(927) Dinamica

Cambiare la dinamica che tu stessa metti in funzione quando i risultati non sono consoni alle tue aspettative è cosa buona e giusta. Che sia facile farlo è tutto da vedere. Mille tentativi e mille fallimenti. Bisogna metterlo in conto.

La questione è che potrebbe anche andare peggio e il peggio fa sempre paura.

Certo che siamo propensi a pensare peggio-di-così-non-può-andare, ma soltanto perché siamo ottusamente ottimisti o perché non conosciamo il sacrosanto al-peggio-non-c’è-mai-fine. Questo ti iberna. Lo so.

E non si tratta di essere intelligenti o stupidi, perché le dinamiche seguono Leggi Universale che ci sono sconosciute. O meglio, le riconosci appena ti si avventano contro per mangiarti viva. Questo è.

La dinamica che vedi partire, e che-vorresti-fermare-ma-ormai-è-troppo-tardi, ti guarda divertita e fa quel che sa fare, ovvero: scatenare una sciagura dietro l’altra. Non hai neppure l’opzione massì-chissenefotte-vada-come-vada, perché ricordi bene come va e che ti devi poi smazzare le conseguenze. Quindi decidi, esausta, di agire diversamente, anzi, di pensare diversamente e mettere in essere una dinamica migliore, magari più felice.

Appena lo decidi l’Universo si piega al tuo volere e la felicità ti cade in braccio.

Wrong. Damn Wrong.

Appena lo decidi, l’Universo strizza l’occhio a tutte le variabili esistenti e disponibili e dichiara: Let’s Party!!!!

E tu, tu che dell’ottimismo non sai che fartene perché tu vuoi e puoi decidere della tua esistenza, tu che pensi che comunque vada sarà un successo perché tu hai capito – diamine hai capito! – che sta a te agire diversamente e ora è ovvio che le cose miglioreranno, tu che finché non ci metti il naso non ti rassegni e non molli, tu – povera piccola anima patetica – tu sarai l’attrazione del party.

No, non uscirai dalla torta, lasciando tutti senza respiro, no. Ti tireranno la torta in faccia però. Perché sarai il Clown.

Oh, yeah.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(899) Vecchiaia

Pensavo sarei invecchiata meglio. M’immaginavo sarei invecchiata meglio. Sorridente. Cos’è andato storto? 

Un paio di ipotesi magari le posso anche azzardare e non mirerei troppo lontano dal bersaglio, ma in realtà non sta lì il problema. Il punto focale della questione è capire cosa posso fare per porci rimedio.

Lo ignoro bellamente.

Non si tratta di fare una cosa piuttosto che l’altra, non si tratta di fare. E quando non si tratta di fare, la sottoscritta va in palla. Fare mi viene bene, pensare mi incasina. Penso tanto e male. Questo non posso cambiarlo. Posso cambiare l’azione del mio pensare male, ovvero penso-male e poi faccio il contrario (così funziona di solito), ma è il pensiero che condiziona l’invecchiamento.

Dovrei trovare il modo di invertire il senso, di provocare un cortocircuito alla rete neuronale in modo che qualcosa si sconvolga e la dinamica mia solita cambi. Si chiama elettroshock, ma mi spaventa. E se poi non mi riconoscessi più?

Rimane il fatto che questa amarezza mi spegne il sorriso e invecchiare così non va affatto bene. La mia ingenuità? Pensare che quell’essere giovane, quella voglia di abbracciare il mondo e conquistarlo, sarebbe durata in eterno. Non ero io a sentire, era la giovinezza a provare l’infuocarsi del sangue e la felicità che fa scoppiare il cuore soltanto perché ci sei e vivi.

Non ero io. Io sono quella che ne è rimasto. E a dirla tutta non è granché. Di questo mi dispiaccio. E con questo devo farci i conti, tutti i giorni. Soltanto perché ci sono e vivo.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(819) Cancellare

Non si cancellano certi gesti, certe parole, certi pensieri. Non si cancellano certi pregiudizi, certe presunzioni, certi convincimenti. Non si cancellano certe scelte. Non si cancellano certi errori. Non si cancellano certi dolori. Non si cancellano certe mancanze, certe ferite, certe oscillazioni. Non si possono cancellare. Semplicemente.

