(1023) Gola

Quando un’emozione ti prende la gola è fatta, sai già che avrai la peggio. Perché lo stomaco lo puoi nascondere, la gola no. Neppure una sciarpa o un foulard potrebbero nascondere il tremito che la gola rivela – che sia di gioia, di dolore, di rabbia, di tristezza, di tutto-quello-che-vuoi non importa – e che è pronta a usare contro di te.

Il segreto per evitare la disfatta sarebbe: non provare alcuna emozione. Bingo.

I peccati di gola, d’altro canto, possono rivelarsi ben piacevoli e del tutto perdonabili, chissà perché.

Prendere per la gola qualcuno – che tu lo voglia sedurre o far fuori – è un’azione potente, che richiede una certa concentrazione. Non da tutti, non sempre, non con chiunque e non ovunque. Bisogna farci attenzione.

Tagliare la gola… ecco, i tagliatori di gole son brava gente dopotutto – gente che fa soltanto il proprio lavoro – e che crede nel proprio valore e nell’utilità che apportano alla comunità, ma è meglio tenerli a distanza, si rischia di avere la peggio.

Il nodo in gola fa parte delle cose mal digerite, che ti viene da piangere o da vomitare, e sempre di emozioni si tratta.

Quando riesci ancora a parlare, quando la voce non ti manca, quando il respiro ti regge, sii grata alla tua gola.

Ingoiare i rospi come pratica quotidiana non porta niente di buono, bisognerebbe ricordarlo.

Tutto questo per dire cosa? Che la gola è importante perché ci rivela.

Eh, sì. Un’altra imperdibile perla di saggezza… no, non ringraziatemi, e soprattutto state lontano dalla mia gola!

‘notte

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(938) Recidivo

Non vediamo le cose per come sono, vediamo le cose per come siamo.

Anaïs Nin

È la condanna, senza sconti, senza scampo. Ci ricadi, non c’è niente da fare. Magari non con le stesse modalità e non con le stesse conseguenze, ma ci ricadi. Tu pensi che sia diverso, che le nuove premesse che ti erano state presentate fossero garanzia di nuova situazione e invece no. Vivi in loop la stessa situazione che ti porta allo stesso risultato. E la delusione ti sommerge. E l’amarezza.

Decidere di fidarsi, decidere di affidarsi, decidere di restare, decidere di continuare a fare e a crederci. Poi tutto frana e tu ci rimani sotto. Inevitabile, le cose franano prima o poi. Inevitabile.

E quando stai lì sotto ti manca il respiro, il panico ti congela e cerchi forsennatamente dentro di te una via d’uscita. Prima al panico e poi alla situazione. Inevitabile.

E non è che ti sei dimenticata di quello che è stato, che ci sei già passata e che sei già una sopravvissuta, ma pensavi che fosse finita. Che non ci saresti ricascata. Nella fiducia, nell’affidarti, nel restare perché ci credi. Forma mentis da smantellare, si può? E si può vivere bene aspettandosi sempre che tutto frani da un momento all’altro? 

È il pensiero, che recidivo, continua a sistemarsi su quel concetto base malsano: le premesse erano diverse. Però peccare di buonafede non ti toglie alcuna responsabilità, al massimo ti rende patetico. E qui si cade nel tunnel dell’autocommiserazione. Il che non aiuta di certo. Damn.

Ultima considerazione: vagliare la possibilità di prenderla meglio. Così. Semplicemente. Un appunto che lascio sulla mia scrivania e che potrebbe tornarmi utile appena il panico si deposita sul fondo, lo sguardo si stabilizza e la soluzione si palesa. Perché credo che me la caverò anche stavolta.

Si può smantellare la propria forma mentis? Non credo.

 

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(923) Pugno

Quello che si tira mi interessa particolarmente. Ne sto cercando uno bello forte da dare in faccia a tutti. Senza cattiveria, per una buona causa, giuro. Mi piacerebbe trovare quel pugno e confezionarlo per bene perché non credo ce ne sarà un altro a mia disposizione, comunque non ci sarà un’altra occasione per farne un altro di sicuro. Certe cose capitano una volta soltanto.

Mi ricordo bene i pugni che ho preso, non sono mai riuscita a prevederne neppuro uno. Questo fanno i pugni: arrivano non richiesti, ti prendono alla sprovvista e ti lasciano senza respiro. Non ti uccidono, o almeno non fisicamente, ma ci mettono un bel po’ ad andarsene. Un bel po’.

Ecco, quello che ho in mente io deve produrre un effetto benefico devastante. Prima deve lasciare senza respiro e dopo deve produrre buoni frutti. Lo so, un’ambizione pressocché irraggiungibile. Ma sento dentro di me che ci sono vicina. Molto vicina.

Non mancherò di coraggio, questo è certo. E se mancherò di tecnica dovrò chiedere aiuto, anche questo è certo. In realtà non lo penso come un pugno solitario, costruito soltanto da me, lo vedo più come un lavoro di un team. Il mio team. Li sto coinvolgendo in questo. Un po’ si stanno pure divertendo, spero.

Sarà un pugno memorabile. Questo deve essere.

E che accada ciò che deve accadere.

Mh.

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(921) Arabesque

Una certa grazia è d’obbligo. Le persone che bypassano questa delicatezza di pensiero mi lasciano sempre perplessa. Dai per scontato che l’educazione sia un optional curioso da poter sistemare alla fine della lista-priorità nei rapporti umani e ti arroghi il diritto di entrare a gamba tesa nello spazio del tuo prossimo come se niente fosse. 

Mi succede spesso di tirare il freno a mano prima di approcciarmi con un altro Essere Vivente, penso sempre se non esista un modo migliore di quello che sto dando per scontato per interagire con il mondo. 

Non è detto che le mie urgenze siano le urgenze degli altri, che siano prese in considerazione immediatamente e che siano condivisibili. Non è detto. Quindi pensarci mi fa bene. Mi fa riposizionare la mia urgenza in una prospettiva più lucida, mi fa controllare il mio movimento nello spazio e nei tempi (quelli che entrano in gioco, tutti) e mi fa prendere un respiro. 

Il controllo fa tanto. L’arabesque è questo.

La questione dei tempi giusti è in ogni ambito una grande risorsa. Anticiparli ti fa bruciare l’occasione, ritardarli ti fa mangiare le mani perché ormai non c’è più spazio per te. A valutare bene le cose della vita, sbagliare i tempi è la prassi e le conseguenze si spandono volentieri in ogni dove e la tua esistenza va a rotoli. 

Con questa visione ottimistica del mai-una-gioia-pensiero non si va lontano, ma anche far finta di nulla quando invece ci sono delle Leggi Universali che concorrono alla realizzazione dei tuoi desideri, o si oppongono alla tua volontà, strategicamente non è molto intelligente.

E l’arabesque, strategicamente, non sbaglia un colpo. Davvero.

 

 

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(879) Loro

Quando da bambini si inizia a capire la differenza tra me e te, tu e gli altri, io e gli altri, cambia tutto. Loro iniziano a essere in tanti, perché tutto il resto del mondo è “loro”. Come si fa a maneggiare questa enorme quantità? Non si può. In fin dei conti, quando è troppo è troppo. 

Si impara, quindi, a ridimensionare quel “loro” per non farsi portare via dall’enormità. Poi si fa una distinzione: i loro simpatici, che diventano con me un “noi”, e i loro antipatici. Quelli antipatici si guardano con distacco, si tengono a distanza e quando hai le palle girate li usi come pungiball (trad. punching ball).

Così ci sono un sacco di “noi” che non vogliono avere niente a che fare con un sacco di “loro”. Si fa fatica a capire chi è dentro e chi è fuori, anche perché le regole del gioco non sono mai state scritte, si va così un po’ alla selvaggia. Puoi starmi sulle palle oggi (e fai parte dei “loro”), domani mi diventi simpatico (e ti invito a far parte del mio “noi”). Ma non farti illusioni, potrei rispedirti con un calcio in culo tra i “loro” in men che non si dica.

Al di qua della rete (o del muro) le cose possono andare bene o male, ma son cose che si risolvono tra di noi. Sono affari nostri, non loro. Altrettanto fanno loro. Ci si protegge così dai nemici, no?

A volte capita che qualcuno, alzando lo sguardo, si accorga che loro non sono poi tanto diversi da noi. Che la rete avrebbe bisogno di un po’ di respiro e un varco potrebbe essere una buona idea. Un atto di ribellione, un atto di libertà. Rischioso? Certo, rischioso. Ma chi se ne frega. Di qualcosa si deve pur morire. Morire di libertà suona bene. Meglio che morire di schiavitù. Sono già morti in troppi con i segni della schiavitù addosso, sarebbe ora di metterci un “basta” sopra. Perché loro non sono così lontani, non sono così alieni. Perché noi per loro potremmo essere una risorsa, almeno quanto loro potrebbero esserlo per noi. Certo, bisogna saper guardare oltre la rete, oltre il muro, oltre l’odio, oltre la paura.

