(1032) Mosse

Quando sei in partita, qualsiasi mossa tu faccia può essere l’inizio del tuo fallimento o della tua vittoria. Ogni dannata mossa. Se non dimentichi questo dettaglio la cautela può giocare contro di te, se te lo dimentichi la leggerezza potresti pagarla cara prima di finire la partita. Comunque sia son cavoli tuoi.

Dosare cautela e leggerezza diventa cosa di primaria importanza. Se vuoi vincere. E tutti vogliono vincere.

Il valutare la mossa e calibrare la potenza dell’azione dovrebbe essere anche divertente, altrimenti che giochi a fare? Se non ti diverti, chiediti il perché. Non sei obbligato a giocare, puoi sempre scegliere di lasciare la partita e chi s’è visto s’è visto.

A me piace giocare quando si rispettano le regole, quando la vittoria non è scontata, quando il sorriso accompagna l’azione. Sono pochi i giochi che sanno garantire queste premesse. Col tempo ho perso la predisposizione al gioco. Scelgo bene, anzi ci penso su parecchio prima di scegliere. Sperando di scegliere per il meglio. Non sempre ci riesco.

Le mie mosse al momento sono cervellotiche, sulla difensiva. Mi ritrovo a calcolare troppo le eventuali perdite e le cadute. Sono più preoccupata di subire una cocente sconfitta piuttosto che focalizzata sul vincere. Giocare così non ha senso.

L’unica mossa intelligente che posso permettermi al momento è non giocare affatto. Aspettare. Osservare. Ascoltare. Lasciare che il gioco sia condotto da chi si sta divertendo e che può impiegare il suo tempo senza altro scopo se non il vedere-come-andrà.

Rimando al futuro ciò che nel presente non so maneggiare.

Passo e chiudo.

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(1031) Scollamento

Per la maggior parte del tempo abbiamo la consapevolezza di essere un pezzo unico. Corpo + mente + cuore = Persona Intera. Non fa una piega. 

Ci sono dei momenti, però, dove fatalmente ci si scolla e ci si scopre essere fatti di brandelli messi insieme, anche bene perlamordelcielo, ma che possono volersi staccare quando le condizioni spingono-tirano-premono-squassano. Mai capitato?

Il corpo va da una parte, la testa dall’altra, il cuore tace.

Oppure: il cuore è in tachicardia dura, il corpo non risponde, la testa pensa che i pisellini della Findus son ben più teneri di quelli freschi. 

Cose assure, surreali.

Ai momenti di piena compattezza, dove si va avanti con grande presenza e si affronta la giornata come se fossimo posseduti dallo spirito di Gandalf e oggettivamente saremmo capaci di conquistare il mondo terracqueo, a quelli dove ogni pezzo di cui siamo composti si fa i cazzi propri e non c’è verso di farli comunicare.

L’unica è dormire. No, davvero, bisogna soltanto raggiungere un posto al sicuro, stendersi su un materasso morbido e dormire. Dormire a lungo, ostinatamente, come se niente fosse più importante al mondo.

In realtà è proprio così. Perché se non stiamo incollati e ci scappiamo da tutte le parti, come possiamo affrontare il mondo che ci vuole fare a pezzi?

Non possiamo. Quindi: buon riposo e… spegnete la luce.

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(1030) Diverso

diverso /di’vɛrso/ [lat. diversus, propr. part. pass. di divertĕre “deviare”]. – ■ agg. 1. a. [che si differenzia, anche con la prep. daè molto d. da te] ≈ differente, difforme, dissimile, distinto, disuguale. b. [che è in contrasto, anche con la prep. da] ≈ e ↔ [→ DIVERGENTE (2)]. 2. (ant.) [che ha caratteristiche non comuni ≈ bizzarro, inconsueto, insolito, singolare, strano. ↑ mostruoso, orribile. ↔ comune, consueto. ■ s. m. 1. (f. -a) (soc.) [chi è considerato da altri, o considera sé stesso, non conforme a una presunta normalità, in fatto di razza, propensioni sessuali, condizioni fisiche, ecc.] ≈ ‖ anormale, emarginato. ⇓ handicappato, omosessuale, portatore di handicap

Credo che tutti noi, a un certo punto della vita, abbiamo pensato che non sarebbe stato male essere diversi da come siamo. Come diversi? Non lo so… più intelligenti, più belli, più alti, più bassi, più magri, più grassi, più ricchi, più su o più giù. Oppure meno sfigati, meno poveri, meno ingabbiati… meno qualcosa. Comunque diversi. 

Credo che tutti noi, di tanto in tanto, abbiamo pensato che siamo davvero diversi dagli altri. In meglio o in peggio, comunque diversi. Quando ci troviamo a cantare fuori dal coro, quando non facciamo le pecore nel gregge, quando alziamo la testa e affermiamo la nostra verità, quando il come siamo ci obbliga in una condizione di emarginazione forzata… non siamo come gli altri, gli altri che ci rifiutano.

Essere diversi: croce e delizia.

Mi sorprende sempre questa ambivalenza del sentire umano. Come possiamo illuderci di essere sani di mente quando la stessa condizione ci comporta sentimenti opposti? Essere diversi per distinguersi dalla massa, tutti a caccia della nostra intima originalità. Essere diversi e doversi difendere da chi ti accusa di non essere come loro, conforme alla loro idea di normalità, vivere nascosti chiedendo scusa o dare testate a destra e a manca. Follia.

In tutto questo marasma di controsensi gestiamo il nostro quotidiano senza uscire contemporaneamente tutti fuori di testa (diciamo che ci passiamo il testimone e si aspetta il proprio turno per sbroccare, solitamente). Notevole, vero?

Ok, comunque se io potessi essere diversa sarei comunque me. Soltanto un po’ più simpatica. E ho detto tutto.

[allegria]

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(1029) Corda

Mi rendo conto che sto tirando troppo la corda e che le mie sinapsi e il mio corpo dolorante si stanno ribellando. Ma io continuo imperterrita a impormi di fare i salti mortali perché penso che non ci sia altra scelta.

Ovvio che il mondo non cade se mi fermo io. Ma quello che sto facendo mi impone di continuare perché se mollo crolla tutto. Tutta la mia vita intendo. Questa condizione non mi rende infelice, ma perennemente stanca. Tirare la corda stanca.

Partendo da qui va anche detto che non sto lavorando in miniera per cui non sono di certo io la più stanca zombie che si aggira sulla Terra, ma ognuno sente il suo perciò dichiararmi sfinita non mi pare brutto. Direi piuttosto doveroso. Cambia qualcosa? No, ma lo dico lo stesso.

Allargando il discorso, vorrei soffermarmi sul pensiero che ci sono nel mondo, e sono tantissime, persone che di gran lunga hanno più diritto di me di dichiararsi sfinite, e che queste persone sono costrette a tirare la corda e impiegare ogni grammo di energia residua per portare a termine le proprie giornate. E poi ci si ammala, e poi si sbrocca, e poi succedono casini inenarrabili.

Tirare la corda lo si fa per inerzia, senza pensare di essere arrivati agli sgoccioli, si sottovaluta la propria situazione e ci si convince che quel fantomatico ancora-un-po’ non ci ammazzerà. Siamo fatti così.

Il punto è che Iron Man se lo può pure permettere, noi umani-normo-dotati no. Quindi? Quindi fermarsi mezzo metro dal burrone potrebbe non essere sufficiente, bisogna bloccarsi un paio di km prima almeno.

Lo dico a me e lo dico a chiunque passi di qui a leggere queste righe: bisogna fermarsi quando il burrone non è ancora visibile. Tanto lo sappiamo che c’è, dobbiamo tenerne conto in modo da salutarlo da lontano senza finirci dentro.

Quindi… abbiate cura di voi, ovunque voi siate, sempre.

Buonanotte Folks.

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(1028) Bivacco

Mai avuto la sensazione  che la vostra vita sia un bivacco? In procinto di ripartire, di traslocare, di andare altrove? Di vivere come se non apparteneste a quel luogo, ma esservi fermati in una tappa lì nel mezzo del cammin di nostra vita perché la notte vi ha sorpreso durante il viaggio… insomma, qualcosa del genere. Mai?

Ecco, non è concettualmente una cosa brutta, ma in certi giorni la realtà può schiacciarti al suolo e di ripartire hai proprio zero voglia. Eppure, devi farlo. Raccogli le tue poche cose e ti incammini di nuovo sul sentiero che ti porterà altrove. Dove? Boh. Altrove.

Che nella pratica, è bene sottolinearlo, non significa che cambi vita, che cambi casa o lavoro o fidanzato o testa. No. Tutto rimane lo stesso. Questo è lo scollamente che provoca la sottile devastazione intima che ti accompagna. Il paradosso letale.

Va bene, so che di ogni cosa so farne un dramma e – comunque – non mi prendo così sul serio come sembra, ma questa cosa qui, questo bivaccare in procinto di spostarsi, è veramente logorante. E le frasi di consolazione tipo “nulla è per sempre”, non è che sollevano il morale, ti fanno piombare in un baratro di cinismo alla Jessica Jones (che tutti i torti non ha, po’ra stela).

La vita non è mai troppo chiara, neppure quando ti dà segnali forti che sembrano inequivocabili tu sai che parla per metafore, e io con le figure retoriche non sono bravissima, me le confondo, e soprattutto mi confermo un’incapace davanti ai rebus, alle sciarade e agli anagrammi… un’ebete totale. Quindi – va da sé – riuscire a capire cosa diavolo significhi davvero questo bivacco di vita in cui sono intrappolata diventa abbastanza faticoso.

Ok, capire è forse un verbo sopravvalutato – se riguarda me in primis – ma qualcosa vorrà pur dire, qualcosa sotto c’è di sicuro. 

Ah, già… è martedì. Questo spiega tutto.

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(1027) Rubare

Rubare la gentilezza dagli altri, mortificandola con la crudeltà, dovrebbe essere un reato punito dalla Legge. Non lo è.

Rubare la buona fede degli altri, massacrandola con le più abiette azioni, dovrebbe essere un reato punito dalla Legge. In certi casi sembra lo sia, nella realtà non lo è, o comunque non abbastanza.

Rubare la gioia dagli occhi degli altri, violentando ogni pensiero positivo con la lucidità di uno sterminatore, dovrebbe essere un reato punito dalla Legge. Non lo è. Strano, vero?

Perché rubare un libro dallo scaffale di una libreria, rubare un gioiello dallo scrigno di una signora, rubare milioni e milioni da un caveau di una banca, non è come rubare la forza dall’Anima di un altro Essere Vivente. Non è la stessa cosa. Eppure la Legge punisce l’azione contro le cose e non a sufficienza contro l’Anima delle persone. La Legge punisce blandamente il danno al corpo e prende in considerazione un ipotetico danno morale, che detta così vien da ridere quando si tratta di certi crimini. 

Rubare lo facciamo tutti, continuamente. Rubiamo il tempo delle persone quando pretendiamo la loro attenzione per milioni di fesserie che ci vengono in mente ogni minuto. Rubiamo l’energia delle persone quando li impegnamo in attività e pensieri che risultano utili solo a noi – non certo a loro – o che addirittura sono del tutto inutili e privi di senso (ci sono migliaia di lavori pagati che sono proprio questo: un’inutile perdita). Rubiamo e siamo derubati, incessantemente. Perché il tempo e l’energia non viene mai ripagata a sufficienza, nessuno si può ricomprare il tempo perso o l’energia versata.

Rubiamo l’amor proprio delle persone con la nostra noncuranza e veniamo costantemente deprivati del nostro amor proprio appena abbassiamo la guardia. 

E allora essere fermi nella propria natura che respira e pensa e sente e prova e riprova a non lasciarsi andare, non è più sopravvivenza, è urlo di vita che può spaccare qualsiasi suono. E mi domando senza sosta: perché non urliamo abbastanza? Perché ci facciamo zittire dal Male? Perché?

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(1026) Veggenza

s. f. [der. di veggente], non com. – Capacità di vedere chiaro e lontano con la mente, chiaroveggenza.

Siamo tutti dei veggenti, e se ci affidassimo di più al nostro stomaco ce ne renderemmo conto. È lui che ci dice cosa ne sarà di noi nel breve e nel lungo termine.

Stai per prendere una decisione e il tuo stomaco ti lancia un segnale: tutto bene (è rilassato), guai in vista (è aggrovigliato). Non sbaglia mai.

Ovvio che ci piacerebbe fosse più preciso sul tipo di guai che andremo ad attraversare, ma non è che può scendere troppo nei dettagli e ti chiede di fidarti di lui così com’è. Noi, se non abbiamo la scaletta delle sciagure ben presente davanti agli occhi (con data e ora segnata) pensiamo sempre che male che vada sopravviveremo e questa stramaledetta visione ottimista ci fa prendere sotto gamba l’avvertimento. Qualsiasi avvertimento.

Certo, per la maggior parte delle cose siamo tenuti a sopravvivere, ma nessuno fa conto di quante volte si muore dentro – nell’Anima – e di quanto queste piccole morti ci fanno cambiare. In peggio, ovviamente.

Eppure non è così difficile schivare certe sciagure, basterebbe collegarsi con il nostro corpo e mettersi in ascolto. Per esempio: se stai parlando con un tipo bello e affascinante e le orecchie ti fischiano, non è perché ti stai innamorando, ma perché il treno di casini che sta per investirti ti lancia un segnale inequivocabile per farti scansare. Togliti di mezzo ora! 

Ecco, cose così, cose da nulla, cose che diamo per scontato siano significanti di qualcosa e invece è tutt’altro. Negare l’evidenza dei fatti è stupido, conviene mettercela via: la nostra chiaroveggenza supera la nostra intelligenza. Fidiamoci dei segnali che ci mettono in allarme. Una ragione c’è. Sempre.

Detto questo, che vita sarebbe se schivassimo ogni treno che ci piomba addosso e fossimo sereni e felici nel nostro Eden tranquillo?

Domandiamocelo. Però, una vacanza ogni tanto in quell’Eden tranquillo ce lo meriteremmo pure.

Eh. Riflettiamoci sopra un po’ e prepariamo le valigie.

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(1025) Difesa

S’impara tardi a difendersi dalle parole.  (Erri De Luca)

Giocare in difesa è brutto, stai lì a parare colpi che arrivano random e i nervi saltano da una parte all’altra ad ogni alito di vento. Quindi, quando so che non posso fidarmi, mi allontano.

Certo che so prenderli i colpi, ma dopo un po’ ti stanchi. Non fanno meno male col tempo, fanno più rabbia.

Le cose non dette, le strategie viscide – dove niente è chiaro e non capisci cosa sta succedendo – mi hanno stancata. Prima o poi me ne accorgo e non è che te ne viene in tasca qualcosa, quindi lascia stare. No, non lo dico. Lo penso e basta. Lo penso e mi allontano.

