(990) Quid

Quel certo non-so-che, presente? Se lo cerchi non lo trovi, quando lo cerchi per gratificare la tua fame di bellezza. Quando non lo cerchi lo trovi, per allertarti e farti presente che i conti non tornano.

Strano ‘sto quid, no? Sì, strano.

Come sinonimo ha dettaglio, ma secondo me tiene dentro di sé un potere diverso, una sorta di magia, un qualcosa che ti collega con la quinta dimensione. Ha un suo odore, ha una sua voce. Niente a che fare con quello che conosciamo noi, per questo ci risulta strano e impalpabile, per questo non riusciamo a trovare parole adatte a descriverlo.

Il quid è quella parvenza che non sarà mai sostanza, seppur sappia trasportare la stessa densità. Lo trovi nelle persone e nelle situazioni, non nelle cose. Le cose si affidano ai dettagli, che sono statici, non si muovono. Il quid, invece, è fluido, scorre, come se fosse linfa di un albero o sangue di un animale/uomo. Non lo puoi fotografare, non si mette in posa. Lo puoi percepire sulla nuca o tra le dita, anche se non lo puoi stringere, non lo puoi schiacciare.

Non lo puoi contenere, non lo puoi usare. Non si consuma. E non lo puoi inventare, non lo puoi creare ad hoc. Se non c’è, non c’è e basta.

Il quid è quel-certo-non-so-che. E ti lascia sempre un po’ stordito, sempre un po’ traballante, sempre un po’ vulnerabile. Quasi sull’orlo, lì lì per cadere.

Ops.

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(867) Altezze

Arrivarci, magari, a certe altezze. Già. Ma poi cadi giù. Eh.

Allora ci si pone una domanda: ma ne vale la pena? E purtroppo la risposta è sì. Ogni tanto arrivare in alto fa bene, e per la discesa… bé, si impara anche a cadere, se lo metti in conto ci pensi prima. No?

La continua ricerca del brivido diventa dipendenza, ma anche l’ostinata ricerca della pace. L’ossessione non porta alla pace, questo è certo. Non capisco perché siamo così tormentati dal fatto che non abbiamo pace. Certo che non ne abbiamo, stiamo vivendo, mica siamo morti. La pace è dei morti. Il quotidiano infernale non ci permette sosta, ma neppure se scegliessimo di vivere tra le montagne nepalesi. Avremmo fame, sete, sonno e magari anche voglia di fare l’amore. Abbiamo un corpo, siamo qui per questo, per avere a che fare con il nostro corpo. Il corpo ha bisogno di provare, di sentire, di farsi attraversare. E poi tiene memoria. Credo sia in questa memoria che le cose si complichino. Come fai a tenere testa alle memorie? Non lo so.

Se il tuo corpo non ha mai conosciuto la fame, quella vera, non la puoi comprendere con la mente. Troppo grande per poterla immaginare. Se non hai mai conosciuto l’Amore, quello vero, non lo puoi comprendere con la mente. Lo puoi immaginare, ma non sarà mai vero, sarà una proiezione di te stesso e non è che abbiamo proprio una visione chiara di noi stessi (ammettiamolo), sufficiente a metterci al sicuro. Anzi. Significa che un Amore reale può spiazzarti, ti rende immediatamente vulnerabile, non potevi pensarlo così, il tuo corpo non si era mai fatto attraversare da quella potenza e tu… non ti riconosci come quella persona che hai continuato a frequentare per anni e anni e anni (con una certa assiduità, per di più).

Tutto molto semplice, tutto molto complicato, tutto molto doloroso, tutto incredibilmente affascinante.

Quindi ci si augura di arrivare ad altitudini imbarazzanti, pensandole e immaginandole e desiderandole come mai saranno, mai potranno essere. Perché la realtà è un’altra cosa, ma non è meno, è soltanto un’altra cosa. Dovremmo pensarla diversamente, guardarla diversamente, sentirla diversamente per poterla apprezzare per quello che è. Ognuno di noi trova il suo modo, non è una questione di giusto o sbagliato. L’importante, credo, è farci caso e prestarle attenzione. Sarebbe un peccato perdersi una cosa così magnifica soltanto perché ci siamo intestarditi a immaginare anziché vivere.

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(726) Altezza

Non è che soffro di vertigini, è che l’altezza – se la guardo dal basso – mi disorienta. Dall’alto la gestisco, dal basso no. Questo dà il quadro perfetto di come io sia fatta al contrario – e in un certo senso saperlo può essere pure rassicurante. 

Non ho mai pensato di dover scalare un’ipotetica montagna o un grattacielo per arrivare chissà dove nella vita. Non ci ho mai pensato ma in fin dei conti è quello che ho fatto. Non ho fatto altro che arrampicarmi, santidddio! Una sorta di freeclimber drogato di adrenalina. Presente. Ecco spiegato perché la questione del No Limits e degli sport estremi non mi tocca minimamente, già do e non mi serve altro.

Dall’alto si vede meglio, le cose si ridimensionano. Se plani sulle cose, queste non ti possono crollare addosso – e già qui ci metterei la firma. Quindi quello che faccio è un quotidiano esercizio per restare in quota. Non per essere sempre al top ma per evitare di perdere i punti di riferimento e ritrovarmi a girare a vuoto tra sensi unici, rotonde e incroci inverosimili. Ammetto che ci riesco abbastanza, mai perfettamente, ma abbastanza a lungo e con una certa costanza. Questione di allenamento, senza dubbio. E c’è anche un altro elemento da tenere in considerazione: bisogna non aver paura di cadere. Contando sbucciature e contusioni che mi hanno accompagnato negli ultimi quarantasei anni, cadere non è più una paura per me è una certezza. Io cado. Cado spesso. Cado anche frantumandomi, altroché, quindi lo do per scontato e anziché temerlo me lo aspetto. Quando non cado mi preoccupo: com’è possibile?!

Un paio di volte son precipitata mentre stavo davvero in alto – con l’umore intendo – e forse il mio ironico cinismo è nato per evitarmi la terza volta. Me ne sono bastate due, grazie, la terza me la posso risparmiare – so già quanto male fa.

Quindi, ricapitolando: meglio in alto che in basso. Si cade comunque, inutile procedere con paura, magari dei paraginocchia e un paracadute possono aiutare. Non so davvero se basti un po’ di filosofia e due attrezzi tecnici per affrontare i prossimi mesi, ma visto che non ho altro per le mani è così che procederò. Ci sono tante cose che spingono per entrare in gioco, chi sono io per vietare loro l’entrata? Eh.

Ai posteri l’ardua sentenza.

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(449) Deontologia

Non tollero un testo scritto con i piedi, il che significa senza criterio, senza logica, senza cura, senza anima. Se c’è anima, ma è di scarsa consistenza, non vale.

Non tollero un parlare violento, che è la conseguenza di un pensiero violento. Se mantieni un tono mellifluo, ma il senso di quello che dici è comunque violento, non vale.

Non tollero il millantare conoscenza che non si possiede, che è la risultanza di una posizione mentale arrogante. Se fingi di abbassarti ai miei livelli per poter conversare con me, ma il tuo sguardo supponente non riesci a frenarlo, non vale.

Non tollero il fare a metà, il fare tanto per fare, almeno quanto il dire a metà e il dire tano per dire. Se fingi disponibilità e generosità, ma il tuo cuore è arido, non vale.

E la lista potrebbe continuare per un bel po’, più ci penso e più si allunga. Questo fa di me un’estremista del senso etico? Forse. Sarebbe preoccupante se fossi convinta di attenermi fortemente a queste regole, perché a volte mi scappa qualcosa che non va bene e poi lì a darmi giù bastonate morali ripetendomi “fake fake fake!”.

