(592) Sorvolare

A volte per riuscire a dare davvero il 100% di me stessa in una situazione devo costringermi a sorvolare sui dettagli. Non posso intignarmi su particolari che non mi vanno a genio altrimenti mi cadono le braccia e non vado avanti. Diamo per scontato che la situazione perfetta non esiste, almeno io non ne ho mai incontrata una che una, quindi quello che devo fare prima di buttarmici è: valutare quanto questa imperfezione mi può essere sopportabile o meno. Insomma, fin dove devo lasciare che il mio fastidio si spinga. Metto in chiaro a me stessa che arrivo fin lì e non oltre e poi faccio conto che devo gestirmi il fastidio al meglio se voglio arrivare alla meta finale. 

Se i dettagli non sono proprio cosa da poco e il fastidio supera la soglia prefissata e sfocia nel dolore (quando i nervi stroppiano), manco mi ci metto. Dico grazie e me ne tolgo subito.

Sorvolare sui dettagli, però, non è che mi viene proprio facile. Di mio sono una che non si rassegna a farsela andare bene, una che quando vede che certe storpiature si possono raddrizzare non riesce a stare zitta. Lo so, sono una pigna nel c—, me ne rendo conto. Ma me ne frego. Solitamente me ne frego perché molto probabilmente parto da presupposti di arroganza blandamente mimetizzata. Va bene, mea culpa. Ma me ne frego anche di questo, non ho sensi di colpa al riguardo. Non lo so il perché, di fatto è così.

Quindi, partendo dal presupposto del “Conosci te stesso” non è che mi sia facile mantenere alto l’entusiasmo. Comunque è un doppio lavoro quello che devo fare: fai finta di niente e chiudi la bocca. Ti pare? A una come me? Se avessi ancora sedici anni non mi terrebbe zitta neppure una tempesta di fulmini scagliati da Zeus, ora le cose sono diverse. Non è che nel frattempo son diventata pigra? Molto probabilmente sì, discutere all’infinito mi sfinisce. Preferisco sorvolare. Fino dove e fino a quando… bhé, mica posso prevedere il futuro!

Tiro fuori il parafulmini, è meglio.

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(591) Brivido

Quelli che preferisco, quelli positivi, ormai non li provo più da millenni. Bah, sarò diventata cinica. Sarà che a forza di tirar su muri protettivi alla fine te ne freghi anche dei brividi. Basta che non ci siano casini, il resto va tutto bene.

Non mi passano, invece, quelli negativi, quelli legati a degli eventi allucinanti che non potevi neppure immaginare potessero accadere. Quelli non passano, nonostante il bombardamento mediatico ci metta il carico da cento per costringerti all’assuefazione. No, non mi farete addormentare prima della mia fine estrema, non ci riuscirete per quanto vi potrete impegnare. Omicidi, eccidi, assoluzioni, indifferenza, assurdità inenarrabili… una lista infinita.

Quando la realtà fa schifo, e tu te ne rendi conto che fa schifo, puoi fare due cose: o te la racconti in modo da fartela piacere oppure fai del tuo meglio per cambiarla affinché non ti faccia più tanto schifo. Si possono contare sulle dita di una mano le persone che scelgono la seconda opzione, lo sappiamo bene. Perché sono così pochi? Perché è faticoso e può essere anche frustrante e snervante. Potresti non arrivare mai a ottenere neppure la metà di quello che speri, nonostante i tuoi sforzi e la tua fede. Cosa da pochi, da chi c’è nato così e non riesce a inventarsi un modo di essere diverso da questo. Quando non hai scelta, il libero arbitrio è dettaglio ininfluente.

Raccontarsela per farsela piacere, invece, è lo sport nazionale. Noi italiani siamo dei maestri in questo e possiamo fare scuola a chiunque. Mi vengono davvero i brividi quando incontro storie deliranti, facilmente demolibili, che vengono portate avanti con prepotenza, e contro tutti, soltanto per non ammettere la realtà delle cose. Perché la realtà delle cose non si fa insabbiare facilmente, ritorna in superficie appena può. La codardia, la furberia, la castroneria – anche quando condivisa dai più – rimangono lì a far mostra di sé. Non si cancellano.

Sono brividi brutti e non passano. Ecco, questa realtà delle cose non riesco a raccontarmela in modo che mi piaccia. Non ci riesco proprio.

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(590) Insostituibile

Uno vale l’altro, dicono, ma non è mai stato così per me. Le persone le ho sempre guardate come pezzi unici, non rimpiazzabili. Insostituibili.

Per questo motivo ogni volta che ho perso una persona a cui ero affezionata non me lo sono perdonato. L’ho sempre vissuta come una sottrazione di valore nella mia vita, va da sé che non ho mai sostituito nessuna di loro.

In questo modo ho lasciato che continuassero a occupare uno spazio dentro di me, anche quando non se lo meritavano, anche quando avrei dovuto cancellare ogni traccia di memoria legata a loro buttandoci sopra dell’acido muriatico. Suppongo sia la conseguenza della mia incapacità di dire addio. O della mia incapacità di ammettere che sono stata sostituita e cancellata dalla loro memoria – con strabiliante facilità. Comunque c’è qualcosa che non funziona in questo mio ragionamento, me ne rendo conto.

Sono, però, contenta, nonostante gli anni e tutto quello che ho attraversato, di non aver perso per strada la mia indole naïve. Guardo ancora ogni Essere Vivente come parte insostituibile dell’Universo, non come bulloni da cambiare perché han perso di tenuta. Puoi sostituire un pezzo difettoso, un prodotto avariato, un tacco rotto delle tue scarpe preferite, ma non puoi pensare di replicare quel meccanismo delicato-affascinante-incasinato che ci portiamo addosso come se le differenze fossero cosa di poco conto.

