(875) Filante

Mozzarella filante, questo mi viene in mente. Ma anche stella filante, certo. Poi sono andata a recuperare il dizionario e ho trovato anche: affusolato, slanciato, aerodinamico. Eh. Filante, come un siluro. Ci devo pensare su.

A volte penso che penso troppo. Dovrei smettere. Forse.

Non è che basta deciderlo. Magari. I pensieri sono filanti, come la mozzarella sulla pizza. Lasciano la scia quando li tiri, in qualsiasi direzione. Quando rimangono così attaccatti l’uno all’altro fanno filare il discorso. 

Sì, pensare troppo non mi fa troppo bene. 

Ritornando a tutto ciò che fila, mi piacerebbe tanto che una volta o due quello che per me fila filasse anche per gli altri. Presente quando costruisci un bel discorso che chiude il cerchio e tutto torna, la perfezione della logica si compie? Talmente evidente che manco ci sarebbe bisogno di spiegarlo. Lo guardi e capisci. Ecco, sarebbe bello che una volta o due mi riuscisse la magia, perché in certe giornate mi piglia uno scoramento smisurato nel constatare che c’è bisogno sempre di spiegare spiegare spiegare spiegare… Alla fine, dopo tante parole si torna al punto di partenza: embhé?

Eh. Ma che parlo a fare allora? Niente, ritorno al pensiero puro, a quello che rimane in testa e non ha bisogno di essere condiviso, quello che può filare e restare filante senza che questo comporti nient’altro. Sto lì e contemplo la perfetta filatura della mia mozzarella stesa sulla mia pizza sinaptica e faccio della contemplazione la mia ragione d’essere. Mi trasformo in un filosofo filante, uno con lo scazzo per il mondo, uno di quelli che stringe il cuore e smette di occuparsi dei piani bassi per proiettarsi nel suo magnifico iperuranio. Uno che se ne fotte del condividere e del confronto. Uno che ha in sé le domande, le risposte e i punti e le virgole. Tutto. 

Ok, detto questo vado a rispondere a un paio di email spiegando perché c’è bisogno di comunicare un po’ meglio. Non tanto, neh, soltanto un po’. Ma non credo userò i miei pensieri filanti, magari metterò un biglietto su un siluro e mirando bene…  

Maledizione.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(827) Pastasciutta

Andiamo per stereotipi va là: sono italiana e amo la pasta. Con quasi tutte le salse. Quasi tutte perché pure io c’ho i miei gusti – e le mie intolleranze alimentari che son qui apposta per rovinarmi l’appetito. Comunque, la pastasciutta ITALIANA, quindi cucinata da noi come noi sappiamo fare e basta, è il mio salvagente. La cosa migliore della pasta è che esiste in diversi formati e consistenze e te la puoi condire come diavolo vuoi tu. Perfetto.

Mangiare sempre pasta non va bene, non è sano e neppure sensato, quindi è ovvio che io abbia anche altri cibi preferiti, tra questi non c’è molta carne e non tutto il pesce, come non tutta la verdura. C’ho pure io i miei gusti, l’ho già scritto. Ok, dove voglio arrivare? Eh, l’ho presa un po’ larga ma mi serviva per rendere chiaro il concetto: la pasta non ti chiede di fare da topping a una pizza, non ti chiede di essere sperimentata come dessert, non ti chiede di essere sintetizzata in una pillola che Morpheus ti fa scegliere quando sei arrivato al punto cruciale della questione. La pasta è pasta, vuole fare la pasta e non gliene frega nulla di quello che vuoi tu. Se non ti piace mangia altro.

Sostituendo il soggetto (pasta) con Uomo/Donna funziona allo stesso modo. Un Uomo non ti chiede di farlo diventare più dolce o più salato, più alto o più basso, più elegante o più fattone, più intelligente o più stupido, più simpatico o più borioso. Un Uomo è così com’è. Se non ti piace scegli altro.

Stessa cosa per una Donna, che non ti chiede di farla diventare più bella o più brutta, più intelligente o più scema, più fashion o più-che-diavolo-ne-so-io (ormai avete capito dove voglio andare a parare): una Donna è quello che è. Se non ti piace scegli altro.

Certo che entrambi possiamo essere conditi in diversi modi e abbiamo diverse fattezze e consistenze, ma Santiddddddddio perché dobbiamo sempre partire dal presupposto che scegliere un Essere Umano da amare voglia dire farlo diventare ciò che tu vuoi che sia? Significa darsi la zappa sui piedi, decretare il proprio inferno, far subire al prescelto/alla prescelta una serie di punizioni davvero crudeli oltre che imbarazzanti. Ma siamo matti?