Allora starci attenti, prima, non sarebbe una pratica inutile, ci salverebbe da parecchie sciagure, da parecchie seccature, da parecchie paranoie. Ma noi ci pensiamo? No.

Possiamo cancellare una persona dalla nostra vita, certo. Ma dal nostro cuore? Possiamo cancellare un fatto dalla nostra memoria. Ma dal libro delle conseguenze? Possiamo cancellare un giorno dal calendario. Ma dal nostro ricordo?

Le tracce si ripercuotono all’infinito, anche se ce ne dimentichiamo. Ci sono riverberi che sfuggono al controllo, si riflettono in specchi frantumati da attimi di rabbia o d’acuta goffaggine. Non siamo sempre capaci di tenere le briglie salde della nostra emotività. Magari fosse così.

Resta il fatto che abbiamo una gomma in mano per cancellare qualcosa o qualcuno, ora, proprio adesso. Cosa o chi cancelleremmo? Ok, se non ci è possibile farlo, ci è possibile non replicare l’errore, la scelta, l’azione. Basta focalizzarci su questo e cambiare la dinamica della nostra esistenza. Si lavora su quello che c’è e che non vogliamo più per cancellare quello che si sta preparando per noi nell’universo e che vorremmo evitare. Tentar non nuoce. Bando alla pigrizia!

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(737) Soddisfazioni

Oggi ne ho contate almeno tre, un record. Non ne parlo mai perché le incamero e ci passo oltre velocemente, troppe cose da fare e situazioni da risolvere, sfide da affrontare… tutto troppo per fermarsi e gongolare. Non va bene, non va bene perché sembra che ci siano solo le lamentele e le rogne, ma non è così. Sarei scema a fare quello che faccio se fosse solo così. 

Quindi eccomi al dunque: le soddisfazioni. Sono per lo più legate alla sfera umana, quando la comunicazione si compie senza fraintendimenti e con l’intenzione di incontrarsi e di trovare soluzioni creative e intelligenti insieme. Certo che scrivere un testo convincente ed efficace è un gran bel gol, ma non basta. La cosa migliore di tutte è attuare una dinamica di condivisione che va oltre il lavoro che si sta affrontando. 

L’intesa con i colleghi (basta uno sguardo e già sai), il confronto con i dirigenti (la stima che ricevi te la sei guadagnata ma non è mai scontata), l’incontro con i clienti (che ha nell’ascolto l’arma vincente), la collaborazione con professionisti che sanno portare la loro esperienza fino da te e che accolgono la tua in modo naturale… sembra un’utopia, vero? Non lo è.

Se lavori con questi intenti, questo può diventare il campo che ogni mattina ti vede entrare in gioco. Non lo trovi già pronto, lo devi costruire zolla dopo zolla, e devi crederci anche quando le tensioni e gli attriti si fanno pesanti. Perché un lavoro senza scazzi, casini e rotture proprio non esiste. Neppure se è il più bel lavoro del mondo e se non lo cambieresti con nessun altro. Bisogna farsi acqua, bisogna affidarsi allo spirito d’avventura, bisogna rinunciare a un po’ di comodità per azzardare dove non sei mai stato, bisogna rinunciare a metterci un punto perché si procede per virgole, bisogna rassegnarsi a ricominciare anche se non è mai daccapo è sempre un passo più in là rispetto a dove sei partito.

Bisogna. Se non te la senti, se ti chiami fuori, se pensi che non sia importante, se pensi di poterne fare a meno, se pensi che non ne vale la pena, se credi che le cose belle della vita siano altrove, allora siediti e aspetta di arrivare alla pensione sperando che il tuo inferno non abbia la meglio su di te.

Oppure: svegliati e muoviti. Non ci sono alternative, tu cambi e il mondo attorno a te cambia assecondando le tue decisioni. Il mondo non è uno solo, il mondo è personale. Sono due cose piuttosto diverse, ci hai mai pensato?

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(585) Fischio

“Se ti servo fammi un fischio!”

Non lo dico più. Ho smesso perché mi stavano scoppiando le orecchie. Le persone prendono cose veramente importanti più alla leggera di questa frase idiota, robe da matti. Non lo dico più, e ho smesso non per una precisa volontà bensì l’ho fatto naturalmente. Avevo capito che se non si mettono dei limiti, la devastazione è inevitabile e imminente.