In certi momenti mi domando: “Precisamente quanti terabyte potrà contenere la mia ram?” e la risposta che riesco a immaginarmi mi spaventa. Finirà – come niente – che il mio cuore si spaccherà in micro pezzi impossibili da riattaccare. Già, e che ne sarà del resto di me? Sostituire un cuore costa una fortuna, qualcun altro deve essere costretto a rinunciarci.

Insostituibile significa per me: senza prezzo, senza eguali, senza sconti, senza riserve. Sì, anche senza rimpianti. Chi se ne è andato dovrebbe portarseli con sé, un bagaglio dovuto, se non altro per decoro o per buongusto. Ah, già dicono che son cose d’altri tempi, ma non è mai stato così per me.

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(589) Interruzione

Già ‘sta cosa non la volevi fare, già t’è pesante la scadenza troppo a ridosso, già ti ci è voluto un secolo prima di trovare la forza di mettertici con impegno che, proprio quando i sei immersa per bene e stai andando avanti dritta – che il tempo quasi non ti è di peso – vieni interrotta.

Da qualsiasi cosa, proprio da qualsiasi cosa. Fosse Essere Respirante o sirena dei pompieri, quella interruzione spezza l’incantesimo e flop, t’accasci sulla tastiera.

Lo sai già che quel che ti aspetta non ti piacerà. Già senti che i piedi vogliono iniziare a marciare, tra i neuroni parte una canzone-martello degli anni ’80 che non ti dà tregua, e tu sei finita. Non c’è verso di riprendere il filo, non c’è possibilità di ricreare quell’atmosfera santa che ancora pochi minuti e ti avrebbe trasportata al traguardo per renderti libera.

Niente.

Il vuoto.

Anzi: il vuoto sfinente.

E finito.

Allora ti dici che lo lasci lì per un’ora e intanto fai altro. E infatti fai altro e, soltanto perché ti scoccia deluderti, dopo un’ora riprendi in mano quel lavoro e te lo guardi supplicante: “Dai, facciamola finita”, gli sussurri telepaticamente. E lui sembra capire, sembra avere compassione di te e del tuo stato deplorevole e si fa ripigliare in mano. Piano piano l’atmosfera sembra ricomporsi, delicata come un soffio è lì e tu ricominci a lavorare. La prima stesura è fatta, ora devi rivedere tutto e metterci un’intro e una chiusa, che ci vuole? Niente, tempo cinque minuti e vinci la sfida.

E qualcosa ti interrompe. Qualcosa che non puoi ignorare, qualcosa che è lì per restare finché non gli dai retta, qualcosa che ti è stata mandata dal diavolo in persona che vuole renderti la vita impossibile. Ti scappa un rosario di imprecazioni, molli tutto e cerchi di sbrigare l’imprevisto meglio che puoi perché devi, devi, DEVI finire quel dannato lavoro. DEVI!

E poi ti scoppia il mal di testa, allora pensi che mangiare qualcosa prima di prenderti un antiemicrania potrebbe essere la soluzione. Mangi e il mal di testa passa da solo, ti rilassi un attimo, così per prendere un respiro, e un abbiocco da guinness dei primati ti piomba addosso. Ma te ne accorgi, ti obblighi a reagire, ti metti di nuovo con le mani sulla tastiera e F-I-N-I-S-C-I quel maledetto lavoro.

ORA!

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(588) Quarantasei

Lo so, è stucchevole. Cioé, ogni anno qui a festeggiare la vecchiaia che avanza. Non si può, dai. Sì, è di cattivo gusto, a chi cavolo interessa leggere del mio compleanno? Avete ragione, ovvio che avete ragione. Ma non me ne frega niente, saltate il 588esimo GiornoCosì e andate pure al 589esimo, non mi offendo tranquilli.

Oggi sto qui con i miei nuovissimi 46 anni a scrivere, ed è come se li avessi da mesi, ormai, perché è da mesi che mi ripeto che quest’anno sono 46. Mi ci sono fatta l’abitudine a poco a poco. Tanto che stamattina mi sono domandata: ma sono 46 oppure 47? E quel 47 mi sembrava inverosimile, ho dovuto fare i conti, davvero! Sospiro di sollievo, ho ancora sei mesi di 46 per poi riadattarli a 47 e farmici l’abitudine finché maggio non arriva a ufficializzarli spietatamente.

Insomma, mi sto godendo questi 46 come se non mi pesassero, col sollievo che non sono ancora 47. Gabbare la mia mente non è poi così difficile, lo ammetto.

Cos’ho fatto per festeggiare oggi? Bé, diverse cose, cose che potrebbero essere giudicate idiote, ma che per me hanno enorme significato. Non le sto a raccontare, anche perché sarete già altrove a quest’ora, sono rimasta qui sola a scrivere – tanto per cambiare. Fatto sta che oggi sono contenta. Incredibile, ma sono contenta. Cosa ancora più incredibile so perché sono contenta, la lista è qui davanti ai miei occhi ed è piuttosto lunga. Certo che la vita è una cosa pazzesca, bisognerebbe pensarci. Bisognerebbe tenerlo ben presente, sempre. Ci chiede presenza e agilità, diciamo che pretende da noi cose che neppure ci immaginiamo di poter fare. Robe da matti. C’è davvero da diventare matti. Forse matti lo siamo tutti, ognuno a suo modo, ognuno perso… dentro ai fatti suoi (eh, Blasco, ma quante ne sai?).

E vorrei raccontare di tutti gli amici che mi hanno ricordata oggi, che grande dono!, e delle persone che via Facebook si sono fermate un attimo per scrivermi Auguri – cosa del tutto non dovuta e quindi supera apprezzata, e del tempo trascorso con la mia famiglia e i due regali che mi sono fatta (che privilegio potersi fare dei regali, vero?), ma forse non serve raccontarlo, serve viverlo e io l’ho vissuto. La morale della storia, come sempre, è solo uno: vivere per raccontarla. La vita, ovviamente, la vita.

A chi si è fermato fino a qui, auguro un giorno come il mio oggi, perché è stato bello, molto bello, e mi ha fatto bene.

Buonanotte 🙂 

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(587) Lucidare

Succede che la ruggine si prende parti di te, mentre stai pensando ad altro. Non ti immaginavi fosse così subdola, ma lei è paziente, sa dove colpire e sceglie il momento in cui sei proprio altrove e non puoi controllare nulla. Brava. Tsé!

Quindi tu te ne accorgi e pensi “che ci vuole? Due minuti e la tolgo!”. Sbagliato. La ruggine è maledetta, non se ne va con una passata di detersivo. La ruggine è lì per restare e te lo dimostrerà. La cosa da fastidiosa diventa preoccupante, non c’è modo di disfarsene. Si dovrebbe sostituire il pezzo, procedere con una nuova cromatura, insomma passare alle maniere forti. Eppure anche la cromatura ha i suoi limiti, potrebbe non dare i risultati sperati.

Ora non è più soltanto una preoccupazione, è un problema da risolvere. E da qui diventa ossessione. Le ossessioni non ci fanno bene, ci consumano lentamente. Ci si può anche ammalare. Quindi?

Non lo so. La ruggine comunque ti fa sbriciolare la carrozzeria, non la puoi ignorare. Bisogna star lì a provare finché non trovi la cura giusta. Devi solo decidere se ti importa abbastanza. Ti importa abbastanza?

Direi di sì.

Ecco, allora non è che ci sia molta scelta. Fai quello che devi fare e spera di essere abbastanza fortunata per scoprire che la ruggine non ha già devastato ciò che di bello avevi e che il resto lo puoi recuperare. In fin dei conti, un po’ di fortuna ogni tanto potrebbe capitare anche a te, no?

Eh.

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(586) Introspezione

Tutto sommato, questo mio diario è sotto ogni aspetto una potente autoterapia. In primo luogo mi permette di rendere evidente i miei spaventosi loop mentali – cosa da non sottovalutare (per la serie: focalizza il problema e trova una soluzione). In secondo luogo mi impone un limite nella lamentela, così tanto per mantenere un certo decoro – importante per non cadere nell’eccessivamente ridicolo. In terzo luogo mi esplicita con una certa enfasi il livello di insofferenza a cui sono arrivata – che è spaventoso, lo ammetto.

Non ricordo di certo tutto quello che ho scritto in questi mesi, figuriamoci!, e non ho alcuna intenzione di rileggere tutto quello che ho scritto in questi mesi, perlamordelcielo!, ma da quel che mi ricordo penso di aver toccato sì e no una decina di temi importanti, il resto è ripetizione.

Ripetizione = Loop

Se ognuno di noi si guardasse dentro per benino, scoprirebbe che gira sempre sulle stesse tracce. Metti che siamo dei 33 giri, i cari LP tanto per intenderci: abbiamo a disposizione 10 tracce che vanno a comporre la nostra identità e la nostra storia. Ok, il pick up – benedetto lui! – una volta partito arriva alla fine della nostra decima traccia e si alza, ritorna alla prima traccia e ricomincia a farla suonare e via fino alla decima. Così, finché abbiamo giorni a disposizione.

Voglio dire: anche il più tonto di noi all’ennesimo giro di pick up si saprà a memoria, no? Lo facciamo con i dischi dei nostri musicisti preferiti, figuriamoci se non lo possiamo fare con noi  (di saperci a memoria, intendo). Inutile far finta di niente, inutile trovarsi sorpresi. Inutile e falso. Davvero. Sappiamo benissimo che dopo quel passaggio arriva il ritornello e poi il bridge e poi il finale, lo sappiamo. Sappiamo che giriamo in loop e facciamo e diciamo e pensiamo sempre le stesse dieci fottute cose, forse con piccole varianti se siamo abbastanza intelligenti, ma non è mica detto. Lo sappiamo. Fingiamo di no, ma lo sappiamo.

Allora io mi domando: perché fingere? Perché raccontarsela diversamente? Bé, è presto detto: o siamo codardi o siamo superficiali o siamo scemi. Semplice.

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(585) Fischio

“Se ti servo fammi un fischio!”

Non lo dico più. Ho smesso perché mi stavano scoppiando le orecchie. Le persone prendono cose veramente importanti più alla leggera di questa frase idiota, robe da matti. Non lo dico più, e ho smesso non per una precisa volontà bensì l’ho fatto naturalmente. Avevo capito che se non si mettono dei limiti, la devastazione è inevitabile e imminente.

Quella Barbara era soltanto la soluzione di quei fastidi che deleghi volentieri a qualcuno di cui non ti importa granché. Infatti, era così: non venivo considerata granché. E a un certo punto una si può anche rompere le palle. E quando succede non c’è nulla che possa porvi rimedio, quel che è rotto rimane rotto – attaccarlo come fanno i giapponesi non è cosa, davvero.

Le conseguenze sono immediate e piuttosto evidenti: il deserto. Esattamente come quello dei Tartari di Buzzati, uguale. E non è detto sia una cosa brutta, almeno ti riposi un po’, ma rimane comunque una cosa triste. Ti rendi conto che quando non sei più utile, non sei più indispensabile. E quindi sparisci.

Lo spazio attorno a te diventa più vivibile, ma se nel frattempo ti eri affezionata a qualcuno si sono aperti dei vuoti dove manca l’aria e ogni volta che ci capiti dentro ti passa la voglia di alzare la testa. Triste, deprimente, pericoloso.

E dopo un po’ la lezione fa quello che deve e ti guarisce. Guarisci piano piano, ma con una certa costanza. Smetti di cadere dentro ai dannati vuoti, alcuni li lasci così come sono, altri li riempi con… te stessa. Ti spargi un po’ di qua e un po’ di là, senza impegnarti troppo, senza darti troppo, senza sentirti troppo. Un sistema perfetto dove il tuo essere ininfluente e tutt’altro che indispensabile più che un peso diventa un sollievo.

Una volta guarita, ti rendi conto che quella frase era un tuo stramaledetto modo di intendere la vita che doveva essere abbandonato. Cambia la dinamica e cambierà la risposta. Se poi la risposta ancora non ti soddisfa, ricambia la dinamica. La vita è un susseguirsi di tentativi. La fortuna è un optional auspicabile, ma non di serie. Ebbé, mica si può pretendere miracoli, al massimo si possono supplicare. Non mi è mai piaciuto supplicare, però, e non inizierò a farlo adesso. Eh!

 

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(584) Concentrazione

La concentrazione è quella cosa delicata delicata che prende forma nella nostra mente quando niente e nessuno ci viene a rompere le palle. Una cosa da nulla, anche un suono proveniente dall’appartamento del vicino, potrebbe compromettere quella santa atmosfera che ti permette di escludere il resto del mondo per dedicarti totalmente a quello che stai pensando e/o facendo.

Appurato questo vien facile capire come per poter raggiungere una concentrazione totale – anche per soli pochi minuti – bisognerebbe vivere su Marte (che immagino un pianeta estremamente silenzioso) perché qui da noi è impossibile non farsi distrarre da nulla. La cosa sarebbe già abbastanza frustrante così com’è se non fosse che gli Esseri Umani sanno essere i più rumorosi della Galassia anche solo per il fatto che respirano. Se poi a questo aggiungi la voglia malsana di attirare su di sé l’attenzione di chiunque si trovi in prossimità, capiamo meglio quanto la concentrazione a lungo termine sia privilegio di pochi.

Negli ultimi tempi la mia  è stata messa a dura prova, si è andata assottigliando e storcendo in modi per me oscuri, tanto che oramai non ne restano che miseri brandelli qua e là – che io raccolgo amorevolmente con la speranza che serva a qualcosa. E mi manca davvero tanto potermene stare nel mio kubkolo a creare senza guardare l’orologio, senza rispondere al telefono, senza dover fare sempre sempre sempre qualcos’altro di più urgente. Come se mi si fosse dimezzata l’aria da respirare.

Non so come rimediare, so che devo trovare il modo di prendere ogni rimasuglio e di stenderlo col mattarello come se fosse pasta per pizza e tentare di renderli sottili e resistenti. Sottili e resistenti. Non ho idea di come farò, ma se non m’invento qualcosa la vedo male per i prossimi mesi. Non posso più rimandare.

[Cosa c’entra il Minion della cover? Concentrati e lo scoprirai!]

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(583) Sudoku

La vita è come una partita a Sudoku, l’ho capito oggi. Ci sono dei numeri (dall’1 al 9) per il Sudoku e anche per la vita di ognuno di noi, bisogna cercare di incastrarli in un quadrato 3×3 contenuto da un altro quadrato 3×3 in modo che non si ripetano (errare humanum est, perseverare autem diabolicum).

Insomma: c’è una griglia grande che ne contiene nove piccole da cui non si scappa, ci sono un numero finito di numeri che si vanno a ripetere – ma non all’interno di ogni mini-griglia – e finché non hai capito dove mettere mano vai a scontrarti con la dura realtà del non-quaglia. Non serve che ti giustifichi, che spergiuri che non capiterà più, che d’ora in poi ti impegnerai al massimo. Se non quaglia, non quaglia. 

E ci passi le giornate a cercare di capire dove sta l’inghippo, ma non è detto che tu lo trova. Mentre ci provi, però, ti convinci sempre di più che l’inghippo c’è e che sta proprio sotto il tuo naso e che prima o poi lo potrai acciuffare.

Per la cronaca: oggi l’ho acciuffato. Voglio dire che ora so come risolvere il maledetto Sudoku aggrappandomi a un puntello, ora lo so. Eppure… non funziona ogni volta, c’è sempre qualcosa che mi scappa. E non ho intenzione di mentire dicendo che fatta una volta è fatta per sempre, ma per me questo è il nuovo inizio. So che come sono riuscita a farcela di tanto in tanto con questo stramaledetto gioco, così ce la farò di tanto in tanto anche con la mia vita. Perché ci sono vicina, solo a un passo, so che sto per raggiungere il senso di questo inghippo e che, una volta trovato, riuscirò a giocare meglio al gioco della vita. Magari anche a vincere, chi lo sa!

[per la serie: la speranza è l’ultima a morire]

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(582) Morso

C’è questa cosa strana e fastidiosa che succede quando stai tentando di far comprendere al tuo interlocutore che sì, hai capito dove vuole portarti col suo ragionamento, ma la conclusione che a lui preme tanto per te è ininfluente. E lui ovviamente ti spiega per filo e per segno la logica che a te sembra sfuggire. Non sei in disaccordo con lui, no, non capisci. Quindi per farti capire meglio la voce rallenta, il concetto viene ripetuto per diverse volte e l’intercalare diventa: capisci, ora? Ti è chiaro?

Ed è preso così bene dal suo spiegare ed estrinsecare concetti aulici che tu – per quanto ti impegni – non riuscirai mai a cogliere l’arguta teoria e lui non si ferma e non si ferma e non si fermerà finché per sfinimento – perché ammettilo che non hai altra possibilità – non gli darai ragione.

Se un cavallo si trovasse in una situazione come questa, ma un cavallo è troppo furbo per trovarcisi, con uno scatto fulmineo del maestoso collo gli mollerebbe uno di quei morsi che farebbero zittire chiunque e per sempre. E adorerei poter essere un cavallo per farlo, davvero. Anzi, no, una cavalla. Perché in questo modo lo stupore sarebbe ancora maggiore e anche l’umiliazione che il demente si troverebbe a dover gestire sarebbe più bruciante.