E chi non ha paura alzi la mano.

Sì, nessuno. Proprio come immaginavo.

Nessuno.

 

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(865) Promesse

Ci sono promesse tacite che noi distribuiamo incautamente come se non avessero importanza. Queste promesse, una volta rotte, creano distanze incolmabili, che possono durare una vita intera. La presenza, per esempio, è una di queste. 

La tua presenza parla di quello che provi, è il tuo impegno, è garanzia di cura e attenzione per la persona che ti sta accanto. Anche se il tuo corpo c’è, quando ti allontani e la tua presenza manca, la distanza si mangia tutto. Bisogna volerlo davvero per mantenere questa promessa. Ogni giorno, in ogni istante. Un dubbio soltanto può spaccare tutto.

Il punto è che non possiamo fare finta di niente. Non possiamo pensare che solo quello che viene dichiarato sia reale. Nove volte su dieci è proprio ciò che abbiamo a parole promesso a essere una menzogna di comodo. I fatti sono un’altra cosa. Sono loro i testimoni delle nostre intenzioni, sono loro che parlano di noi e di quanto puro è il nostro cuore. Le promesse sono ben più solide di quello che vorremmo, se ce ne rendessimo conto prometteremmo di meno.

Mantenere una promessa è un riportarsi continuamente alla base, dove risiede la ragione della promessa. Il sentimento. Lì, esattamente lì. A volte ci manca il respiro per la portata inverosimile dell’impegno che ci viene chiesto, ma quando l’impegno è una scelta non c’è nessuno da incolpare. Se non noi stessi. Bisognerebbe andarci cauti con le promesse date queste premesse, no?

Ho rotto promesse in cui non ho mai creduto davvero, e me ne vergogno. Ho deciso molto tempo fa di non promettere più, ma ancora non ci sono riuscita. Ho preso impegni che sto mantenendo, lo sto facendo lavorando sul peso affinché non mi schiacci troppo a terra. Non ritornerò sui miei passi, quelle promesse sono solide e non si discutono. L’unica cosa che conta è che ci credo ancora, forse anche più di prima. Non posso che far fede su questo, sperando di non deludermi di nuovo.

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(862) Battito

Un tocco, ripetuto, con un suo ritmo e un suo respiro. In realtà, il tocco può mutare il suo respiro. Accelera e decelera, seguendo spesso quello che sente. Agitazione, tranquillità, piacere, fastidio… i battiti ci raccontano come stiamo. Ci raccontano chi siamo. 

Mi accorgo spesso che il mio battito mi sta dicendo cose che non capisco. O cose che non voglio capire. Soprattutto. Sono molte le cose che non voglio capire, molte le cose che temo di capire. Non so il perché. 

Le cose che capisco, solitamente, attraversano il mio corpo. Quelle che capisco meglio sono quelle che mi crollano addosso. Lì non posso far altro che registrare l’evidenza delle cose e arrendermi. Non mi viene facile arrendermi. Non lo so perché. Non è una scelta, suppongo, semplicemente non mollo finché non sono sfinita. A volte anche stupidamente, lo ammetto, ma essere stupida fa parte del pacchetto. Non è che una può essere intelligente tutto il tempo. L’intelligenza è stancante.

Fatto sta che i miei battiti, ultimamente, sono cambiati. Senza avvertirmi, per di più. Me ne sono accorta per lo scoramento che mi portavo addosso da un bel po’. A un certo punto, per sfinimento più che altro, mi sono fermata e mi sono chiesta che diavolo stesse succedendo. Rincoglionimento isterico? (suona come un ossimoro, lo so, e lo è, quindi immaginiamoci il mio stato)

Sì, uno stato nevrotico che non è da me. Non è da me. Non è da me, diavolo!

Va bene, appurato questo concetto basico ho cominciato a far caso ai miei battiti. Era una vita che non ci pensavo. Avevo archiviato la questione, come se la questione potesse essere archiviata. Quando sono stupida lo sono pienamente. Una sorta di apoteosi della stupidità condensata in un corpo solo. Meriterei un applauso. Comunque sia, ho ritirato fuori dall’archivio la questione e mi sono arresa all’evidenza. Faccio fatica ad arrendermi, ma quando sei arrivata al capolinea non è che hai altra scelta. Quindi l’ho fatto. Mi sono consegnata – rassegnata – ai miei battiti e, come se non aspettassero altro, hanno mollato il tamburellamento ossessivo. Mi sono rasserenata. Così.

Ora mi trovo in una situazione curiosa di rassegnata serenità. Che è strano. Che non può durare a lungo. Che sto studiando per capire come diavolo riesco sempre a non capirci un tubo di me. Nonostante gli sforzi, nonostante l’impegno, nonostante l’allenamento. Proprio niente.

Per fortuna ho questo battito. Che respira. E respira. E respira.

Per fortuna.

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(852) Scontato

Entrare dentro i mondi delle persone è sempre questione delicata. Devi esserci portato o come ti muovi fai danni. Spesso le persone ti invitano e ti aprono la porta, ma soltanto perché non sanno i rischi che corrono. A saperlo, uno ci pensa più di una volta prima di farlo. 

Mi sono fermata spesso sulla soglia. Ho fatto fermare spesso le persone sulla soglia. Non so se ho fatto bene o male. L’ho fatto e basta.

Sono giorni che mi passa dentro un fastidioso aratro, non so che cavolo voglia scavare ancora, mi sembrava che il più fosse venuto in superficie. Sbagliarmi mi rende nervosa. Ieri non ho scritto nulla, oggi faccio fatica (si capisce?), forse dopo 850 giorni così me lo posso anche permettere, no? Scrivere non è scontato, neppure se non vorresti fare altro al mondo.

Conosco un migliaio di persone che continuano a ripetersi che un giorno scriveranno un romanzo. Raramente lo fanno. Scrivere non è scontato, è una scelta e una fatica. Seppur non vorresti fare altro.

Fatto sta che in questi giorni di aratura, mi infastidisce anche solo il pensiero che tra la tastiera e le mie dita ci siano degli spazi. Horror Vacui. Che ne so. Non ci dovrebbero essere spazi, ci dovrebbero essere soltanto parole, una attaccata all’altra come quando non esisteva la punteggiatura. Tu pensa che artista, però, chi ha inventato le virgole e i punti e gli spazi. Uno che del respiro e del ritmo ha saputo far altro che mera sopravvivenza.

Vabbé, riprendo il filo della non-logica di stasera. Sto vagando in questi spazi e le parole non mi si legano ai concetti, un po’ la febbre e un po’ che-ne-so-io, il punto è che non so come uscirne. Sono partita pensando ai mondi e alle persone che li abitano, ho pensato anche al mio mondo e a chi permetto di abitarlo e devo ammettere che pensarci  è già un inizio. Magari mi porterà da qualche parte, prima o poi. Oltre la soglia.

Dai, intanto oggi ho scritto. E non era proprio per niente scontato. Per niente.

 

 

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(820) Mira

Tirare a casaccio non funziona, bisogna prendere la mira. Spesso sottovalutiamo questo dettaglio, a meno che non siamo praticanti di tiro con l’arco o appassionati di bowling o di sport o di altre pratiche che t’impongono di farci attenzione. Prendere la mira non è un dettaglio, è IL dettaglio che può decretare la vittoria.

Mettendo in pratica l’assunto qui sopra, proviamo a immaginarci cosa può succedere se desideriamo trovare un lavoro, un lavoro qualsiasi. Cosa diavolo può capire l’universo di questo nostro desiderio? Un lavoro qualsiasi. Dall’arrotino all’uomosandwich, va tutto bene. Davvero andrebbe bene tutto? Nove volte su dieci no. No, non va bene qualsiasi lavoro, va bene il lavoro dove: sono trattato con rispetto, dove vengo pagato il giusto, dove oltre che la fatica mi posso godere anche qualche gratificazione. Giusto? Ok, già con questa breve sinossi posso dichiarare che sto mettendo a fuoco l’obiettivo, sto prendendo la mira.

Volere un fidanzato o una fidanzata non significa nulla. Volere un fidanzato/a che sia alto/biondo/con gli occhi azzurri è già un’indicazione. Io, personalmente, ci andrei bella carica con la descrizione perché se ti dimentichi qualcosa di importante poi son cavoli amari. Se desideri devi desiderare al top, non ti puoi accontentare di uno scarto. Devi prendere bene la mira, insomma.

Dopo questi due esempi demenziali, spero di essermi spiegata per bene: prendere la mira è indispensabile. Non solo: allenarsi a centrare il bersaglio è la pratica a cui non ci si può sottrarre. Inoltre: anche se non becchi il centro, anche se non ottiene il punteggio massimo, anche se non ti conquisti il top… bé, ci sarai andato vicino e credo che già questo potrebbe essere una buona cosa. D’altro canto se vuoi il top devi poter garantire di essere il top e lo stress annesso e connesso dove lo metti? Naaaaaaaaaaaaaaaaa. Restiamo in quota, sogniamo con dignità una vita alla nostra altezza, potremo sempre guardare il sole e farci baciare dai suoi raggi senza invidia soltanto con sincera ammirazione. No?

Ok, allora prendiamo bene la mira… e buona fortuna!

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(733) Volare

Forse ho dimenticato come si fa. Dico forse perché mentre ci penso mi distraggo, come se qualcosa mi portasse via per non farmene accorgere. Mi disturba non essere in grado di misurare quel che di me ho perso. Mi lascia troppe domande aperte e mi sento gelare.

Volare mi riusciva piuttosto bene, riuscivo a staccarmi dal mio stato materiale per immaginare quello che avrebbe potuto essere e che – forse – speravo che sarebbe stato. Temo che il fatto che non si sia mai avverato nulla di quello che immaginavo giochi un ruolo determinante nel mio stato attuale di impossibilità a librarmi in volo. Non ci riesco, rimango ancorata alla terra, a quello che c’è e a quello che sta per accadere. Mi si strozza in gola il respiro e mi sembra che sia questo l’unico respiro disponibile per me ora.

Ora? Sì, ora che sono grande. Ora che al massimo posso invecchiare, ma non posso più crescere ed espandermi. Ora che devo ritirare un po’ le armi, giocare più d’astuzia che di impeto passionale. Ora che riflettere è diventato l’imperativo e comprendere si rende bussola indispensabile per segnarmi il cammino.

Non ho troppa voglia di fare conti e calcoli per capire che landa desolata io stia sorvolando mentre il motore in avaria mi sta imponendo un atterraggio di fortuna. Eh, sì. Fortuna che me ne sono accorta in tempo, fortuna che son ancora qui a raccontarla, fortuna che ho ancora braccia e gambe per proseguire, fortuna che gli occhi mi si sono asciugati e che il bisogno di orizzonti azzurri non è più un’ossessione ma soltanto una nostalgia, una delle tante. Anche se la nostalgia annebbia la percezione del valore delle cose presenti, chi riesce più a farne a meno?

Volare, per quanto ormai mi è possibile, è un volare breve a bassa quota. Temo non sia più un vero volare, ma soltanto il ricordo di quel che ero solita fare senza chiedere il permesso a nessuno, senza inventare giustificazioni. Non dico che stavo meglio prima di ora, eppure sapere che mi sono dimenticata di come si può raggiungere il cielo con il cuore brillante mi rende triste. Sarà che è tardi, sarà che sono stanca, sarà che manco in questo momento d’immaginazione. Chi lo sa.

Chi lo sa.

Buonanotte.

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(714) Decantare

E poi ci sono quei verbi che ti lasciano un po’ di stucco. Decantare le qualità del tuo ristorante preferito e lasciar decantare il giudizio per non mancare di obiettività. Usato nel primo modo enfatizza lo slancio e nel secondo modo posa a terra lo slancio per la riflessione e la rivalutazione della faccenda. Eh.

Ci sono periodi in cui pratico la decantazione e sembra che il mio cervello sia partito per altri lidi. Funziono per metà. Succede perché tutto quello che ho assorbito vivendo ha intorbidito le acque del mio delicato ruscello mentale e non ci capisco più niente. Ma non è uno stato che riconosco coscientemente, quindi ho sempre paura che il rincoglionimento sia definitivo.

Fino a ora m’è andata bene. Speriamo il gioco regga ancora per un po’.

La parte interessante arriva quando l’acqua ritorna quasi limpida e il vederci attraverso mi fa riprendere il nervo giusto. Ecco: penso di trovarmi in quel preciso momento. Non è la prima volta, ma questa volta vorrei proprio scriverlo perché è una sensazione intensa e gratificante e mi dispiacerebbe dimenticarmela alla prima incazzatura in programma – che potrebbe verificarsi tranquillamente anche tra cinque minuti a mia insaputa.

