(887) Partire

Ammetto che, a volte e sottolineo a volte, partire per la tangente mi viene facile. Me ne accorgo tardi, quando già sono in viaggio, e tirare il freno a mano diventa pericoloso. Un testacoda letale.

Devo quindi monitorarmi quando i primi sintomi si fanno sentire. Io li riconosco, ma non sempre ho voglia di fermarli. Un maledetto diavolo me lo impedisce. Mi sussurra: “Dai, vediamo dove ti andrà a far sbattere la testa questa volta!”. Lui si diverte, io un po’ meno, ma la curiosità mi rimane. Quindi due volte su tre parto.

Pessima idea. Ma parto.

Durante il viaggio può davvero succedere di tutto, ma una cosa è certa: che io abbia torto o ragione il risultato non cambia. Per rimettermi in piedi mi ci vogliono almeno due/tre settimane buone. Non sto scherzando. La ripresa si è allungata a dismisura con l’età avanzata. Un dato che dovrebbe obbligarmi a usare un po’ di discernimento e a tirare quel dannato freno a mano. Sì, consapevolezza onorevole e del tutto fuori luogo con me. Sono senza speranze.

La curiosità di dove andrò a sbattere, di volta in volta, il naso è troppa. E non mi chiedo mai se ne valga la pena, se non sia uno spreco di tempo ed energia, se non sarebbe forse il caso di trovarmi un innocuo hobby su cui concentrarmi. Mai. Partire rimane sempre la cosa più interessante a cui riesco a pensare. E la tangente, bé, quella non è mai la stessa pertanto il panorama cambia. A volte è una superstrada, altre un vicoletto chiuso, ma la sorpresa qui e là la trovo sempre.

Sì, l’ho già detto, sono senza speranze di rinsavimento prima dei novant’anni.

E poi si vedrà.

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(585) Fischio

“Se ti servo fammi un fischio!”

Non lo dico più. Ho smesso perché mi stavano scoppiando le orecchie. Le persone prendono cose veramente importanti più alla leggera di questa frase idiota, robe da matti. Non lo dico più, e ho smesso non per una precisa volontà bensì l’ho fatto naturalmente. Avevo capito che se non si mettono dei limiti, la devastazione è inevitabile e imminente.

Quella Barbara era soltanto la soluzione di quei fastidi che deleghi volentieri a qualcuno di cui non ti importa granché. Infatti, era così: non venivo considerata granché. E a un certo punto una si può anche rompere le palle. E quando succede non c’è nulla che possa porvi rimedio, quel che è rotto rimane rotto – attaccarlo come fanno i giapponesi non è cosa, davvero.

Le conseguenze sono immediate e piuttosto evidenti: il deserto. Esattamente come quello dei Tartari di Buzzati, uguale. E non è detto sia una cosa brutta, almeno ti riposi un po’, ma rimane comunque una cosa triste. Ti rendi conto che quando non sei più utile, non sei più indispensabile. E quindi sparisci.

Lo spazio attorno a te diventa più vivibile, ma se nel frattempo ti eri affezionata a qualcuno si sono aperti dei vuoti dove manca l’aria e ogni volta che ci capiti dentro ti passa la voglia di alzare la testa. Triste, deprimente, pericoloso.

E dopo un po’ la lezione fa quello che deve e ti guarisce. Guarisci piano piano, ma con una certa costanza. Smetti di cadere dentro ai dannati vuoti, alcuni li lasci così come sono, altri li riempi con… te stessa. Ti spargi un po’ di qua e un po’ di là, senza impegnarti troppo, senza darti troppo, senza sentirti troppo. Un sistema perfetto dove il tuo essere ininfluente e tutt’altro che indispensabile più che un peso diventa un sollievo.

Una volta guarita, ti rendi conto che quella frase era un tuo stramaledetto modo di intendere la vita che doveva essere abbandonato. Cambia la dinamica e cambierà la risposta. Se poi la risposta ancora non ti soddisfa, ricambia la dinamica. La vita è un susseguirsi di tentativi. La fortuna è un optional auspicabile, ma non di serie. Ebbé, mica si può pretendere miracoli, al massimo si possono supplicare. Non mi è mai piaciuto supplicare, però, e non inizierò a farlo adesso. Eh!

 

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