Il concetto di base è che non mi servono spiegazioni, penso che la tua logica sia stata strutturata su fondamenta traballanti, che quello non sia il punto cruciale su cui discutere, che potrebbe anche essere utile, ma di sicuro non servirà a nulla se avessi il buonsenso e la gentilezza di rivolgere altrove l’attenzione, esattamente dove ti sto indicando io che – da donna – potrei darti la chiave per fare un salto quantico e trovare giovamento alla tua povera visione e per il tuo povero essere uomo. Arrogante, supponente e strapieno di pregiudizi mortificanti.

No, non tutti gli uomini, soltanto gli ometti come te.

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(581) Distinguersi

Credo ci sia stato un fraintendimento e alla base di questo fraintendimento non ci sia il Male Oscuro, bensì un mero tentativo di dare una mano a chi si sentiva senza speranze – nei riguardi di se stesso. Il consiglio è: distinguiti. Sii meglio di tutti, o sii il più strano di tutti, o sii il più intelligente, il più furbo, il più… insomma, distinguiti!

Diamo per scontato che se ti senti senza speranze il problema è molto probabile che abbia origine proprio lì: non pensi di poterti distinguere dal resto della popolazione mondiale. Pensi di non aver nulla di diverso dagli altri per poter prendere in mano questa tua caratteristica e farne qualcosa di meraviglioso. Ecco: siamo al primo controsenso. Perché ti senti diverso dagli altri, allora? Non hai nulla che ti aiuti a distinguerti dagli altri, ma sei diverso dagli altri. Ok, questo significa che chiunque incontri è diverso da te e diverso da un qualsiasi altro? No, non credo. Credo che tu valuti gli altri come diversi da te e pertanto tutti uguali, a meno che non compaiano in tv o sulle riviste, o abbiano milionate di followers su Instagram o Facebook o Tumblr.

Non sono d’accordo con questa visione dell’Essere Umano, in generale, ma vediamo di partire da qui. Si parte sempre da una domanda, solitamente la domanda è: perché? Quindi, perché ti senti diverso? Pensi che nessuno si senta come ti senti tu? Lo credi o lo speri? Lo speri per te o per gli altri? Non è che vuoi essere speciale, ma han già inventato tutto e essere speciale ormai costa troppo?

Distinguersi dagli altri è semplice, il nostro corpo non è uguale a quello di qualcun altro, neppure se ti trovassi davanti a uno dei tuoi sette sosia sparsi nel mondo. Distinguersi, allora, cosa significa? Fare una cazzata dietro l’altra per far notare al mondo che sei pessimo? O sacrificare la tua vita per una causa nobile e dimostrare al mondo che San Francesco è stato niente al tuo confronto?

Distinguersi come scopo nella vita. Che fatica e che stanchezza.

Ogni giorno, con ogni scelta che facciamo ci palesiamo come diversi dagli altri. Anche quando scegliamo le stesse cose, molto probabilmente il motivo che ci anima è soltanto nostro – il frutto della nostra storia, del nostro sentire.

Diverso e Distinto. D’istinto ho scritto che distinguersi sia stato all’inizio magari un buon consiglio che qualcuno ha frainteso, ora penso che il fraintendimento risieda nell’imperativo più che nell’asserzione in sé. Distinguersi significa anche farsi onore e, in questo senso, con un po’ di onesto lavoro, potremmo salvare la situazione. Lasciando da parte gli imperativi, per favore.

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(580) Pulitzer

Presentalo brevemente così che possano leggerlo, in modo chiaro così che possano capirlo, in maniera pittoresca perché sia ricordato e, soprattutto, in modo esatto così che possano essere guidati dalla sua luce. (Joseph Pulitzer)

Mi sarebbe piaciuto incontrare Joseph, mi sarebbe piaciuto poterci parlare per qualche minuto, capire di che pasta era fatto veramente. Quando leggi una frase come questa e ne fai una bandiera affinché sia chiaro a tutti l’ispirazione a cui attingi, due domande ti si possono concedere, no?

Riuscirei a essere breve e chiara, pittoresca ed esatta, e riuscirei anche a far trapelare l’emozione di quelli che sono stati i miei anni di scrittura. Avrei per lui ascolto totale e immensa gratitudine, il rispetto estatico che si riserva ai Maestri. E c’è un altro Maestro a cui vorrei consegnare tutto questo, non molto lontano da me eppure lontanissimo, e vorrei che lui potesse sentire quanto è riuscito a regalarmi da ogni riga che ha scritto. Ogni giorno, penna in mano e mano che poggia sulla carta, ho tenuto fede al mio impegno per assomigliare a lui almeno un po’. Non importa quanto io sia diventata brava nel fallire, importa che io abbia ancora fede e ancora lo stesso impegno che mi porterà a fallire meglio (Beckett docet). Cos’altro potrebbe essere la mia vita?

Ci sono Maestri e ci sono Allievi, raramente gli Allievi riescono a superare i Maestri e sicuramente non ci riescono se nutrono tale ambizione. Essere Allievo è un grande privilegio, essere ispirato è un grande dono. E, forse, le parole a un certo punto cadrebbero sfinite a metà strada se potessi trascorrere alcuni minuti in compagnia dei miei Maestri. Il silenzio s’imporrebbe come unica via e – forse – come unico grazie possibile. Con commozione, ovviamente. Profonda commozione.

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(579) Benestare

E un giorno smetti. Così di colpo. Non ti riconosci più, ma non ci pensi un attimo. Sai che è arrivato il tempo di smettere e sai che ci hai messo fin troppo a capirlo e a prendere la decisione più sana di tutta la tua vita.