Non so come spiegarlo, però, perché spesso le parole lasciano troppo spazio vuoto e invece mi piacerebbe saperlo colmare. Sì, è una sensazione che potrebbe essere paragonata a quella di quando hai le mani sporche e te le lavi con un sapone profumato. Ti cambia l’umore, ti cambia i pensieri. Come nuova. Ecco, in questo momento mi sembra che a vederci meglio, capendo meglio, gestendomi meglio, io abbia iniziato un nuovo periodo della mia vita. Non so ancora dove mi porterà, ma lo riconosco come inizio e posso abbracciarlo come tale. Perché? Semplicemente perché mi fa stare bene. Anche se sono stanca morta, anche se andrei a Bali a farmi una vacanza, anche se domani le cose da fare non saranno mille ma duemila. Pazienza.

Questo è un inizio vero, non dev’essere facile perché nessun inizio è facile, dev’essere intenso. E questo inizio lo è.

Un bel respiro e via!

 

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(675) Pizza

Credo che la nostra lingua sia la più bella in assoluto, credo anche che sia la più pazza in assoluto. Mettiamo il caso della pizza: è una delle meraviglie culinarie di cui tutti vanno matti eppure se dici di qualcosa o di qualcuno che è una pizza significa che ti annoia e quando molli una pizza a un cafone lo fai per tenerlo al suo posto. Follia.

Mi domando come possiamo pretendere che arrivino da noi persone di altri continenti e che possano capirci o capire come far funzionare l’italiano tanto da destreggiarsi nel loro quotidiano senza tentennamenti. Follia.

Diamo per scontato che è molto probabile che il giapponese o l’hindi o il senegalese o l’innuit sia altrettanto complicato che l’italiano, se andassimo da loro adottando la loro lingua ci ritroveremmo come dei bambini balbettanti.

E la lingua che parli significa chi sei, da dove vieni, che cosa hai imparato e come lo hai imparato, significa un suono diverso e un respiro diverso, significa costruire pensieri con una logica che è il frutto della tua terra e dei geni che ti hanno lasciato in eredità. Significa tanto, significa tutto.

E noi, noi che abbiamo questi suoni e il lascito di bellezza e arte che ci invade ogni cellula, noi ci permettiamo di manomettere e sbeffeggiare la nostra lingua. Ci permettiamo di ridurla a rumore, a verso animalesco, a immondezzaio dove svuotare la pochezza dei nostri neuroni. Lo facciamo parlando e lo facciamo scrivendo. Pensiamo che quello che abbiamo ricevuto sia roba da poco, che si possa buttare o reinventare soltanto perché la pensiamo una pizza.

Bhé, comunque sia la pizza va bene in ogni stagione e in qualsiasi versione e soprattutto la pizza mangiata nel nostro Bel Paese è la Regina. E con questo ho finito di delirare anche per stasera. Buonanotte.

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(419) Wow

Lo penso spesso. In positivo e in negativo. Riferito al mondo che mi circonda oppure a quello che mi porto dentro. Lo stupore che si traduce con un Wow può prendere toni e colori diversi a seconda dell’oggetto a cui è rivolto.

Ci ho riflettuto seriamente e sono arrivata alla conclusione (provvisoria) che non sia una brutta abitudine, quella di stupirmi intendo, perché presuppone una certa apertura alla meraviglia. Nulla di cui andare fiera, è qualcosa che è parte di me e probabilmente ereditata dalla mia genitrice, ma è senza dubbio il presupposto che mi ha permesso di avvicinarmi alle storie. Quelle che mi vengono raccontate, ancor prima di quelle che io racconto.

La convinzione che l’Essere Umano sia portatore sano e insano di storie non mi ha mai abbandonata e non mi ha mai delusa. Quando ti aspetti una storia, quella arriva. Sicuro come il giorno e la notte. Arriva. Certo, la devi saper cogliere, ma se la aspetti allora i sensi ce li hai allertati per forza.

Le storie migliori sono quelle che ti lasciano piccole briciole di meraviglia da raccogliere mentre le attraversi. I colpi di scena fanno bene, certo, ma possono anche lasciarti l’amaro in bocca. Quando, invece, trovi una briciola dove non pensavi ci potesse essere… ti fermi, la raccogli e te la guardi.

Wow.

E chi ci pensava che qui avrei trovato questa cosa! E chi ci credeva che qui avrei trovato questa meraviglia! E chi ci sperava che qui avrei trovato questo piccolo balzo del cuore che mi ha fatto aprire gli occhi d’un colpo e trattenere il respiro!

