(655) Ritorno

Il bisogno di spostarmi da un luogo all’altro è sempre stata la spinta che mi ha permesso di bypassare la mia pigrizia e anche alcune mie paure. Proprio queste paure, non ricevendo da me nutrimento, si sono andate ridimensionando e alcune sono del tutto sparite. Ho sperimentato chi sono quando viaggio, quando mi tolgo dalla mia comfort zone e, mano a mano che crescevo, sono venuta a patti con certe mie idiosincrasie e le tremende ansie – massì, mettiamoci dentro anche loro. 

Mi piace tornare a casa e ricomporre i pensieri, al sicuro nel mio ambiente, dove trovo le persone che amo e gli oggetti che parlano di me. Sto bene dove sto, ma…

Prendere l’auto e andare, è una delle cose più belle che posso immaginare per me. Guidare, la libertà più cara. Anche prendere un aereo e oltrepassare confini territoriali che l’uomo ha deciso per sé e i suoi simili è un privilegio enorme. Andare, anche lontano, e poi ritornare.

Se rimani troppo attaccato al tuo luogo, se non alzi lo sguardo, se non ti apri e se non ti rendi vulnerabile, come puoi incontrare il mondo? No, non sto dicendo che se non ti muovi non capisci il mondo, perché menti sopraffine hanno capito bene il mondo anche quando il mondo sembrava essere grande come un fazzoletto. La comprensione del mondo la si fa scavando e proiettandosi in cielo.

L’incontro con il mondo è un’altra cosa. Magari mentre lo incontri non ci capisci un’acca, ti si incasinano le sinapsi, ti vien voglia di scappare via, ma… poi, quello che hai assorbito inconsapevolmente ti ritorna, riaffiora in superficie per farsi guardare meglio, farsi gustare meglio. Questo accade a ogni mio ritorno a casa, sempre.

Per me ogni viaggio non ha mai un solo ritorno e neppure una sola andata. Sarà che sono nata strana, ma questa cosa la vivo come una delle mie caratteristiche migliori.

[Sì, ne ho altre e non lo dico per vantarmi, è proprio un dato di fatto. Così io, così ogni Essere Umano, ovviamente]

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(572) Levigare

Ho sempre lavorato sul levigare le increspature del mio carattere con l’intento di ricavarne una superficie liscia, piacevole al tatto. Se per certi versi penso ancora che ci fosse bisogno di farlo, per altri mi rendo conto che forse non mi sono fatta un buon servizio. Forse ho sbagliato a focalizzarmi sull’essere piacevole agli altri, quasi fosse un obbligo, quasi fosse un dovere, quasi fosse indispensabile per essere come gli altri. 

Gli altri chi, però? Attorno a me c’erano e ci sono ben pochi Esseri Umani levigati, ognuno di loro ha imperfezioni e sanno essere persino splendidi a volte! Anche per gli altri oltre che per se stessi, bisogna dirlo.

Io per quanto mi ci sia impegnata, non sono riuscita a levigare ogni angolo di me, anzi, e negli ultimi anni ho lasciato perdere. Non volentieri, solo per stanchezza. La vivevo come una sconfitta, come un percorso non terminato e quindi inutile.

Valutato che per me non capire un cavolo è prassi, almeno non subito e non perfettamente, mi sto risvegliando da questo profondo sonno, dove giudicarmi e fustigarmi era la regola, per – forse – iniziare a rivalutare le nodosità del mio carattere. In poche parole, ho riposto la piallatrice e sto valutando la superficie di certe zone della mia personalità che sono emerse di recente: quelle implacabili, quelle risolute, quelle severe, quelle indigeribili, quelle urticanti, quelle pedanti, quelle irascibili e molte altre ancora. Non me ne frega niente di risultare piacevole, non più. Si vede che qualcosa dentro mi è morto o forse è nato, qualcosa di diverso da prima c’è e anche se non capisco che cosa sia non cambia nulla, devo comunque adeguarmi.

Una superficie liscia fa scivolare ogni cosa, senza curarsi di trattenere nulla. Lo dovevo capire molti anni fa che non sono nata per questo, non ho gli anticorpi giusti e neppure l’astuzia giusta. Io ostacolo, trattengo, assorbo. Ci sarà pure un motivo per cui sono così. Magari prima o poi lo scoprirò. Magari.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF