(1063) Autoscontri

Li ho sempre odiati, non soltanto per i colpi alla cervicale che riducevano l’ipotetico divertimento in brandelli, ma soprattutto per il concetto che sta alla base del ludico passatempo ormai datato: guido per venirti addosso e darti fastidio. Di solito è un obiettivo che se sei alla guida di un’auto su una strada non ti viene neppure in mente – a meno che tu non sia uno squilibrato – quindi è chiaro che è finzione (perlamordelcielo so di cosa si sta parlando) eppure… secondo me è senza senso. La Finzione (sì, con la lettera maiuscola) segue criteri rigorosi di senso altrimenti si sfascia. Ecco, il concetto degli autoscontri riduce lo scopo finale (il DIVERTIMENTO) abbinandolo al dolore. E non si sta parlando di sesso pertanto la perversione lascia davvero il tempo che trova. 

Detto questo, le premesse sono importanti in certi frangenti, stavo riflettendo che tutti noi abbiamo subito ‘sto maledetto imprinting da autoscontri e ne abbiamo fatto la nostra ragione di vita. Noi non cerchiamo di guidare nel rispetto delle regole di buon senso che mirano a salvaguardare la vita nostra e del nostro prossimo, no. Noi facciamo di tutto per andare addosso a chi ci capita sotto tiro per creargli più fastidio possibile. 

Esempio: sono al bar e mi suona il cellulare. Non solo me ne resto lì in mezzo agli altri che si stanno bevendo qualcosa per i fatti loro e magari sono in compagnia e avrebbero piacere a conversare amabilmente, ma addirittura alzo la voce perché siccome il normale brusio di sottofondo mi dà noia io anziché spostarmi cavalco il mio fastidio e raddoppio il volume per far capire a tutti chi è il più forte. E ti impongo – volente o nolente – di ascoltare la mia dannata conversazione perché così impari a starmi intorno mentre mi faccio i sacrosanti cazzi miei. E non guardarmi perché potrei prenderla male. 

Perfetto. Chiarito con l’esempio quello che intendo con causare-il-maggior-fastidio-possibile-al-mio-prossimo-perché-ne-ho-il-diritto-visto-che-mia-madre-era-la-regina-degli-autoscontri-mentre-era-incinta-di-me e quindi io di conseguenza sono il-principe-degli-autoscontri-e-sono-qui-per-farti-pentire-di-esserti-affiancato-a-me-nel-normale-transito-della-mia-esistenza vi chiedo di fare questo gioco insieme: immaginiamoci tutte le situazioni in cui ci sentiamo sobbalzare perché qualcuno ha cozzato contro di noi o noi abbiamo cozzato contro qualcuno. E una volta che il quadro si compone facciamo una bella cosa: dimezziamo (fifty/fifty) le responsabilità, firmiamo una bella constatazione amichevole e archiviamo il tutto nella cartella “INCIDENTI”.

E poi iniziamo a viaggiare sicuri e soprattutto tranquilli. Non dico di prenderci gusto col Brucomela, ma evitiamo gli urti che ti scollano la colonna vertebrale, per favore. In vecchiaia li si paga tutti questi colpi. 

Fidatevi.

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(675) Pizza

Credo che la nostra lingua sia la più bella in assoluto, credo anche che sia la più pazza in assoluto. Mettiamo il caso della pizza: è una delle meraviglie culinarie di cui tutti vanno matti eppure se dici di qualcosa o di qualcuno che è una pizza significa che ti annoia e quando molli una pizza a un cafone lo fai per tenerlo al suo posto. Follia.

Mi domando come possiamo pretendere che arrivino da noi persone di altri continenti e che possano capirci o capire come far funzionare l’italiano tanto da destreggiarsi nel loro quotidiano senza tentennamenti. Follia.

Diamo per scontato che è molto probabile che il giapponese o l’hindi o il senegalese o l’innuit sia altrettanto complicato che l’italiano, se andassimo da loro adottando la loro lingua ci ritroveremmo come dei bambini balbettanti.