Eppure, ho scelto di fare un mestiere che è strettamente legato al dire, al fare, al sentire, all’essere, al conoscere, al sondare, all’onestà di pensiero. La sua guida mi aiuta a essere una persona migliore, il più delle volte. Grata alla deontologia professionale che ho abbracciato molti anni fa, posso cadere e ricadere, ma non per restare a terra. Credo che questo faccia la differenza. Anzi, questo fa la differenza per me. E mi basta.

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(415) Evoluzione

Indietro non si torna, evolvere è l’unica strada.

Questo delizioso aforisma l’ho coniato quando avevo sedici anni. Un secolo fa, in pratica. Se devo essere franca, e non vedo motivo per cui io non debba esserlo, l’unica cosa che mi rende davvero orgogliosa di me stessa è proprio questa: ho mantenuto fede alla promessa.

Guardando alle mie origini posso affermare tranquillamente che l’evoluzione c’è stata. Oddio, molto inferiore alle mie ambizioni, ma tutto considerato in linea con la mia indole e le mie capacità (mai troppe, mai splendide).

Il nocciolo della questione sta proprio qui: imporsi un’evoluzione anziché adagiarsi e rischiare un’involuzione è già di per sé un modo per salvarsi l’anima. Che è qui che noi ci salviamo l’anima e se aspettiamo troppo diventa tardi, dovrebbe esserci chiaro il concetto anche se lo ignoriamo caparbiamente.

Evoluzione mi piacerebbe fosse sinonimo di salto quantico, ma nel mio caso non lo è e questo è duro da digerire, ma rassegnarmi soltanto perché la Natura non mi ha dotata di genio (in nessun campo) è sempre stato fuori discussione. Una sorta di amor proprio che si può confondere con la presunzione – lo so – ma che in fin dei conti non ha mai danneggiato nessuno se non me (in alcune occasioni) e mai troppo seriamente.

Anche solo per il fatto che ora sto scrivendo, il mio credo ha trovato soddisfazione. Scusate, non è cosa da poco e non è cosa ovvia. Ammiro le persone che sanno evolvere il proprio pensiero senza farsi sconti di sorta, mantenendo la pulizia interiore e la limpidezza della visione. Sono la mia ispirazione, guardare a loro mi rafforza la speranza. In cosa? Nella salvezza del Genere Umano.

Se lo guardo troppo da vicino non ci fa una gran bella figura, ma quando zoommo sulle persone giuste l’impennata di ottimismo è evidente. Sono convinta più che mai che noi siamo qui per evolvere la nostra anima e con questa prospettiva tutto sembra avere un senso, tutto sembra avere il suo posto. Cade la rabbia, cade la rogna, cade la voglia di mandare tutto al diavolo. Evolvere significa avvicinarsi al tiepido abbraccio della vita, senza soffermarsi in dettagli da nulla, senza discussioni, senza lamentele.

Al lavoro, ordunque!

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(339) Hula Hoop

L’impressione è quella di star giostrando un centinaio di hula hoops e non poter fermarmi altrimenti cadono tutti. Ogni hula hoop, ovviamente, è un pensiero. Santo cielo che razza di fatica!

Quando ero ragazzina ero una campionessa di hula hoop (era giallo), minuti e minuti senza mai farlo cadere a terra, dalle ginocchia su fino alla gola. Non so se fossi brava perché avevo solo un pensiero in testa o se ero soltanto più in forma. Non voglio indagare.

La questione che mi si pone ora è: quale hula hoop devo far cadere per non rimetterci la salute mentale?

Non è una decisione difficile, a prima vista, ovvero: tutti quelli che non mi servono. Ok, ma quelli che non mi servono ora mi potrebbero servire tra un po’ e una volta che sono caduti recuperarli è un casino. Senza contare che molti di quelli che ora mi servono spero che non mi serviranno da qui a una settimana, quindi perché dannarsi l’anima per tenerli su?

Posso far cadere quelli che hanno poca forza per andare d’inerzia, certo. Credo che quelli cederanno appena mi cala l’energie, naturalmente. Mi dispiacerà perderli, per quanto siano inutili mi dispiacerà.

Sono fatta così: mi lamento e poi tengo duro finché non crollo. Che fastidio!

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