Perché bisogna anche imparare a difendersi, non si nasce già sapendo. Impari con i colpi presi e la cosa più difficile è rendersi conto che non andrà mai meglio, ma che la difesa è necessaria per preservare la tua salute fisica e mentale sempre. Sempre. Credo sia l’unico per-sempre su cui si possa davvero mettere la mano sul fuoco.

La difesa migliore è l’attacco, dicono, e ho imparato anche ad attaccare, ma non riesco mai a essere efficace, manco di cattiveria. Posso però cancellare dal mio presente chi voglio, questo è provato, quando scopro il gioco procedo e via. Un attacco discreto, anche indolore, silenzioso di sicuro. Nessuno se ne accorge, ma io so. E mi basta.

I lucchetti ai cancelli? Sì, ma quelli al cuore pesano di più.

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(1024) Inciampare

Possiamo inciampare su tutto e tutti. Io, per esempio, in questo sono una maestra. Scegli una cosa a caso, una cosa innocua, inutile, invisibile, io posso inciamparci. E, nove volte su dieci, farmi male.

No, no, sembra una cosa da nulla, invece è un vero talento. Appena capisco come farlo fruttare diventerò ricca e famosa. Mi basterebbe ricca, a dire il vero.

Lo faccio da sempre, inciampare su tutto intendo, e l’ho sempre dato per scontato, come fosse una cosa che appartiene all’intero Genere Umano, una delle conseguenze del vivere quotidiano che tocca chiunque, nessuno escluso. Ho scoperto, troppo tardi ovviamente, che non tutti sono così fortunati da inciampare spesso e senza pregiudizi di sorta. Ci vuole proprio un talento preciso.

Quello che ancora non mi è chiaro è come io sia sopravvissuta a questa pratica naturale fino a oggi così coriacemente e così inconsapevolmente. È addirittura più inspiegabile del talento stesso. Fatto sta che a volte sono inciampata in persone che han portato nella mia vita grosse sorprese (no, non necessariamente belle), altre in cose che mi hanno dato accesso a luoghi di conoscenza benefici e proficui (altre volte meno, ovvio), a volte sono inciampata in occasioni che sembravano opportunità, altre in opportunità che si sono rivelate solo stupide occasioni. Sono inciampata in sassi che non c’erano, gradini di mezzo centimetro, fili d’erba innocenti, buche apparse all’improvviso (queste sono ovunque, non si possono schivare tutte, ma io posso prenderle tutte).

Oggi sono inciampata su una frase che mi ha ispirato il pensiero da cui questo post è partito. Non odiatemi, è un talento naturale. Inconsapevole. Inutile. E se lo si ignora, innocuo.

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(1023) Gola

Quando un’emozione ti prende la gola è fatta, sai già che avrai la peggio. Perché lo stomaco lo puoi nascondere, la gola no. Neppure una sciarpa o un foulard potrebbero nascondere il tremito che la gola rivela – che sia di gioia, di dolore, di rabbia, di tristezza, di tutto-quello-che-vuoi non importa – e che è pronta a usare contro di te.

Il segreto per evitare la disfatta sarebbe: non provare alcuna emozione. Bingo.

I peccati di gola, d’altro canto, possono rivelarsi ben piacevoli e del tutto perdonabili, chissà perché.

Prendere per la gola qualcuno – che tu lo voglia sedurre o far fuori – è un’azione potente, che richiede una certa concentrazione. Non da tutti, non sempre, non con chiunque e non ovunque. Bisogna farci attenzione.

Tagliare la gola… ecco, i tagliatori di gole son brava gente dopotutto – gente che fa soltanto il proprio lavoro – e che crede nel proprio valore e nell’utilità che apportano alla comunità, ma è meglio tenerli a distanza, si rischia di avere la peggio.

Il nodo in gola fa parte delle cose mal digerite, che ti viene da piangere o da vomitare, e sempre di emozioni si tratta.

Quando riesci ancora a parlare, quando la voce non ti manca, quando il respiro ti regge, sii grata alla tua gola.

Ingoiare i rospi come pratica quotidiana non porta niente di buono, bisognerebbe ricordarlo.

Tutto questo per dire cosa? Che la gola è importante perché ci rivela.

Eh, sì. Un’altra imperdibile perla di saggezza… no, non ringraziatemi, e soprattutto state lontano dalla mia gola!

‘notte

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(1022) Eletto

Quando vieni scelto dal Caso o dal Destino, insegna Matrix, non ti puoi tirare indietro. In qualche modo pagheresti la tua codardia. Vien chiaro anche, sempre seguendo le vicende di Neo, che la paghi comunque, anche se il coraggio non ti manca e ne usi fino all’ultimo grammo.

Eccoci arrivati al punto. Dentro alla mia Matrix la richiesta di tirare fuori le palle è più che altro un ordine. E, per non venire macellata anzitempo, mi sono ben presto adeguata. Presto, si fa per dire. Mi sono adeguata appena ne ho preso coscienza. Per la serie ognuno-fa-quel-che-può-con-quello-che-ha, quando un certo tipo di dinamica viene adottata con costanza diventa parte di te e vai avanti per inerzia. Non ti chiedi più se sia il caso di tirare fuori le palle, lo fai e basta perché hai imparato che ne sei capace, che ti dà una certa soddisfazione e che, andasse male, il tuo amor proprio se la riesce a metter via in modo decoroso. 