E la lingua che parli significa chi sei, da dove vieni, che cosa hai imparato e come lo hai imparato, significa un suono diverso e un respiro diverso, significa costruire pensieri con una logica che è il frutto della tua terra e dei geni che ti hanno lasciato in eredità. Significa tanto, significa tutto.

E noi, noi che abbiamo questi suoni e il lascito di bellezza e arte che ci invade ogni cellula, noi ci permettiamo di manomettere e sbeffeggiare la nostra lingua. Ci permettiamo di ridurla a rumore, a verso animalesco, a immondezzaio dove svuotare la pochezza dei nostri neuroni. Lo facciamo parlando e lo facciamo scrivendo. Pensiamo che quello che abbiamo ricevuto sia roba da poco, che si possa buttare o reinventare soltanto perché la pensiamo una pizza.

Bhé, comunque sia la pizza va bene in ogni stagione e in qualsiasi versione e soprattutto la pizza mangiata nel nostro Bel Paese è la Regina. E con questo ho finito di delirare anche per stasera. Buonanotte.

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(445) Rosa

Quando scoprii – anni fa – l’importanza dei venti per il nostro pianeta ne rimasi affascinata. Mi domandai perché a scuola nessuno me lo avesse detto, o per lo meno perché nessuno lo ritenesse abbastanza vitale da farcelo tatuare in fronte. Sono un’ingenua, lo ammetto.

Mi capita spesso mentre scopro gli abissi della mia ignoranza, di cui continuo a vergognarmi ma che con gioia cerco di colmare di tanto in tanto, di pensare: “Adesso la mia vita non sarà più la stessa”.  Spesso è così, altre volte me lo dimentico dopo due secondi – ma senza cattiveria, solo perché sono piuttosto rimbambita.

I venti sollevano e mitigano e trasportano e alzano/abbassano e profumano o puzzano – e mille altri verbi che si agitano anche in contemporanea – in poche parole i venti vivono e ci permettono di vivere. Sono la combinazione di tutti i movimenti che ci potremmo immaginare calcolando quanto il nostro pianeta si sa muovere e si muove, e sempre in dosi diverse. C’è da perderci la testa a misurarli e credo che sia per questo che l’uomo abbia deciso di farsene un’idea un po’ più statica – quel tanto che gli permettesse di capirci qualcosa – disegnando una rosa: la Rosa dei Venti.

La Rosa è il fiore Regina, ha centinaia di colori e varianti, ha petali vellutati e profumi tenui o intensi ed è sempre bellissima. Che la Rosa abbia bisogno dei Venti lo si potrebbe anche intuire, ma che anche i Venti abbiano bisogno della Rosa questo mi piace. Non lo so perché, ma mi piace. Non è la verità dei fatti, è una trasposizione romantica del pensiero umano che in qualche modo trova nel mondo il bene che lo riempie e gli rende la vita possibile.

Ho divagato, forse, ma non m’importa perché ho seguito un pensiero che mi concilierà il sonno e mi farà stare bene.

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(192) Re

Non è che il titolo di Re lo si dà a tutti, così perché fa figo. Non funziona. Nessuno dovrebbe portarsi addosso un carico del genere senza esserselo almeno guadagnato e aver dimostrato di essere il migliore. In qualcosa, non in tutto, ma il migliore. Punto e basta.

Non è un titolo che si passa alla progenie, succede da sempre ma non è così che deve essere. Stiamo sbagliando.

Non è un vezzo per chi fa della vanità una virtù da sbattere in faccia agli altri. Un Re sa essere umile senza abbassare lo sguardo, sa essere sicuro di sé e determinato senza prevaricare sugli altri, sa essere saggio e lungimirante per guidare chi manca di visioni e di buonsenso. Un Re sa essere perché è. Sarebbe lo stesso anche senza titolo, senza corona, senza reame.

Un Re è un Uomo che può prendersi l’onere di esserlo perché consapevolezza e coraggio lo sorreggono anche quando le gambe gli cedono.

Una Regina? Lei molto di più. Ma davvero molto di più. Senza che nessuno lo sappia, senza che qualcuno glielo riconosca, senza bisogno di mostrarlo a tutti. E sempre. Instancabilmente sempre.

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