Scegli la pasta che vuoi, per i cavoli di motivi che vuoi, ma mentre la stai mangiando non pensare che vorresti una pizza o una cotoletta, goditi la pasta cosciente di quello che stai gustando e basta. E basta. Se poi ne hai abbastanza della pasta e vuoi cambiare, va bene, vai con Dio e prenditi una pizza, ma non pretendere che sia la pasta a trasformarsi in pizza: muovi il culo e vattela a prendere da solo la pizza che vuoi. E lascia la pasta in pace, una volta per tutte.

Questa non è una storia autobiografica nel senso stretto della parola, è un pensiero filosofico autobiografico però. Difendo a spada tratta il diritto di chiunque di essere quello che è senza che qualcun altro lo pretenda diverso.

NdR: il post qui sopra è stato scritto con tono assertivo, ma non incazzato. Non si capisce?

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(753) Origine

Ci sono dettagli di mondi che ti porti dentro da quando nasci. Ti vengono passati dritti dritti nel DNA dal luogo che ti dà origine. Non è che fanno parte di te, troppo facili da eliminarli sarebbero, sei tu che fai parte di loro e loro non ci pensano neppure a lasciarti andare pertanto ci nasci e ci muori insieme. Spaventoso.

Anni e anni di terapia non bastano a liberarti, noi lo speriamo perché ci piace essere i soggetti (protagonisti) della nostra vita e non oggetti della vita di qualcun’altro o qualcos’altro, ma prima ci rassegniamo e meglio è. Per questo particolare da nulla, se nasci tra le montagne loro ti seguiranno ovunque anche se ti trasferisci a vivere in una spiaggia su un atollo sperduto in mezzo all’Oceano Pacifico. Stessa cosa se sei nato in quell’atollo e ti trasferisci sulle Dolomiti, sei fatto d’acqua (più del 99% oserei dire, senza voler togliere lo scettro dell’idiozia a nessuno) e non ci puoi fare nulla.

Non si tratta solo di un’immagine che ti porti dentro, magari fosse così, è proprio un preciso codice strutturale che ti tiene non solo in piedi ma anche insieme. Non ti permette di scollarti, di frantumarti in pezzettini e volare via. Se vogliamo allargare un po’ la prospettiva possiamo tirare fuori la questione de “italiani-mafia-pizza-e-mandolino” che ho toccato con mano quando vivevo all’estero. Perché se a noi dà fastidio, giustamente, dà fastidio perché siamo proprio questa cosa qui. Urticante, sì, ma questa cosa qui. Altrimenti odieremmo la mafia, odieremmo la pizza, odieremmo il mandolino. Invece noi cadiamo perennemente in atteggiamenti omertosi (in ogni settore in cui agiamo incontriamo questa dinamica malata e violenta), ci nutriamo di pizza pure tutti i giorni (potendolo fare) e amiamo la musica melodica (anche quella che ti rendi conto che è inascoltabile, ma tu ci ricadi e canticchi quella roba lì appena sei sovrappensiero anche se sei un batterista thrash-metal).

Ci fa schifo questo quadro vero? Eh. Quindi cerchiamo di cambiarlo, ci allontaniamo da questo concetto maledetto quando siamo qui al sicuro nella nostra bella, e sottolineo bella, Italia. Appena ci allontaniamo, però, ci struggiamo per poter mangiare una vera pizza napoletana, e ci vengono i capelli dritti quando ascoltiamo musica melodica del luogo che ci accoglie perché non sono i nostri suoni (anche se siamo ancora batteristi thrash-metal) e non riusciamo ad accettare altri meccanismi mafiosi gestiti diversamente dal nostro, che conosciamo bene e con cui abbiamo imparato a scendere a patti. Cosa facciamo quindi? Creiamo in giro per il mondo una piccola Italia: Little Italy everywhere!

Fa schifo tutto questo? Eh. Eppure è così che funziona. Funziona per noi, funziona per i francesi, per gli inglesi, per i tedeschi, per gli spagnoli, per gli americani, per i giapponesi, per i cinesi, per gli indiani… devo continuare? Non riusciamo a lasciare nella nostra terra d’origine le tradizioni, la cultura, la mentalità perché siamo una parte di quel mondo e non possiamo staccarci da lui che è – in tutto e per tutto – noi. Neppure se ci facessimo monaci tibetani. NON funziona. Semplice.

Mi piacerebbe moltissimo che questo semplice concetto venisse preso per buono quando si parla di integrazione perché non si tratta di cambiare le radici di un Essere Umano, di snaturarlo, di farlo diventare altro. Si tratta di inserire pezzetti di altri mondi in un contesto che è chiaramente un’altra cosa, un altro mondo. E siamo ben poco evoluti per saperlo fare, siamo davvero ancora come preistorici che usano la clava per risolvere le situazioni fastidiose e pensiamo, totalmente privi di senso pratico, di essere aperti al mondo. Prova a mangiare un piatto di pasta al ragù preparato da un pakistano e vedrai se non ti viene un nervoso che glielo tireresti in faccia il piatto. Non siamo pronti. Possiamo però cucinare noi un piatto di pasta al ragù al nostro ospite pakistano e, secondo me, si leccherà i baffi e ce ne chiederà ancora (rispettando noi e la nostra cucina).

Ho spinto al limiti ogni elemento di questo post perché eufemizzare fa parte del raccontare, ma sotto sotto sotto – pensiamoci bene – è quello che stiamo vivendo: un gran caos di etnie diverse che portano in giro i loro mondi sperando di non perdersi. Se togli a un Essere Umano le sue radici volerà via con l’Anima in lacrime. Lo sanno bene i Nativi Americani, gli Aborigeni, gli Innuit e tutti i popoli che ora stanno ritornando a casa per non morire nel vento. Abbiamo ucciso tanto, vediamo di non uccidere tutto. Per favore.

 

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(675) Pizza

Credo che la nostra lingua sia la più bella in assoluto, credo anche che sia la più pazza in assoluto. Mettiamo il caso della pizza: è una delle meraviglie culinarie di cui tutti vanno matti eppure se dici di qualcosa o di qualcuno che è una pizza significa che ti annoia e quando molli una pizza a un cafone lo fai per tenerlo al suo posto. Follia.

Mi domando come possiamo pretendere che arrivino da noi persone di altri continenti e che possano capirci o capire come far funzionare l’italiano tanto da destreggiarsi nel loro quotidiano senza tentennamenti. Follia.

Diamo per scontato che è molto probabile che il giapponese o l’hindi o il senegalese o l’innuit sia altrettanto complicato che l’italiano, se andassimo da loro adottando la loro lingua ci ritroveremmo come dei bambini balbettanti.

E la lingua che parli significa chi sei, da dove vieni, che cosa hai imparato e come lo hai imparato, significa un suono diverso e un respiro diverso, significa costruire pensieri con una logica che è il frutto della tua terra e dei geni che ti hanno lasciato in eredità. Significa tanto, significa tutto.

E noi, noi che abbiamo questi suoni e il lascito di bellezza e arte che ci invade ogni cellula, noi ci permettiamo di manomettere e sbeffeggiare la nostra lingua. Ci permettiamo di ridurla a rumore, a verso animalesco, a immondezzaio dove svuotare la pochezza dei nostri neuroni. Lo facciamo parlando e lo facciamo scrivendo. Pensiamo che quello che abbiamo ricevuto sia roba da poco, che si possa buttare o reinventare soltanto perché la pensiamo una pizza.

Bhé, comunque sia la pizza va bene in ogni stagione e in qualsiasi versione e soprattutto la pizza mangiata nel nostro Bel Paese è la Regina. E con questo ho finito di delirare anche per stasera. Buonanotte.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(584) Concentrazione

La concentrazione è quella cosa delicata delicata che prende forma nella nostra mente quando niente e nessuno ci viene a rompere le palle. Una cosa da nulla, anche un suono proveniente dall’appartamento del vicino, potrebbe compromettere quella santa atmosfera che ti permette di escludere il resto del mondo per dedicarti totalmente a quello che stai pensando e/o facendo.

Appurato questo vien facile capire come per poter raggiungere una concentrazione totale – anche per soli pochi minuti – bisognerebbe vivere su Marte (che immagino un pianeta estremamente silenzioso) perché qui da noi è impossibile non farsi distrarre da nulla. La cosa sarebbe già abbastanza frustrante così com’è se non fosse che gli Esseri Umani sanno essere i più rumorosi della Galassia anche solo per il fatto che respirano. Se poi a questo aggiungi la voglia malsana di attirare su di sé l’attenzione di chiunque si trovi in prossimità, capiamo meglio quanto la concentrazione a lungo termine sia privilegio di pochi.

Negli ultimi tempi la mia  è stata messa a dura prova, si è andata assottigliando e storcendo in modi per me oscuri, tanto che oramai non ne restano che miseri brandelli qua e là – che io raccolgo amorevolmente con la speranza che serva a qualcosa. E mi manca davvero tanto potermene stare nel mio kubkolo a creare senza guardare l’orologio, senza rispondere al telefono, senza dover fare sempre sempre sempre qualcos’altro di più urgente. Come se mi si fosse dimezzata l’aria da respirare.

Non so come rimediare, so che devo trovare il modo di prendere ogni rimasuglio e di stenderlo col mattarello come se fosse pasta per pizza e tentare di renderli sottili e resistenti. Sottili e resistenti. Non ho idea di come farò, ma se non m’invento qualcosa la vedo male per i prossimi mesi. Non posso più rimandare.

[Cosa c’entra il Minion della cover? Concentrati e lo scoprirai!]

Share
   Invia l'articolo in formato PDF