Quella Barbara era soltanto la soluzione di quei fastidi che deleghi volentieri a qualcuno di cui non ti importa granché. Infatti, era così: non venivo considerata granché. E a un certo punto una si può anche rompere le palle. E quando succede non c’è nulla che possa porvi rimedio, quel che è rotto rimane rotto – attaccarlo come fanno i giapponesi non è cosa, davvero.

Le conseguenze sono immediate e piuttosto evidenti: il deserto. Esattamente come quello dei Tartari di Buzzati, uguale. E non è detto sia una cosa brutta, almeno ti riposi un po’, ma rimane comunque una cosa triste. Ti rendi conto che quando non sei più utile, non sei più indispensabile. E quindi sparisci.

Lo spazio attorno a te diventa più vivibile, ma se nel frattempo ti eri affezionata a qualcuno si sono aperti dei vuoti dove manca l’aria e ogni volta che ci capiti dentro ti passa la voglia di alzare la testa. Triste, deprimente, pericoloso.

E dopo un po’ la lezione fa quello che deve e ti guarisce. Guarisci piano piano, ma con una certa costanza. Smetti di cadere dentro ai dannati vuoti, alcuni li lasci così come sono, altri li riempi con… te stessa. Ti spargi un po’ di qua e un po’ di là, senza impegnarti troppo, senza darti troppo, senza sentirti troppo. Un sistema perfetto dove il tuo essere ininfluente e tutt’altro che indispensabile più che un peso diventa un sollievo.

Una volta guarita, ti rendi conto che quella frase era un tuo stramaledetto modo di intendere la vita che doveva essere abbandonato. Cambia la dinamica e cambierà la risposta. Se poi la risposta ancora non ti soddisfa, ricambia la dinamica. La vita è un susseguirsi di tentativi. La fortuna è un optional auspicabile, ma non di serie. Ebbé, mica si può pretendere miracoli, al massimo si possono supplicare. Non mi è mai piaciuto supplicare, però, e non inizierò a farlo adesso. Eh!

 

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(525) Resti

Ogni tanto guardo quel che resta di me a fine giornata. Non è uno spettacolo esaltante, ma sto iniziando a valutarlo sospendendo il mio dannato senso critico. Ho pensato di cambiare dinamica per vedere come va, sì.

I resti che mi trovo tra le mani sono quello che m’è riuscito di salvare nello scempio della mia giornata, fatta di tante cose e di tante tante richieste da assorbire in qualche modo ispirandomi a un atteggiamento zen che poco mi appartiene. I miei resti verranno raccolti in un sacchettino e durante la notte saranno sistemati e ripristinati affinché assomiglino a un tutt’uno. A volte ci riesco, altre no.

Il più delle volte ci riesco e questo fa sì che io possa affrontare una nuova giornata, senza troppe pretese ma con una speranza di arrivare a sera con mezzo neurone funzionante. Mi sono, però, resa conto che in questo modo non si può andare avanti per sempre, perché il mucchietto dei miei resti piano piano si sta rimpicciolendo.

Tutto sommato non sono così preoccupata perché la soluzione da attuare ce l’ho, devo solo decidermi a farlo. Devo nutrirmi di tutto quello che fin dalla notte dei tempi funziona in casi come il mio, in una sola parola: Arte.

Lettura, musica, cinema, fotografia, balletto, pittura, scultura… ancora e ancora ancora e ancora. Questo nutre e ripristina la materia.

I miei resti, quelli di oggi, mi stanno guardando scettici: “Lo farà davvero?”, si stanno chiedendo.

“Non me la sento di promettere nulla, belli, ma ci posso provare”, e sono sincera, davvero. Non la stanno apprezzando granché questa mia spontanea disposizione nel correre ai ripari, ma non hanno scelta, si devono fidare. Do a tutti la buonanotte e vediamo cosa mi riuscirà di combinare domani. Sempre domani.

Se sono fortunata.

 

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(281) Intrico

Quando tutto è troppo ingarbugliato cosa si fa? Si prendono le forbici e zak, un bel taglio secco. Il buonsenso te lo dice, lo spirito pratico te lo ripete, il calcolo matematico (l’agoritmo delle rotture di balle) te lo conferma: zak.

E io, invece, lì a cercare di capire com’è stato, quand’è stato, che il tutto si è ingarbugliato… era partito così bene, liscio!

E perdo tempo, perdo la pazienza, perdo la voglia e l’entusiasmo (sembra una canzone di Vasco e forse lo è, non ho voglia di indagare proprio ora che se no perdo il filo). Fatto sta che anche quando capisco e trovo il perché e il dove dell’intrico, non serve a niente. Devo comunque usare le forbici e zak.

La questione irritante è che gli intrichi non seguono tutti la stessa logica, non sono fissati in una dinamica standard. Gli intrichi sono creativi. Ognuno ha il suo estro, ognuno ha i suoi motivi, ognuna ha i suoi nonsense e la matematica non può nulla contro di loro. La prevenzione è vana.

Ti ci trovi in mezzo e che tu sia stato poco accorto o semplicemente un idiota, il dato di fatto non cambia. Non hai altro modo per tirartene fuori, ovvero: Zak.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(204) Ehmmm…

Perplessità. Ci sono volte in cui ho bisogno di tempo per farmi un’idea e quindi rimando la chiacchiera. Ci sta, è una cosa che ho imparato con gli anni e l’esperienza: se non hai le idee chiare (anche se non necessariamente definitive) stai zitta. Cosa ben diversa quando il pensiero è nitido, tagliente, impietoso e decido di evitare di aprire bocca per non farlo uscire. Solitamente scatta nel mio interlocutore un violento istinto kamikaze che lo spinge a provocarmi finché sbotto e ciao. La catastrofe mi si palesa davanti e l’inevitabile accade. E accade sempre.

Da dove nasce quindi la mia perplessità? Da un semplice dato di fatto: appurato che potrei essere ribattezzata Cassandra visto il numero infinito di volte in cui ho detto una cosa sensata (se non addirittura intelligente) senza essere minimamente presa in considerazione se non dopo che la conseguenza si sia resa evidente (nove volte su dieci era prevedibile, niente di trascendentale), mi chiedo perché io continui a crollare quando riconosco l’arrivo della provocazione anziché girarmi e andarmene?

Lo ignoro bellamente.

Dev’esserci qualcosa che mi scatta dentro e che mi inibisce la comunicazione sinaptica, immobilizzandomi gli arti e al contempo sciogliendo la capacità dialettica per far uscire quei pensieri, esattamente quelli che producono la catastrofe anche se soltanto io ne conosco la portata – che va ben oltre quel che si vede.

Partendo da questa lecita perplessità, la domanda nasce spontanea: perché non appellarsi a quel soprascritto Lo ignoro bellamente e forzare un cambio di dinamica che si basi sul vuoto – di conoscenza – anziché sul pieno?

Ehmmm… perché sono Cassandra e alla Ruota del Saṃsāra gliene frega un cavolo di farmi vivere tranquilla. Ecco.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(125) Caos

Il mio Caos è lo Spazio Sacro in cui nasce tutto. Tutto cosa? Tutto il progetto di me-persona. Me lo devo ricordare ogni volta che ho giornate come questa dove il Caos mi sembra la fine e non l’inizio.

Non ho un modo chiaro (e forse neppure intelligente) per spiegarlo a me stessa, figuriamoci agli altri. Anche a scriverlo non risulta migliore, né più nitido né più malleabile: il mio Caos è una carogna.

Mi annichilisce, mi sovrasta, mi polverizza. Poi mi faccio una doccia e il mio Caos si placa per far risalire a galla una boa.

Al momento la boa mi sembra bellissima, è la mia salvezza. Se faccio l’errore di ritornare, però, nella realtà prima del dovuto la boa diventa bolla di sapone e puf. Sparisce.

Processo irreversibile e dinamica immutabile. Errore che commetto spesso, anche oggi, ma il mio Caos è lo Spazio Sacro in cui nasce il progetto di me-persona.

L’ho scritto per ricordarlo meglio, senza la speranza che mi risulti migliore o nitido o malleabile.

Il mio Caos rimane una carogna.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF