tutti, anche quelle di settore (quella generale mi è ancora preclusa) e se ti applichi può avverarsi con regolarità e una certa sostanza.

Ci sono state circostanze nelle quali, per una serie di dubbi sul mio efferato sesto senso, sono passata oltre, ho registrato i segni ma senza volermici troppo soffermare. Pudore? Speranza? Dabbenaggine? Non lo so, forse un po’ di tutto questo e anche altro. Fatto sta che poi le ho pagate care certe scelte troppo fiduciose partendo da evidenti presupposti malsani.

Se ripenso a ognuna di queste posso indicare con certezza assoluta l’istante di consapevolezza che poteva salvarmi dalle rovinose conseguenze. Quel nanosecondo benedetto che io ho guardato con candore e che ho ignorato, invitandolo a ripresentarsi più tardi. Diamoci una chance, mi dicevo. E sbagliavo.

Non sono più così pudica o illusa o scema, credo, perchè ora quel nanosecondo me lo tengo ben vicino e me lo curo finché non decido il da farsi. Che a volte basta anche non fare niente e già la non decisione può cambiare tutto. Sono certa che ogni Essere Umano abbia un numero impressionante di nanosecondi di illuminazione su cui contare, solo pochi sanno coglierli. Basterebbe dar loro retta, in effetti, però ci vuole coraggio. E un po’ di arroganza. E un po’ di facciatosta. E un po’ di diplomazia. E un po’ di macchisenefotte.

Ci si arriva col tempo, molto probabilmente, ma conviene imparare in fretta.

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(365) Trecentosessantacinque

365: i *Giorni Così* che ho scritto, i giorni che ho vissuto, i giorni che sono passati da quel 28 settembre 2016 in cui ho voluto iniziare questa piccola cosa senza senso. Fa impressione, no?

Devo ammettere che non è la prima cosa senza senso che ho fatto, e che le precedenti son durate parecchio, però questa ha un elemento che la rende inaccessibile a qualsiasi altro genio volesse farmi concorrenza: è completamente e assolutamente inutile. Non solo: non viene minimamente pubblicizzata né da me né da alcuno. Provate a fare di meglio se ci riuscite!

La confessione scoop che oggi voglio offrire a chi si fermasse qui per festeggiare è che *Giorni Così* è il mio egoistico modo per tenere traccia di me. Lo faccio già sul cartaceo, è vero, ma lì le cose diventano più psicoanalisi da lettino: dico cosa ho fatto durante la giornata, dico cosa mi ha fatto girare le palle, dico cosa mi propongo di fare il giorno seguente. Una noia da guinness dei primati. Invece, qui sul diario virtuale, mi impongo di parlare d’altro. Parlare di tutto quello di cui di solito non voglio parlare perché mi sembra che sia ovvio, visto che lo penso.

Ho scoperto che quello che penso non è ovvio neppure per me stessa. Una scoperta sconvolgente e nel contempo affascinante, ve lo assicuro. Significa che finché non lo scrivo non so che lo sto pensando. Il che la dice lunga sulla mia presenza mentale in questa dimensione terrestre, ma anche su un altro aspetto della mia persona che viene spesso giudicata malamente.

Mi spiego: quando parto per la tangente e mi infervoro su un concetto, la gente spesso si infastidisce, o si spaventa, perché pensa che io mi voglia mettere in cattedra per fare lezione. Ergo, la gente mi pensa una presuntuosa-a-tratti-arrogante che crede di avere la verità in mano e vuole imporla al resto del mondo. Non dico che non sia così, perlamordelcielo, dico solo che ragionando ad alta voce il pensiero prende una forma che riesco a vedere, che riesco a riconoscere, che riesco a tenere in mano per rigirarmelo per bene e capire un po’ di più. Più trovo davanti a me contrapposizione di veduta e più il pensiero è stimolato a farsi solido, a farsi specifico, a farsi spesso anche ingombrante. E io capisco meglio. Da lì inizio un percorso a ritroso, molto intimo, in cui mi faccio domande pungenti e imbarazzanti (Perché la pensi così? Perché t’incazzi così? Perché parli troppo? E via dicendo… ) e vengo a capo un po’ del mistero che sono.

Ecco, questa cosa qui non ho mai avuto la possibilità di dirla a nessuno. Nessuno me l’ha mai chiesto e nessuno ha mai pensato che al di là di ciò che si vede e si sente può esserci una me piuttosto diversa. Piuttosto in bilico, piuttosto in ricerca, piuttosto vulnerabile. E non è che sia così importante che nessuno se lo chieda, diventa invece di vitale importanza per me perché io ho il dovere di chiedermelo e di non scappare davanti alla risposta. Le risposte che riproducono la realtà delle cose, fanno risultare il mistero che sono meno mostruoso. Più umano. Non per gli altri, no, ma per me stessa sì.

Buon primo anniversario *Giorni Così*!!!

 

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(249) Pietre

Ci sono parole che ti arrivano come pietre. Se ti colpiscono, se non riesci a schivarle, se senti il dolore, allora quelle pietre fanno la differenza. Non ne vuoi più e quindi due opzioni ti si parano davanti: o impari a schivarle o eviti chi te le sta lanciando.

Io evito.

Questo può essere letto in molti modi, come arroganza o come vigliaccheria o come che-ne-so-io, ma il motivo è semplice: schivare le pietre mi stanca. Stare sul chi va là continuo, mi stanca. Quel tipo di mortificazione mi stanca. Convincere il mittente a smetterla di tirarle è inutile – in generale è inutile prodigarsi per far cambiare idea a qualcuno che ha voglia di tirarti le pietre. Lo farà comunque, anzi, sempre più convinto che fa bene a farlo visto che le ricevi così male.

Il vecchio Antoine aveva ragione, non ha importanza che tu sia bello/brutto buono/cattivo comunque pietre in faccia prenderai, pertanto sta a te decidere: resti o te ne vai? Ecco, io me ne vado. Grazie.

 

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