(1030) Diverso

diverso /di’vɛrso/ [lat. diversus, propr. part. pass. di divertĕre “deviare”]. – ■ agg. 1. a. [che si differenzia, anche con la prep. daè molto d. da te] ≈ differente, difforme, dissimile, distinto, disuguale. b. [che è in contrasto, anche con la prep. da] ≈ e ↔ [→ DIVERGENTE (2)]. 2. (ant.) [che ha caratteristiche non comuni ≈ bizzarro, inconsueto, insolito, singolare, strano. ↑ mostruoso, orribile. ↔ comune, consueto. ■ s. m. 1. (f. -a) (soc.) [chi è considerato da altri, o considera sé stesso, non conforme a una presunta normalità, in fatto di razza, propensioni sessuali, condizioni fisiche, ecc.] ≈ ‖ anormale, emarginato. ⇓ handicappato, omosessuale, portatore di handicap

Credo che tutti noi, a un certo punto della vita, abbiamo pensato che non sarebbe stato male essere diversi da come siamo. Come diversi? Non lo so… più intelligenti, più belli, più alti, più bassi, più magri, più grassi, più ricchi, più su o più giù. Oppure meno sfigati, meno poveri, meno ingabbiati… meno qualcosa. Comunque diversi. 

Credo che tutti noi, di tanto in tanto, abbiamo pensato che siamo davvero diversi dagli altri. In meglio o in peggio, comunque diversi. Quando ci troviamo a cantare fuori dal coro, quando non facciamo le pecore nel gregge, quando alziamo la testa e affermiamo la nostra verità, quando il come siamo ci obbliga in una condizione di emarginazione forzata… non siamo come gli altri, gli altri che ci rifiutano.

Essere diversi: croce e delizia.

Mi sorprende sempre questa ambivalenza del sentire umano. Come possiamo illuderci di essere sani di mente quando la stessa condizione ci comporta sentimenti opposti? Essere diversi per distinguersi dalla massa, tutti a caccia della nostra intima originalità. Essere diversi e doversi difendere da chi ti accusa di non essere come loro, conforme alla loro idea di normalità, vivere nascosti chiedendo scusa o dare testate a destra e a manca. Follia.

In tutto questo marasma di controsensi gestiamo il nostro quotidiano senza uscire contemporaneamente tutti fuori di testa (diciamo che ci passiamo il testimone e si aspetta il proprio turno per sbroccare, solitamente). Notevole, vero?

Ok, comunque se io potessi essere diversa sarei comunque me. Soltanto un po’ più simpatica. E ho detto tutto.

[allegria]

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(823) Puntine

Siamo arrivati a quel punto dell’anno (la fine) dedicato al tirare le somme. Davanti a me ho – proprio fisicamente – un pannello di polistirolo bianco e in mano una bella quantità di puntine. Andrò nelle prossime righe a scrivere tutte le cose che le puntine fisseranno sul pannello (che è il mio 2018). Siamo pronti? Via!

Il buono del mio 2018:

  • la mia famiglia
  • i miei amici
  • il mio lavoro
  • la mia salute (che sto recuperando)
  • il mio amor proprio (che sto recuperando)
  • la mia voglia di scoprire, conoscere, imparare (che non si ferma mai)
  • i miei progetti (ben lungi dall’essersi esauriti)
  • le mie sconfitte e le mie piccole vittorie
  • il mio esserci senza sconti (croce e delizia di chi mi sta attorno)

Tutto questo è il malloppo che nel 2018 ho mantenuto e accresciuto e che sono intenzionata a portarmi anche nel 2019. Perché è facile dire ora che l’anno appena trascorso è stato un delirio – e lo è stato senza il minimo dubbio –  bisognerebbe anche avere il coraggio di nominare il delirio pezzo dopo pezzo per capire se ne è valsa la pena. Direi, nel mio caso, sì. La fatica, le incazzature, i buchi nell’acqua, gli scivoloni, le botte in testa e quelle all’orgoglio, le cantonate, le speranze spezzate, le illusioni polverizzate: ne valeva la pena.

E non è che adesso io pensi che il 2019 sarà tanto diverso dal suo predecessore… ne sarà la giusta conseguenza: una serie di cunette, muri, precipizi a non finire. Perché è sempre stato così per me e sto iniziando a pensare che è così per tutti, quindi perché lamentarsi?

La cosa migliore di quest’anno, che ormai è quello vecchio, è che ha saputo cambiarmi. A differenza di altri suoi colleghi, che in passato ci hanno provato – santocielo se ci hanno provato – ma che hanno anche fallito miseramente, questo 2018 mi ha messa davanti a me stessa e mi ha urlato: “Ti svegli o no?!”. Ecco, non sarà stato molto carino, né tantomeno gentile, ma l’ho trovato appropriato e del tutto efficace. Pur di farlo smettere di gridare come un ossesso ho iniziato a fare in modo diverso, addirittura a pensarmi in modo diverso da come mi pensavo. Ho proprio provato a pensare di me qualcosa d’altro. Non necessariamente migliore, ma ho varcato certi confini che prima neppure vedevo. Non so come spiegarlo, so che ha funzionato. Ho cambiato idea su me stessa. Già a scriverlo mi fa paura, accorgermi che è la pura verità mi fa tremare le gambe. E adesso come farò?

Boh. Sono certa che il 2019 avrà le risposte che merito. E si salvi chi può!

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(443) Applauso

Certe volte mi farei un applauso. No, non sono ancora arrivata a farmelo davvero – il clap-clap di mani, intendo – ma nella mia testa certe volte l’applauso è scoppiato, lo ammetto. In un paio di occasioni una vera standing ovation, e di notevole durata. 

Quando dico esattamente quello che penso, con chiarezza fulminante, senza paura delle conseguenze. Quando si avvera una previsione fatta sulla base del mio “sentire” di pancia. Quando vedo del bene dove si fa fatica e alla fine il bene si palesa. Quando non faccio calcoli, non faccio pensieri, mi butto e basta e l’esperienza mi rende migliore. Quando non mando a quel paese chi se lo merita, e non perché io sia buona, ma perché non m’importa di far valere il mio ego ferito. Quando – nonostante me ne renda conto – tengo botta e vado fino in fondo per prendermi la fregatura che avevo intuito, perché solo così poi posso buttarmela alle spalle. Quando dico no, anche se vorrei dire sì. Quando dico sì, anche se non sarà facile né comodo né indolore, ma so che è giusto dirlo e non mi tiro indietro. Quando vado oltre la mia pigrizia, lo scazzo, e faccio – semplicemente faccio.

L’applauso serve a darmi coraggio, serve come anticipo d’energia per le batoste che ancora mi aspettano, serve a dirmi “brava, ci sei” perché non mi sento mai brava e penso sempre che esserci sia più una croce che una delizia.

Non è che dopo l’applauso mi senta Wonder Woman, intendiamoci, ma mi fa stringere i denti ancora per un po’ e di po’ in po’ la vita mi si compie tra le mani, illuminandosi sotto i miei passi come le piastrelle del video Billie Jean di Michael Jackson. Con il clap-clap tengo il ritmo, e mi piace perché so che la musica non dura per sempre e le canzoni troppo lunghe non piacciono a nessuno. Almeno non a me.

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