Smettere di chiedere il benestare di chi ti sta attorno per fare quello che senti di dover fare per stare bene, è il primo passo verso la salvezza. Io ho iniziato a diciannove anni e non mi sono più fermata. Per questo sono ancora viva.

Non significa che non sento ragioni e faccio sempre di testa mia – ora che ci penso è così, ma posso spiegare meglio…

Non significa che non ascolto quello che chi mi vuole bene pensa al riguardo e magari i consigli che mi vengono offerti, li ascolto, davvero, li ascolto tutti. Ma faccio di testa mia. Invariabilmente. Senza cedere di una virgola. Faccio quello che la mia testa mi dice. Perché la mia testa ci ha pensato e ripensato, ha valutato, ha soppesato, ha tolto, ha aggiunto, diviso e moltiplicato. Ha fatto un salto in avanti, due di lato (ds e sn) e uno indietro; ha guardato bene, tutto quello che poteva vedere l’ha visto, tutto quello che poteva sentire l’ha sentito, tutto quello che poteva immaginare l’ha immaginato. Quello che non ha visto, sentito, immaginato è comunque lontano da me e neppure se me lo racconti mi convinci. Perché se non lo vivo non lo conosco. Tutto qui.

Ovvio che ci sono cose che non intendo vivere e di cui mi basta una vaga idea – mi serve per tenermi a distanza – ma quelle che penso facciano per me, allora sì. E lo so che potresti non essere d’accordo, che mi vorresti evitare un danno, che ti preoccupi per me. Eppure…

Eppure se io avessi aspettato il benestare di qualcuno per ogni passo che ho saputo fare, se avessi creduto a ogni spauracchio mi si fosse palesato davanti evocato da chi la sapeva più lunga, se avessi pensato che non sapevo e non potevo decidere per me e per la mia vita, io sarei morta dentro. Non avrei vissuto cose meravigliose e anche cose dolorose, non avrei capito quanto ero lì per imparare e quanto invece già conoscevo, non avrei messo alla prova tutte le mie insicurezze e i miei gap – ridicoli e non – e non avrei compreso meglio la voce che mi guida nonostante tutto e nonostante tutti, nonostante me.

Non c’è benestare che tenga. Il permesso me lo do io, per fare e per non fare. Così è. Che piaccia o no, questo non è affar mio.

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(578) Isolamento

Una condizione che, se volontaria, ti serve per ricaricare le batterie. Non è che odi l’Umanità, è che in questo momento non riesci a sostenere l’intensità delle cose e ti concedi un po’ di tempo per recuperare le forze. Tutto qui.

Essere sempre presenti, sempre disponibili, sempre al top, non è sano. Essere indisponenti, perché stanchi o scazzati, quando siamo in compagnia, non è bello. Non è che il mondo deve comprendere il tuo stato d’animo, basta che tu te ne resti con te stesso, in un luogo dove non dover essere diverso da quello che sei.

Tutto molto semplice e tutto molto comprensibile, vero?

Eppure, ci sentiamo in dovere di esserci sempre, lì in mezzo, come se il mondo senza di noi arrancasse. Non è così. Il mondo anche senza di noi avanza implacabile e, spesso, manco se ne accorge che manchiamo. Questo ci fa male? Ebbé, è una delle grandi lezioni da imparare: tutti utili, nessuno indispensabile.

Pensa che sollievo saperlo e che sollievo accettarlo. Non devi sentirti in colpa se non sei in sintonia con il buonumore generale. Se quel casino è troppo per riuscire a sopportarlo non serve che ti attacchi all’alcool, fatti una bella dormita. Pensa. Pensa liberamente, a occhi aperti o chiusi, pensa a quello che vivi, a quello che vuoi, a quello che vuoi fare, a quello che vuoi essere. Pensa. Non fa male pensare, anzi.

Una volta ricaricate le batterie ti ributti nella mischia, guardi le persone negli occhi per capirle un po’ meglio e non per mandarle al diavolo. Capita così quando siamo padroni del tempo che viviamo e non succubi di regole che non ci appartengono e – soprattutto – che non sono fatte per noi.

Possiamo scegliere. Sempre, anche se non sempre siamo disposti ad accogliere le conseguenze delle nostre scelte. Ma se lo fai pensandoci, sei pronto a tutto. Senza lamentarti e senza dare la colpa a nessuno. Libertà? Sì, grazie.

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(577) Surfare

Bisogna imparare, prima lo fai e meglio è per te. Arrivare al punto di rottura prima di arrenderti al surf emotivo delle relazioni umane non è una buona idea. Troppo tardi non è mai una buona idea, bisognerebbe ricordarcelo.

Ci sono dei piccoli accorgimenti che possono aiutare, basta solo prenderli sul serio. Del tipo? Bé, innanzitutto non dare nulla per scontato – e lo intendo nel bene e nel male; partire dal presupposto che i furbi son tutti più veloci di te, anche questo ti aiuta a stare allerta evitando di capirlo sempre dopo; un’altra cosa che serve tenere ben presente è che l’interesse del singolo prevale sempre su ogni sentimento benevolo che quel singolo può nutrire nei tuoi confronti. Tieni d’occhio l’interesse e il tornaconto, guarda da che parte va e scoprirai chi si sta preparando a sfancularti. Conta uno-due-tre e vedrai che la previsione si avvererà. Cinica? No, soltanto realista.

Dando per scontato che c’è chi nasce attrezzato per il surf e chi no, non è detto che le cose vadano sempre bene ai primi e male ai secondi e neppure che il surf sia appannaggio dei più dotati, si può anche imparare. Se lo impari a suon di tavolate sul muso, onda dopo onda, diventi cattivo – il dolore rende cattivi, lo sappiamo – quindi capire come vanno le cose un po’ prima di avere i denti frantumati non sarebbe male.

Aggiungerei anche un altro piccolo particolare: quando il surf diventa parte di te, quando non sei in balia delle onde e riesci a barcamenarti mica male – evitando le tavolate intercostali, oltre a quelle sui denti – non ti viene il veleno. Non hai più voglia di spaccare le ossa a tutti perché non stai subendo, non stai soffrendo. E non si tratta di trasformarsi in ginnici cinici (bello il suono di queste due parole insieme, vero?), sarebbe un errore fatale, diventeremmo lividi e la sofferenza si sposterebbe su un piano ben più profondo. Si tratta soltanto di farsi onda. Ripeto: farsi onda e ondeggiare con leggiadria (bello anche questo connubio, no?).

E se onda anomala dev’essere, allora onda anomala sia.

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(576) Espediente

In qualche modo si deve pur fare, in qualche modo si deve andare avanti. Le persone creative, quelle che riescono a raccontarsela bene e sanno inventarsi accorgimenti ad hoc per superare il giorno e la notte e ritrovarsi qui il giorno seguente, sanno come fare. Chi non ne ha bisogno perché ha una vita soddisfacente, può impegnarsi nel raggiungimento della felicità. A ognuno la sua sfida. Qual è la migliore? Mah.

Ci vuole anche un po’ di fortuna, come negarlo, ma la fortuna in mano a un idiota si può trasformare in rovina o può rivelarsi inutile, quindi guardare alla fortuna con intelligenza aiuta.

Superare i giorni e le notti a suon di espedienti, però, logora e toglie piano piano la gioia dal petto. Bisognerebbe provarlo per capire esattamente come si sta, ci sono persone che dovrebbero davvero provarlo e farlo nelle condizioni peggiori che esistano perché conoscendo soltanto l’opulenza le lezioni non le imparerai mai, perché quelle lezioni non ti toccano. Ci sono fantocci di potere che dovrebbero trascorrere anni di miseria prima di meritarsi un pallido risveglio. Ma questi sono dettagli filosofici perché quei fantocci sanno come manovrare la fortuna e sanno farsi forti della miseria degli altri. Un gioco già deciso, già vinto, già fatto e per nulla divertente se sei gli altri.

E qui, però, si potrebbe anche parlare di condizioni, di premesse, di presupposti che ritornano sempre al concetto di privilegio e quasi mai di merito. La Giustizia è un’idea che non ha nulla a che vedere con la realtà, lo sappiamo bene.

Se volessimo, invece, ritornare agli espedienti allora potremmo approfondire il discorso cercando di rispondere a una domanda semplice: che limite ci poniamo? Proporzionale al bisogno? Alla disperazione? Alla sete di rivalsa? O di vendetta? Eh, sì, ce n’è per tutti i gusti e per tutti gli scrupoli. Certo che se è vero che noi siamo il frutto della fortuna che abbiamo saputo sfruttare, allora cadono le regole del bene e del male e anche quelle del pudore e della vergogna. Un gran casino da cui non si esce più. A pensarci m’è venuto mal di testa.

Da qualche tempo, molto tempo in verità, l’espediente che funziona meglio con me è quello di pensare che andrà meglio, che è solo una questione di tempo e andrà meglio. Una sorta di speranza travestita da traballante fiducia in quel modo strano che ha la vita di darti qualcosa, quel tanto che basta per non abbandonarti a te stesso finché ce n’è.

Come canta Ligabue, sì. Finché ce n’è.

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(575) Doccia

Sono sempre stata un tipo da doccia, bollente per la precisione. Se mi immergo in una vasca d’acqua bollente e magari profumata, dieci secondi e mi addormento. Con la doccia è diverso. L’acqua che scorre si porta via il peso dei pensieri e fa aprire porte e finestre mentali da cui l’aria può circolare.

Sembra un dettaglio ma non lo è. I tipi da bagno sono diversi dai tipi da doccia. Non meglio né peggio, ma diversi sì.

Fosse per me mi butterei in doccia ogni due ore, sono certa che il mio stato mentale ne trarrebbe un giovamento pazzesco. Ringiovanirei di almeno dieci anni in pochi giorni, ne sono certa. Comunque, la questione si pone ogni volta che mi trovo nella condizione scomoda di dovermi inventare qualcosa per togliermi dai guai. Posso passare ore alla forsennata ricerca dell’appiglio giusto, ma non succede nulla finché non mi butto in doccia. Dopo mezz’ora (almeno) devo uscirne alla velocità della luce prima che l’Illuminazione mi sparisca del tutto. A volte mi porto carta e penna perché arriva tutto insieme ed è un casino ricordare ogni dettaglio, specialmente per me che mi dimentico cosa sto facendo mentre lo sto facendo.

Le idee migliori mi sono arrivate tramite l’acqua bollente della doccia, sì, come se stessero appollaiate dentro i tubi e aspettassero pazientemente che io mi decida ad aprire il rubinetto. Impressionante, davvero. Vorrei, però, riuscire a controllare meglio la dinamica che si scatena perché se mi arrivassero i numeri della prossima estrazione del superenalotto potrei sistemare una doccia in ogni stanza e nessuna spesa sarebbe più utile e salvifica, poco ma sicuro.

Eh.

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(574) Accesso

L’Arte non ha bisogno di essere spiegata, non ha bisogno di didascalie né di sottolineature stucchevoli. Eppure ha bisogno di sporgersi quel tanto per offrirti la sua mano e farti entrare. Quando ti fa rimanere sulla porta e ti fa sentire quasi un intruso, un ficcanaso non autorizzato, smette di essere luogo di meraviglia per diventare luogo di disagio. Smette di essere Arte.

La penso così. L’Arte che si rende astrusa perché dedicata soltanto a pochi eletti non soltanto mi mette a disagio, ma mi allontana proprio. Guardo altrove. Se non sai rendermi partecipe della magia, quella cosa che chiami magia non mi appartiene, non me ne importa nulla, me ne vado. Semplice.

Il punto è che l’ego si espande in chi fa Arte e se non è supportato dall’intelligenza, stroppia. Non mi basta che ti definisci artista, mi devi proprio convincere e non mi convinci dimostrandomi quanto mi sei superiore, bensì quanto riesci ad avvicinarti a me nonostante la tua superiorità. Semplice.

I grandi Artisti lo sanno, gli altri non ci pensano neppure. L’Arte si nutre dell’emozione che riesce a suscitare in chi si avvicina con stupore di bambino e si lascia portare via, in un viaggio che nessuna realtà potrà mai contenere. Semplice.

L’Arte la senti ovunque nel corpo e ovunque nei pensieri e ovunque nell’anima, non ci sono confini, ci sei dentro anzi… Lei è dentro di te. Anche se non ha origine in te, ma in qualcuno che ha saputo crearla e ha saputo comunicarla in modo che tu – che non c’entri nulla – ne puoi godere. Così maledettamente semplice e così maledettamente raro. Vero?

Il punto rimane questo: l’ego. Dove niente è semplice, niente.

Mi sono rotta le scatole delle élite culturali, dove gli architetti si proclamano Gli Eletti, dove i musicisti si proclamano Gli Eletti, dove i poeti si proclamano Gli Eletti e anche gli scrittori e anche gli attori e anche i pittori e anche…

Sembra che il mondo sia pieno di Eletti e che quelli che non lo sono non valgano un tubo. Non valgono nemmeno la pena di godere di quello che Gli Eletti creano perché non è roba per loro, comunque. E se la cantano e se la suonano e se la raccontano e se la tirano, tutti quanti come scimmie in una gabbia dello zoo dove strapparsi le noccioline di mano e chi ne mangia di più è il più bravo.

Dammi un accesso, fosse anche soltanto una fessura che mi permetta di godere di un po’ della tua luce e non sarà necessario autodefinirti artista, sarò io a inchinarmi a te riconoscendoti creatore e quindi Artista. No, non è così semplice. Se lo fosse, quel Artista non avrebbe il peso che invece ha e deve avere.

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(573) Sgambetto

Mi fai lo sgambetto e io inciampo. Inciampo perché non me l’aspettavo, inciampo perché sono in buonafede, inciampo e magari mi faccio anche male. Me lo fai una volta, due volte, tre volte e io ci casco sempre. Perché sono in buonafede, perché io non te lo farei mai, perché mi hai detto “fidati di me”.

Questo giochetto prima mi fa male, poi mi fa arrabbiare. Sempre, ogni volta. Avrai da me sempre la stessa reazione, mi incazzerò sempre e magari ogni volta un po’ di più. A un certo punto, raggiunto il culmine della sopportazione, sbotterò e tu penserai che sono una isterica, che sto facendo di una stronzata un affare di stato, che tanto domani mi passa. Ma domani non mi passerà, perché oggi ho smesso di fidarmi e mi aspetterò altri sgambetti da te e quelli arriveranno e io smetterò di incazzarmi per andarmene definitivamente.

Ecco, ora ho messo nero su bianco la ragione di ogni mio andarmene, da quand’ero adolescente fino a oggi. Facendo due calcoli sono arrivata a questo schema, che non è una conclusione, è soltanto un punto di partenza. Perché da qualche parte devo pur ricominciare e per ricominciare ho bisogno di poggiare il piede su terreno solido, che è questo: smettere di approcciare il mio prossimo in buonafede, stare attenta abbastanza da prevenire gli sgambetti e non cadere. Non cadere più. Forse muovendomi con questa intenzione me ne accorgerò in tempo, inciamperò di meno, mi farò meno male. Forse.

Comunque sia, il “fidati di me” vale un bel niente. Sappiatelo.

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(572) Levigare

Ho sempre lavorato sul levigare le increspature del mio carattere con l’intento di ricavarne una superficie liscia, piacevole al tatto. Se per certi versi penso ancora che ci fosse bisogno di farlo, per altri mi rendo conto che forse non mi sono fatta un buon servizio. Forse ho sbagliato a focalizzarmi sull’essere piacevole agli altri, quasi fosse un obbligo, quasi fosse un dovere, quasi fosse indispensabile per essere come gli altri. 

Gli altri chi, però? Attorno a me c’erano e ci sono ben pochi Esseri Umani levigati, ognuno di loro ha imperfezioni e sanno essere persino splendidi a volte! Anche per gli altri oltre che per se stessi, bisogna dirlo.

Io per quanto mi ci sia impegnata, non sono riuscita a levigare ogni angolo di me, anzi, e negli ultimi anni ho lasciato perdere. Non volentieri, solo per stanchezza. La vivevo come una sconfitta, come un percorso non terminato e quindi inutile.

Valutato che per me non capire un cavolo è prassi, almeno non subito e non perfettamente, mi sto risvegliando da questo profondo sonno, dove giudicarmi e fustigarmi era la regola, per – forse – iniziare a rivalutare le nodosità del mio carattere. In poche parole, ho riposto la piallatrice e sto valutando la superficie di certe zone della mia personalità che sono emerse di recente: quelle implacabili, quelle risolute, quelle severe, quelle indigeribili, quelle urticanti, quelle pedanti, quelle irascibili e molte altre ancora. Non me ne frega niente di risultare piacevole, non più. Si vede che qualcosa dentro mi è morto o forse è nato, qualcosa di diverso da prima c’è e anche se non capisco che cosa sia non cambia nulla, devo comunque adeguarmi.

Una superficie liscia fa scivolare ogni cosa, senza curarsi di trattenere nulla. Lo dovevo capire molti anni fa che non sono nata per questo, non ho gli anticorpi giusti e neppure l’astuzia giusta. Io ostacolo, trattengo, assorbo. Ci sarà pure un motivo per cui sono così. Magari prima o poi lo scoprirò. Magari.

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