(938) Recidivo

Non vediamo le cose per come sono, vediamo le cose per come siamo.

Anaïs Nin

È la condanna, senza sconti, senza scampo. Ci ricadi, non c’è niente da fare. Magari non con le stesse modalità e non con le stesse conseguenze, ma ci ricadi. Tu pensi che sia diverso, che le nuove premesse che ti erano state presentate fossero garanzia di nuova situazione e invece no. Vivi in loop la stessa situazione che ti porta allo stesso risultato. E la delusione ti sommerge. E l’amarezza.

Decidere di fidarsi, decidere di affidarsi, decidere di restare, decidere di continuare a fare e a crederci. Poi tutto frana e tu ci rimani sotto. Inevitabile, le cose franano prima o poi. Inevitabile.

E quando stai lì sotto ti manca il respiro, il panico ti congela e cerchi forsennatamente dentro di te una via d’uscita. Prima al panico e poi alla situazione. Inevitabile.

E non è che ti sei dimenticata di quello che è stato, che ci sei già passata e che sei già una sopravvissuta, ma pensavi che fosse finita. Che non ci saresti ricascata. Nella fiducia, nell’affidarti, nel restare perché ci credi. Forma mentis da smantellare, si può? E si può vivere bene aspettandosi sempre che tutto frani da un momento all’altro? 

È il pensiero, che recidivo, continua a sistemarsi su quel concetto base malsano: le premesse erano diverse. Però peccare di buonafede non ti toglie alcuna responsabilità, al massimo ti rende patetico. E qui si cade nel tunnel dell’autocommiserazione. Il che non aiuta di certo. Damn.

Ultima considerazione: vagliare la possibilità di prenderla meglio. Così. Semplicemente. Un appunto che lascio sulla mia scrivania e che potrebbe tornarmi utile appena il panico si deposita sul fondo, lo sguardo si stabilizza e la soluzione si palesa. Perché credo che me la caverò anche stavolta.

Si può smantellare la propria forma mentis? Non credo.

 

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(565) Zucchero

Ne basta un po’ e la pillola va giù, lo dice Mary Poppins e prova a darle torto se ci riesci. La pillola va giù. Trovare lo zucchero per far andar giù le pillole non è cosa scontata, soprattutto per quelle pillole che ne richiedono quantità enormi. Ma se la pillola la vuoi ingoiare – vuoi? – allora procurati lo zucchero e non fare tante storie.

Troppo zucchero, però, non fa bene quindi se stai andando in overdose il mio consiglio spassionato è: non ingoiare troppe pillole. Semplice. Non è che tutte le pillole devono essere accettate come inevitabili, no? Chi lo ha detto? Facciamo in modo di scegliere tra quelle che devi proprio prendere e quelle che puoi lasciare lì tranquillamente.

Lo dico in un altro modo: se una cosa non ti va bene, non ti va bene e basta. Diamo per scontato che avrai pure le tue buone ragioni. Non si tratta di capriccio o di schivare le proprie responsabilità, a volte non ti va bene perché lo trovi moralmente ingiusto, opprimente, nauseante, ripugnante. E se è così, niente zucchero e niente pillola. Basta. Si prende il coraggio a due mani e lo si usa per opporsi a quello che a uno sguardo superficiale sembra inevitabile.

Poche cose sono inevitabili nella vita, una di queste è la morte e se pensiamo di ingoiare tutte le pillole che ci propinano e passarla liscia allora sì che andremo incontro a una brutta fine. Intossicazione, come minimo. Io preferisco il salato, ma so trovare lo zucchero in tutto quello che faccio altrimenti non lo farei, davvero non lo farei. Il veleno lo lascio a chi si pensa immortale. Io, no, non lo sono e non sono neppure particolarmente dotata. Ho imparato a prendere quello che è davvero inevitabile e a digerirlo, come ho imparato a lasciar lì sul comodino quelle pillole che non sono – in realtà – lì per me.

Strano a dirsi, ma sono ancora viva a raccontarla. Vorrà pur dire qualcosa questa stramberia, no?

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(204) Ehmmm…

Perplessità. Ci sono volte in cui ho bisogno di tempo per farmi un’idea e quindi rimando la chiacchiera. Ci sta, è una cosa che ho imparato con gli anni e l’esperienza: se non hai le idee chiare (anche se non necessariamente definitive) stai zitta. Cosa ben diversa quando il pensiero è nitido, tagliente, impietoso e decido di evitare di aprire bocca per non farlo uscire. Solitamente scatta nel mio interlocutore un violento istinto kamikaze che lo spinge a provocarmi finché sbotto e ciao. La catastrofe mi si palesa davanti e l’inevitabile accade. E accade sempre.

Da dove nasce quindi la mia perplessità? Da un semplice dato di fatto: appurato che potrei essere ribattezzata Cassandra visto il numero infinito di volte in cui ho detto una cosa sensata (se non addirittura intelligente) senza essere minimamente presa in considerazione se non dopo che la conseguenza si sia resa evidente (nove volte su dieci era prevedibile, niente di trascendentale), mi chiedo perché io continui a crollare quando riconosco l’arrivo della provocazione anziché girarmi e andarmene?

Lo ignoro bellamente.

Dev’esserci qualcosa che mi scatta dentro e che mi inibisce la comunicazione sinaptica, immobilizzandomi gli arti e al contempo sciogliendo la capacità dialettica per far uscire quei pensieri, esattamente quelli che producono la catastrofe anche se soltanto io ne conosco la portata – che va ben oltre quel che si vede.

Partendo da questa lecita perplessità, la domanda nasce spontanea: perché non appellarsi a quel soprascritto Lo ignoro bellamente e forzare un cambio di dinamica che si basi sul vuoto – di conoscenza – anziché sul pieno?

Ehmmm… perché sono Cassandra e alla Ruota del Saṃsāra gliene frega un cavolo di farmi vivere tranquilla. Ecco.

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