(931) Cinismo

Il tipo di cinismo che subdolo si intrufola anche nelle persone migliori è quello che ti fa pensare sistematicamente: “tanto non serve a niente”. L’inutilità della tua azione e del tuo pensiero, nell’ambito in cui stai, ti schiaccia a terra e decidi di non fare e non dire per non sprecare la tua energia e crearti aspettative che verranno mortificate. Senza ombra di dubbio.

Con presunzioni credi di sapere già come andrà a finire e molli prima. Non solo manchi di coraggio, ma anche di credo. Hai smesso di credere che la vita ti possa stupire positivamente, che la vita sia comunque e sempre un divenire e che quello che metti in campo crei delle dinamiche che possono portarti del buono. Non ci credi. 

Per giustificare questa tua mancanza di fede puoi vantare una lista pressocché infinita di volte in cui hai fatto e hai detto e tutto è andato in malora lo stesso. Hai annotato ogni evento nei dettagli perché sono cose che bruciano e continuano a bruciare anche a braci spente. Le altre volte, invece, quelle dove tutto è andato bene grazie al tuo fare e al tuo dire non le hai contate, quelle erano ovvie e a quelle dai poco valore. 

Punto di vista comprensibile e per certi versi condivisibile, ma parziale. E ci sei dentro ogni volta che ti dichiari sconfitto in partenza. “So già come andrà a finire, non serve a niente” è la scusa che diventa il tuo passepartout. E te ne fai un vanto perché a te certe cose non fanno più alcun effetto, certe delusioni non ti toccano più, certe cadute le lasci volentieri agli altri. Ti sei fatto furbo. Non sono più fatti tuoi. Guardi gli altri con supponenza, pensando “poveri idioti”. 

Ecco, il cinismo ti sta consumando ogni grammo di umanità, ti sta riducendo a una larva senza alcun valore. Stai permettendo all’amarezza di ingabbiarti i pensieri togliendoti la possibilità di provare gioia e dolore. Sì, perché non è che se non ti fai possedere dal Demone tutto andrà come vuoi tu, ma almeno non vivrai in un perenne stato di rincoglionimento emotivo che ti porterà, sempre e comunque, a odiare gli altri, te stesso e la vita. Perché tu meritavi di più e invece ecco cosa ti è toccato vivere. Re dell’autocommiserazione, senza alcuna corona che ti distingua dagli altri, perché sei irriconoscibile tra i tanti.

Siete in tanti, sì. Un popolo intero. Prendete il numero e mettetevi in fila, guardatevi bene l’un l’altro, tenetevi stretti o il dubbio che state proprio sbagliando tutto si insinuerà tra di voi e potrebbe farvi rinsavire. Sì, perché adesso non vi meritate nulla considerato che state rubando l’entusiasmo alla vita e il buonumore di chi – per loro sfortuna – vi vuole bene e vi sta accanto.

Sssssssssssshit.

 

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(582) Morso

C’è questa cosa strana e fastidiosa che succede quando stai tentando di far comprendere al tuo interlocutore che sì, hai capito dove vuole portarti col suo ragionamento, ma la conclusione che a lui preme tanto per te è ininfluente. E lui ovviamente ti spiega per filo e per segno la logica che a te sembra sfuggire. Non sei in disaccordo con lui, no, non capisci. Quindi per farti capire meglio la voce rallenta, il concetto viene ripetuto per diverse volte e l’intercalare diventa: capisci, ora? Ti è chiaro?

Ed è preso così bene dal suo spiegare ed estrinsecare concetti aulici che tu – per quanto ti impegni – non riuscirai mai a cogliere l’arguta teoria e lui non si ferma e non si ferma e non si fermerà finché per sfinimento – perché ammettilo che non hai altra possibilità – non gli darai ragione.

Se un cavallo si trovasse in una situazione come questa, ma un cavallo è troppo furbo per trovarcisi, con uno scatto fulmineo del maestoso collo gli mollerebbe uno di quei morsi che farebbero zittire chiunque e per sempre. E adorerei poter essere un cavallo per farlo, davvero. Anzi, no, una cavalla. Perché in questo modo lo stupore sarebbe ancora maggiore e anche l’umiliazione che il demente si troverebbe a dover gestire sarebbe più bruciante.

Il concetto di base è che non mi servono spiegazioni, penso che la tua logica sia stata strutturata su fondamenta traballanti, che quello non sia il punto cruciale su cui discutere, che potrebbe anche essere utile, ma di sicuro non servirà a nulla se avessi il buonsenso e la gentilezza di rivolgere altrove l’attenzione, esattamente dove ti sto indicando io che – da donna – potrei darti la chiave per fare un salto quantico e trovare giovamento alla tua povera visione e per il tuo povero essere uomo. Arrogante, supponente e strapieno di pregiudizi mortificanti.

No, non tutti gli uomini, soltanto gli ometti come te.

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(200) Buddha

Budda (o Buddha) s. m. [dal vedico buddhá– «svegliato, illuminato», part. pass. di bódhati]. – 1. Epiteto del principe indiano Gautama (c. 560-480 a. C.), fondatore del buddismo. Con riferimento alla posizione in cui è rappresentato nell’iconografia ufficiale, sono com. le frasi stare seduto come un B., e sembrare un B., per indicare non solo la posizione a gambe incrociate ma anche, in genere, un atteggiamento di solenne e indolente immobilità, soprattutto di persona un po’ pingue. 

Mi trovo qui in posizione buddhica. Tra l’altro è Pasqua. Se qualcuno ora mi sta leggendo ci troverà zero senso in questo forzato collegamento mentale, ma il senso a volte scorre sopra o sotto o accanto e raramente troppo in superficie.

La mia indolenza è dovuta allo stato di sbigottimento per gli accadimenti politici che stanno coinvolgendo tutto il nostro benedetto pianeta. Nostro malgrado, ovviamente, perché non siamo noi a decidere. O meglio: quando possiamo decidere scegliamo gente votata alla distruzione di massa, non è che abbiamo il diritto di pretendere altro.

Fatto sta che l’atteggiamento solenne e indolente di immobilità che il Buddha ci presenta come alternativa, lo preferisco al parlare a vanvera e sparare a raffica idiozie senza conoscere in profondità argomentazioni e dinamiche.

Il bel tacer che non fu mai scritto mi è molto caro, per svariati motivi, ma più invecchio e più lo vedo come unica salvezza quando il mondo esplode.

L’immobilità non è passività, non come la intende il Buddha. L’indolenza non è supponenza per il Buddha. La posizione, per me scomodissima, è comunque eretta e di accoglienza. Senza che un capello si muova, con il sorriso sulle labbra. Non di derisione, ma di accettazione.

Tutto questo ha senso, ma scorre in profondità e se stai urlando e bestemmiando, se ti stai agitando come un ossesso per infierire contro chi ti appare vulnerabile e pertanto bersaglio ideale, questa profondità ti è negata.

Il mio sguardo si abbassa, per vedere meglio. Non fuori, ma dentro di me. Poi vedrò cosa fare. Non ora, poi. E anche Gesù la pensava così, per morire e poi risorgere doveva per forza pensarla così. Il cerchio si chiude. No?

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