“Almeno ci ho provato” diventa un mantra onorevole.

Nonostante tutto questo, non è che vivere fronteggiando ogni sfida non ti consumi, tutt’altro. Alla fine della giornata sei proprio sfinita. Cioè, non ti rimane neppure la forza per piangere. 

E dopo un po’ ricominci a domandarti: “pillola rossa o pillola blu”? Perché non è poi così scontato e perché le cose possono cambiare e perché… boh, perché siamo sempre lì: domandare è lecito e rispondere è cortesia.

Cortesemente stamattina mi sono risposta: “Basta con le pillole e prendiamola per un altro verso, Babs. Posa tutto a terra e usa quello che hai. Concentrati su quello che c’è. Prendi i pezzi di te che ora ti sono utili e fanne qualcosa. Ormai sei sveglia, non riusciresti a riaddomentarti. Ormai sei oltre e la Matrix non la cambieresti neppure se ritornassi indietro, neppure se la barattassi con un’altra Matrix. E poi, diamine!, mica sei Neo, non sei l’Eletto. Puoi fermarti”.

Più che una risposta è un monologo interiore imbarazzante, me ne rendo conto ora che l’ho riportato qui, ma il succo non cambia: posso fermarmi. 

Ok, mi fermo.

E dormo.

Tanto.

Più che posso.

‘notte.

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(1021) Franchezza

Quando qualcuno ti si presenta alla porta, decidere se farlo entrare o meno è una questione di pochi istanti. Questi stramaledetti istanti ti possono costare cari. 

Si può tenere tutti lì sull’uscio? Diventerebbe un luogo fastidiosamente affollato, ma meglio che il casino rimanga fuori piuttosto che si instauri dentro per fare danni. Sbaglio?

Temo che questo pensiero giunga sempre troppo tardi, a danno fatto.

Nella mia vita sembra che questo entrare sfondando la porta sia la norma, per non parlare dell’uscire senza salutare e senza chiudersi la porta alle spalle (non sia mai). Molto probabilmente suonare il campanello è opzione  di poco valore.

Fatto sta che accogliere qualcuno dentro la propria casa non è cosa ovvia, né di poco conto, e le persone che amo avere accanto non hanno dubbi in proposito: il sorriso è sincero, l’abbraccio è sincero. Sempre. Anche quando ho le palle girate per qualcosa o a causa di qualcuno. Sempre.

Non esiste accoglienza-di-circostanza, non esiste proprio. Si accoglie con intenzione cristallina, altrimenti non si accoglie affatto. Fare come D’Annunzio, che faceva attendere gli indesiderati nella sala d’aspetto apposita facendoli fare la muffa prima di concedere udienza, è inconcepibile. Se ti si presenta alla porta una persona che non desideri vedere, non apri. Semplicemente non apri.

Quindi, quel fare-nonfare o dire-nondire che ti fa barcamenare tra il fraintendimento e il compreso-a-metà è, a mio giudizio, patetico. E se ti sto sulle palle, perlamordelcielo, fammelo capire senza giri di parole che è un attimo togliere il disturbo e sparire dalla tua vita. Grazie.

Ovviamente, assicuro la stessa franchezza.

Prego.

 

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(1020) Comodità

Scelgo scarpe comode e, comunque, con le scarpe sbagliate fai poca strada. Questo in generale. 

Scelgo scarpe che immagino potrei indossare senza vergognarmene. Quello che offre la moda mi rimbalza, scelgo basandomi su come mi posso sentire portando quelle scarpe abbinate ai vestiti che ho in guardaroba. In verità sono piuttosto concreta: le decolte tacco 16 son belle su qualcun altro, non certo su di me.

Ogni tanto penso ai piedi delle Geishe, vittime della pratica del Loto D’Oro, e penso a quanto dolore venivano sottoposte. Penso che andare lontano con dei piedi così sarebbe stata una Via Crucis, ecco perché era facile tenerle prigioniere. Avrebbero percorso mille miglia correndo avessero potuto farlo, ne sono sicura.

Negli anni ho avuto delle scarpe talmente comode e belle (a mio parere) che le ho consumate a forza di indossarle fino all’ultimo passo possibile. Non riuscivo a rassegnarmi che la nostra storia d’amore fosse costretta a interrompersi. È stato doloroso. Eh, tendo ad affezionarmi alle cose belle.

Tutto questo per dire cosa? Non lo so. Forse sono stata ispirata dalla mia amica sciatica che è ritornata alla riscossa e pretende calzature di un certo tipo. Forse sono infastidita dallo show delle ciabatte estive che non stanno bene a tutti e bisognerebbe tenerne conto. Forse i piedi delle Geishe mi hanno traumatizzato più di quel che pensavo, forse sono irritata dal fatto che non riesco a trovare della scarpe come dico io e mi sono rotta di girare di negozio in negozio sperando nell’incontro del secolo. Forse sono solo in affanno e ho bisogno di una vacanza.

Vabbè.

 

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(1019) Disposizione

Disporre le cose con cura è un’attività che mi dà parecchia soddisfazione. Le cose messe lì così, a casaccio, mi mettono a disagio. Non è tanto una ricerca di perfezione (come erroneamente si potrebbe pensare) è una soddisfazione dell’occhio (mio) che guarda. Mi sento bene quando quello che guardo ha una certa logica nel suo apparire, una certa forma, una certa pulizia, una certa luce, una certa eleganza.

Non posso uscire di casa indossando colori a caso. Non posso mangiare con il cibo buttato sul piatto come viene. Non posso lavorare su una scrivania dove le cose siano state disposte malamente.

Potrebbe essere una malattia sotto mentite spoglie, me ne rendo conto, ma non mi faccio venire un attacco di panico se qualcosa di inguardabile mi colpisce l’occhio (e ne vedo di cose ammassate senza criterio), anzi non faccio una piega. Tutto quello a cui bado per non contravvenire alla mia benedetta regola della buona-disposizione è metterci del pensiero ogni volta che scelgo il da farsi.

Questo è il motivo per cui nel mio guardaroba ci sono pochi colori (il nero vince su tutti), ho una logica a cui mi attengo. Con un certo rigore e con assoluta continuità. Curare quotidianamente un equilibrio che posa su questa logica è il meglio che posso fare. Il resto mi sfugge, il resto è Caos, il resto è quel che deve essere. Ma per stare sul filo e non cadere giù, la buona-disposizione è la soluzione che adotto quotidianamente. E funziona.

Stop.

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(1018) Smalto

Chi mi conosce sa che mi piace lo smalto sulle unghie. Chi mi conosce sa che i miei colori preferiti è lì che vanno a finire e spesso accompagnano i miei vestiti. Chi mi conosce non sa perché di questa mia ossessione, non l’ho mai spiegato a nessuno, e ovvio che nessuno me lo abbia mai chiesto, ma oggi lo voglio scrivere. Perché? Non lo so, lo scrivo e basta.

È stata una conquista che mi sono guadagnata da adolescente smettendo di rosicchiarmi fino al dolore sanguinante le unghie. Lo facevo perché ero ansiosa (e ansiosa lo sono ancora), ma mi piaceva lo smalto che decorava le unghie delle mani di certe donne che vedevo attorno a me e quindi mi sono decisa: basta rosicchiarmi le unghie e via con lo smalto!

Una volta conquistata la meta non sono più tornata indietro.

Se faccio un rapido calcolo mentale mi è evidente che ogni volta che conquisto una meta poi me la tengo stretta. Mi scoccia troppo ritornare indietro. Vado avanti, mica sono un gambero! Quindi posso affermare, senza dubbio alcuno, che quella mia prima vittoria sia stata fondamentale per la crescita. Soprattutto grazie alla dinamica che ho saputo mettere in atto.

Scegliere il blu o il viola, il rosso (raramente) o il nero, e procedere con l’operazione senza delegare a una professionista la questione manicure, è una delle azioni a cui mi dedico con più attenzione. Come se in quei gesti risiedesse la mia promessa: vai e prenditi quello che vuoi. E il mio impegno: per avere quello che vuoi devi saper rinunciare a qualcosa. E la mia perseveranza sostenuta da una presa di coscienza semplice: puoi.

Sembrerà tutto molto stupido, me ne rendo conto. Ma le persone stanno su per queste cose stupide, mica perché fatte di cemento.

Sottovalutare le cose stupide non è una buona idea. Mai. Credo.

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(1017) Basi

Quando non sai di cosa si sta parlando stai zitto. Ascolta, fai le domande del caso se hai intenzione di capire, e dopo, soltanto dopo che ti sei fatto un’idea, parla. Di’ la tua, tranquillamente, ma pensaci su. Pensaci su un po’. Un bel po’.

Queste sono le basi.

Quando non sai qualcosa, pensa alle domande che ti permetterebbero di sapere di più (o meglio) e una volta formulate ad alta voce all’interlocutore giusto, ascolta la risposta. Ascolta la risposta. Possibilmente fino in fondo. 

Queste sono le basi.

Quando ti senti in difetto, anziché andare in emergenza e tirare testate a destra e a manca, fai un bel respiro, richiama in te anche soltanto una goccia di umiltà e cerca di colmare le lacune che ti si sono palesate. Non è un problema degli altri, ma tuo. La cosa positiva è che si tratta di un problema provvisorio e una volta colmato il vuoto di conoscenza sarai migliore.

Queste sono le basi.

Quando punti il dito su tutti gli altri perché nessuno ti capisce o nessuno è d’accordo con te o nessuno ti degna di attenzione, fai mente locale e chiediti dove manchi nel tuo modo di comunicare. Io lo faccio tutti i giorni, tutto il giorno, di chiedermi dove manco nel mio modo di comunicare. E continuo a fallire. E continuo a indagarmi e non è mai finita.

Queste sono le basi.

Di cosa? 

Della vita.

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(1016) Sogno

Nella nostra testa è tutto perfetto. Si chiama sogno. 

Ti immagini una situazione, ti immagini una persona, ti immagini un risultato. Costruisci il tuo sogno con dettagli che vanno a colmare ogni vuoto, ogni mancanza, ogni stortura. Perfetto. Nella nostra testa. Perfetto.

Nella realtà è il Caos. Si chiama proprio così: il Caos della Realtà. Che non è fantasioso, ma non ha niente a che vedere con la fantasia quindi pretenderlo è da idioti. La realtà è una mescolanza di variabili, incidenti e dio-solo-sa-che-diavolo che rende qualsiasi possibilità di sogno un disastro. Anche andasse tutto bene, ma proprio tutto alla grande, quando lo viviamo manca sempre qualcosa. È sempre meno bello di come sarebbe se fosse solo nella nostra testa. Manca di perfezione. 

Cosa facciamo? Lo buttiamo? Soltanto perché non è perfetto? Eh.

Quindi crescendo si impara a mettercela via, male che vada possiamo sempre rintanarci nella nostra testa e raccontarci il film perfetto che vogliamo. Quali sono le conseguenze? Eh. Lo sappiamo quali sono, anche se non lo vogliamo ammettere perché ci rode: lo scollamento. 

In poche parole, noi Esseri Umani siamo un branco di disadattati allo stato brado. Il Caos è questo. 

Cosa facciamo? Ci buttiamo via soltanto perché non siamo perfetti? Eh.

È come cavalcare un purosangue: ti immagini la perfetta simbiosi con il potente equino che sarai in grado di gestire e domare e ti ritrovi disarcionato steso a terra. Poteva essere la cavalcata della tua vita, poteva, lo era nella tua testa. 

Io stamattina ho in mente un sogno, una cosa che in tre-quattro passi posso realizzare, e lo realizzerò entro domani. Una cosa da nulla, ma alimenta quell’ambizione di perfezione che mi divora l’Anima. Ripeto, una cosa da poco, una cosa che ha significato soltanto per me, una cosa che una volta che la butterò fuori dalla mia testa potrebbe risultare ridicola. 

Ma che faccio? La butto soltanto perché rischia di essere un fallimento? Eh. Il fallimento, arrivata a questo punto, è un dettaglio. Il sogno ha vinto. 

Inshallah.

 

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(1015) Cristallo

L’Essere Umano viaggia mediamente su frequenze torbide: difficile capire quello che pensa e le sue intenzioni. Spesso non perché in malafede, semplicemente perché confuso. Questo detto senza alcun tipo di giudizio, mantenendo uno sguardo scientifico sulla faccenda (io scienziata, mi viene da ridere).

Andando oltre, ci sono degli istanti – istanti da nulla  che se non ci fai attenzione scappano via e fan sembrare tutto un’illusione – in cui si scopre la purezza del cristallo che sta alla base di un’Anima. 

Potrebbe essere che lo noti in uno sguardo, in un gesto della mano, in un sospiro, in un voltare la testa o in una parola a cui la voce dà forma magari sopra pensiero. Il cristallo che c’è lancia un luccichìo riflettendo la luce che è nascosta dentro, in fondo. L’ho detto, questione di un istante. Se te lo perdi peggio per te.

Se, però, decidi di farci attenzione mentre interagisci con le persone che ti stanno attorno, potresti essere invaso da raggi di luce che – random – squarciano il tuo momentaneo buio. Per risonanza uscirà anche la tua luce, dal tuo cristallo che tieni ben protetto laggiù nelle tue viscere.

È necessaria una disinteressata disponibilità per far sì che si palesi questa piccola alchimia, è necessaria una predisposizione alla felicità. Credo.

Il cristallo è trasparente, ciò comporta una serie di preoccupanti conseguenze, per questo va tenuto al riparo. Ma al buio non può fare il suo lavoro: espandere la luce per illuminare tutto. È un peccato, vero?

Urge trovare un compromesso, sono d’accordo.

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(1014) Amarezza

Che colore ha l’amarezza? Un brutto colore, verrebbe da dire. O forse è il miscuglio di tanti colori, messi alla rinfusa, che si fondono e si confondono e perdono i propri confini. L’occhio scombussolato non capisce più nulla e ti schianti sul divano aspettando che ti passi.

Ma non passa.

Bisognerebbe trovare una cura per debellare questo maledetto sentimento, ma essendo tale non è labile, rimane ancorato in te e ci resta. Testardo, sordo e bastardo. La chimica non lo scalfisce, la meditazione gli fa il solletico. Il bastardo non molla. È un sentimento, è lì per restare.

Allora bisognerebbe agire contro tutto ciò che ti suscita amarezza, combattere contro chiunque, e qualsiasi cosa, osi aprire in te quella finestra maledetta che non si richiuderà mai, nonostante il tempo e le tempeste. 

E l’amarezza non ti fa piangere, non ti fa urlare, non ti fa sfogare, non ti fa sputare il dolore. Ti consuma. Punto.

Certo che ci può mettere una vita a farlo, ma lei ha tempo perché si mangia il tuo tempo e non si fermerà. 

C’è un modo per rallentare l’inesorabile processo? Sì. Riderle in faccia. Si fa fatica, ma si può. Ridere di quello che è stato e di quello che è. Ridere di quel che se ne è andato e di quello che non se ne vuole andare. Ridere di te. Che ti lasci incastrare da un sentimento da niente, nato chissà perché e cresciuto chissà come, e che pensi sia più forte di tutto. Ma che forte non è.

Tu sì, invece. Sei ancora qui. Giusto?

 

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(1013) Cioccolato

Quel che fa bene e quel che fa male. Ognuno ti dice la sua, ognuno portatore di lungimiranti elisir di vita eterna. Ma di qualcosa si deve pur morire. 

Il cioccolato (nahuatl cocholatl) fa bene perché aumenta la produzione di serotonina e muori contento. Questo è un modo per continuare a mangiare cioccolato senza sensi di colpa. Chi dice che il cioccolato fa male non ha capito niente. Lasciamoli parlare.

Ci sono cibi, riflettiamoci su, che creano l’atmosfera: prova a sostituire il cioccolato con le barrette ai cereali e poi dimmi se ti passa la saudade. Ma per favore!

E ogni cosa ha la sua stagione e la sua temperatura ideale. Strafogarsi di cioccolato in piena estate non ti viene naturale, a meno che non lo trasformi in gelato o qualcosa di fresco che gli assomigli molto. Quindi è ovvio che i Pocket Coffee o i Mon Chéri spariscano dai supermercati, sarebbero sprecati. Questo – voglia o no – ti porta uno scompenso, magari così sottile da non rendersi evidente se non in un angolo oscuro del tuo subconscio, infatti quando a quasi inizio autunno ricompaiono ovunque una certa felicità ti pervade. Grazie per essere di nuovo qui con me, amici!

Il cioccolato, in realtà, è stato creata dagli uomini per una ragione sacrosanta: sopravvivere. Anche nei periodi in cui ne faccio a meno, perché non ci penso, il solo sapere che esiste e che è alla mia portata mi fa passare metà dell’ansia. Perché c’è bisogno di qualcosa che ti faccia passare un po’ d’ansia che non sia il Prozac, c’è bisogno.

A questo punto, basita da quanto io stessa non sapevo di pensare riguardo all’argomento, ritorno al presente, a questa estate che è stramba e calda, caldissima e strambissima. Per fortuna che c’è il cioccolato.

Ogni saudade è la presenza dell`assenza / Di qualcuno, un luogo o un qualcosa, infine / Un improvviso no che si trasforma in sì / Come se il buio potesse illuminarsi. / Della stessa assenza di luce / Il chiarore si produce, / Il sole nella solitudine. / Ogni saudade è una capsula trasparente / Che sigilla e nel contempo offre la visione / Di ciò che non si può vedere / Che si è lasciato dietro di sé / Ma che si conserva nel proprio cuore.  La saudade è un sentimento; è la struggente presenza di un’assenza.  (“Toda Saudade” di Gilberto Gil) 

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(1012) Bluff

Mi piacerebbe poter vantare il contrario, ma non riesco mai a riconoscere un bluff raffinato al primo colpo. Quelli smargiassi sì, quelli evoluti no. E mi piacerebbe essere più furba, più sveglia, più intelligente, ma non lo sono mai abbastanza.

Il bluff, quello di classe, ha una grande struttura narrativa sotto. Si muove per raggiungere uno scopo chiaro, in un luogo preciso che ti viene nascosto finché non è troppo tardi per tirartene fuori. Bisogna avere pochi scrupoli e molto ingegno per bluffare da professionisti.

Ammetto che a un certo punto me ne accorgo, riesco nel lungo periodo a rilevare cadute di tono, incongruenze e scollamenti dello storytelling e riallacciando ogni scena alla fine ce la faccio: vedo l’inganno.

Ovvio che certe conseguenze me le prendo lo stesso, ma frenare risparmiandomi il crash finale è già qualcosa. Sono una che si accontenta, dopotutto.

Raramente riesco a perdonare chi bluffa spudoratamente per il proprio tornaconto a spese di qualcun altro, anzi, mai. Lo trovo uno spreco di energie impegnarmi ad essere misericordiosa con chi si merita le mazzate, soprattutto perché non sono programmata per la misericordia (questo in generale).

La cosa più strana è che ci sono personaggi in giro che non si rendono neppure conto di essere soltanto dei grandi bluff e agiscono come se l’autenticità fosse il valore che li contraddistingue. Si offendono pure, se qualcuno osa mettere in dubbio la loro buona fede. Scenate da non crederci. Davvero.

Non mi piace sparare sulla Croce Rossa, ma sui professionisti del bluff sì, senza pietà. Quello che mi rode è che non li riesco mai a intercettare in tempo utile, mi faccio sempre intortare dal concetto di “innocente fino a prova contraria”.

Ma la prova contraria mi cade tra le mani prima o poi. E da lì son mazzate. Garantito.

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