Wow.

Auguro mille wow – mescolati belli e brutti – al giorno a tutti, a tutti. Quelli belli ti fanno amare la vita, quelli brutti ti fanno amare le altre cose belle della tua vita. Fare un confronto serve, aiuta. Tutti.

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(416) Prima

Prima c’è la concentrazione e la rimozione del dubbio. Non può che andare bene, andrà bene. Perché il dubbio quando devi agire ti dimezza la forza. Non puoi agire debolmente, devi farlo con energia, il doppio di quella che sarebbe sufficiente per farti arrivare alla meta. E potrebbe volerci un bel po’. Più la situazione è complicata e più i dubbi proliferano. In questo caso, nel mio caso, quello di questi giorni pre-spettacolo non è stato così difficile perché non era il debutto perciò dubbi pochi.

Poi c’è l’attenzione, che deve essere totale per evitarti errori fatali. Non basta andare con la corrente, devi metterci il tuo e di solito costa fatica. Tanta fatica. Più sei sicuro che questa fase di preparazione sia stata da te seguita e curata e più affronterai il momento fatidico con sicurezza.

Il prima non è mai un frizzare di gioia e entusiasmo, piuttosto un meticoloso affaccendarsi affinché tutto quello che si può controllare sia in controllo. Testa bassa e lavoro duro.

Il prima è fatica e stanchezza. Ti domandi prima di addormentarti – che è più che altro un cadere in coma  fino al mattino – se quello che stai facendo ne valga la pena. Te lo domandi, ma non ti rispondi. I dubbi li hai già liquidati durante la fase 1 e indietro non si torna ( “… neanche per prendere la rincorsa” diceva Pazienza ne Le straordinarie avventure di Penthotal).

Il prima è imparare a gestire la tensione e la tua capacità di relazionarti con chi ti sta accanto è fondamentale per non ritrovarti dopo nei guai (meritatamente).

Il prima è emozione, quel chissà come andrà non è mai archiviato davvero. Ti dai sempre – cautamente – una percentuale onorevole di errore, tipo il 20%, ma menti spudoratamente se pensi che poi potresti perdonartelo.

Il prima è contare i secondi e fare un bel respiro e affidarsi a quel che sarà.

C’è sempre un prima in ogni cosa, ho imparato a godermelo e ancora non me ne sono pentita.

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(328) Finestra

Mi piace affacciarmi alla finestra, anzi: alle finestre. Mi piace l’aria che respiro appena apro una finestra, fosse anche al piano terra, perché è diversa. Come se non fosse mia, la sto rubando all’esterno e ha un sapore migliore.

Mi rendo conto che certe assurdità una volta che le scrivi risultano vere e proprie idiozie, ma la cosa non mi spaventa quindi procedo.

L’aria che ho respirato ieri dal settimo piano sapeva di viaggio. Il vento era forte, come a volermi spingere via. Avessi avuto le ali mi sarei buttata. Ho questa natura ballerina io: dentro a una stanza posso volare, ma una volta fuori non mi volto, procedo dritta fino all’orizzonte. E poi faccio fatica a rientrare. Eppure dentro sto bene, so costruirmi un buon nido in cui vivermi, ma non riesco a smettere di guardare il mondo dalla mia finestra struggendomi di nostalgia.

Mi ripeto che va bene così, che non è per sempre, che ogni cosa ha un suo peso e un suo valore e che non si può avere tutto in contemporanea. Mi convinto anche, mai del tutto però. Resto ipnotizzata alla finestra, il vento vorrebbe spingermi oltre eppure so resistergli. Eppure la cosa non mi fa stare bene. Eppure quel vento, quel-vento, è un respiro che quando manca… manca e basta.

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(301) Robot

Fingersi inattaccabili, non provare dolore. Andare avanti comunque, stando in piedi anche quando sotto i piedi hai le sabbiemobili. Facile, no? No. Eppure non è la parte più dura, quella arriva dopo. Arriva quando chi ti sta attorno si è convinto che tu sia quella che va sempre avanti nonostante i colpi ricevuti e che sarà sempre così. E, soprattutto, che i colpi possono arrivare ancora e magari anche più forti tanto tu stai sempre lì a prenderli, stoica e strafottente (o quasi). Ormai non senti più niente.

Cosa puoi inventarti per fargli cambiare questa assurda convinzione? Soccombere? Crollare malamente? Ehmmm… no. Ti sei dimenticata di come si fa, di come ci si arrende e di come ci si possa fermare. Ormai te lo sei cancellata dal DNA. Non perché tu non senta più niente, ma perché ti sei trasformata in una specie di androide alla Blade Runner e forse, forse, va anche bene così.

Solo che ogni tanto ti prende male e ti siedi. Prendi un respiro, senza che nessuno se ne accorga, e ti scopri esausta e quindi debole. Senza che nessuno se ne accorga, perché nessuno se ne vuole accorgere, sarebbe gravoso prendersi quel carico addosso (e poi perché?). Giusto. Perché?

Eh! Che brutta storia essere costretta da una corazza senza i superpoteri di Wonder Woman. Oltre il danno, la beffa.

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(274) Minaccia

Capita, a volte, di sentire il mondo come una minaccia. Capita a tutti. Poi deve passare, però. Vivere in perenne stato di allerta perché il mondo è una minaccia continua ti porta ai matti. Devi farci i conti e trovare un accomodamento vivibile. Prepara un bel giaciglio per la tua ansia e portati appresso un fischietto, che in caso di necessità la chiami e lei arriva.

Per il resto del tempo: scordatela. L’ansia c’è e rimarrà con te per sempre, anche se pensi che lei se ne sia andata, non è così. Sta a riposo, ecco tutto.

Fondamentalmente tutto quello che esiste in questo mondo può essere fonte di ansia e può tramutarsi prima o poi in minaccia tangibile. Spesso letale. Eppure, nonostante tutto, si va avanti. Gestire la propria giornata piegati in due dalla minaccia che incombe sul nostro collo è ingiusto. Ci togliamo il respiro.

Nessuno di noi sa quanto tempo gli è dato da vivere (quasi nessuno) – neppure se abbiamo una condanna esplicita marchiata a fuoco addosso – può sempre accadere qualcosa, in qualsiasi momento e ovunque. Quindi: AMEN. Che sta a significare: non ci possiamo fare nulla. Nonostante le precauzioni, le paranoie, i salti mortali. NIENTE. Te ne vai esattamente quando è il tuo momento d’andartene (al diavolo o in paradiso non fa differenza).

Credo che l’unica minaccia davvero temibile sia quella di avere una mente che gioca al terrore con noi. Un bel respiro, quindi, e sempre avanti – senza perdere il fischietto (sia mai!).

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(106) Respiro

Un respiro lungo e profondo, ogni Essere Umano ne ha diritto. Ci sono vite che proprio non te lo permettono, sei sempre lì a metà, con i polmoni quasi rattrappiti per averli usati in mero regime dei minimi.

Credo che dovremmo riprendercelo con la forza quando le cose non vogliono scansarsi per farti spazio.

Inizia tutto con un respiro, crescendo pensiamo che possiamo farne a meno e ci ritroviamo verdi di bile e in apnea perenne. La mancanza di ossigeno ci rende la vista nebbiosa e il cuore umido di pioggia che non osa mai scendere. Se facciamo come se non fosse importante, lo diventa non-importante. Ci si deve impuntare: voglio quello, esattamente quel respiro lungo e profondo che ho perso. E ci si muove per riprendercelo.

L’ora per respirare è adesso.

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(53) Apnea

Vivere in apnea non è bello. Ogni appassionato di yoga che si rispetti te lo può dire in mille modi diversi: re-spi-ra.

Me ne dimentico continuamente. Respiro poco, è un miracolo che io sia ancora viva. Eh!

Vivere in apnea significa che non osi, non osi respirare per non farti individuare dalla sfiga che con te ha una mira eccellente. No, scherzo… ma non del tutto.

Non osare un respiro profondo, credo, significhi pensare che il respiro che fai te lo devi guadagnare e osarne uno più profondo mi metterebbe nella situazione di essere in debito con la vita… non me lo posso permettere, devo aprire un mutuo per poter concedermi un respiro profondo, devo vendermi un rene, devo ipotecare casa… devo devo devo devo.

Mi è stato detto che nel momento in cui sostituirò il “devo” con il “voglio” la mia vita cambierà.

Non mi spaventa un cambiamento di vita, piuttosto il cambiamento in me (chi mai potrò diventare? In cosa mi potrei trasformare? Non va già abbastanza male così come va?).

E con questa rivelazione credo di aver toccato il fondo del patetico. Amen.

b__

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