(990) Quid

Quel certo non-so-che, presente? Se lo cerchi non lo trovi, quando lo cerchi per gratificare la tua fame di bellezza. Quando non lo cerchi lo trovi, per allertarti e farti presente che i conti non tornano.

Strano ‘sto quid, no? Sì, strano.

Come sinonimo ha dettaglio, ma secondo me tiene dentro di sé un potere diverso, una sorta di magia, un qualcosa che ti collega con la quinta dimensione. Ha un suo odore, ha una sua voce. Niente a che fare con quello che conosciamo noi, per questo ci risulta strano e impalpabile, per questo non riusciamo a trovare parole adatte a descriverlo.

Il quid è quella parvenza che non sarà mai sostanza, seppur sappia trasportare la stessa densità. Lo trovi nelle persone e nelle situazioni, non nelle cose. Le cose si affidano ai dettagli, che sono statici, non si muovono. Il quid, invece, è fluido, scorre, come se fosse linfa di un albero o sangue di un animale/uomo. Non lo puoi fotografare, non si mette in posa. Lo puoi percepire sulla nuca o tra le dita, anche se non lo puoi stringere, non lo puoi schiacciare.

Non lo puoi contenere, non lo puoi usare. Non si consuma. E non lo puoi inventare, non lo puoi creare ad hoc. Se non c’è, non c’è e basta.

Il quid è quel-certo-non-so-che. E ti lascia sempre un po’ stordito, sempre un po’ traballante, sempre un po’ vulnerabile. Quasi sull’orlo, lì lì per cadere.

Ops.

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(907) Femminile

Un viaggio affascinante quello che ti fa attraversare le età del femminile. Mentre le percorri non te ne accorgi, ma se le guardi alle tue spalle ricomponi un quadro di te interessante.

Non è che mentre cresci ti rendi conto del perché di certe scelte e del come le stai portando avanti, lo fai perché sull’onda della ricerca (tu che ti stai cercando, tu che ancora non sai chi sei) agisci d’istinto oppure scegli per gusto o – quando sei davvero fortunata – nutri la tua visione. La visione che hai di te e che vuoi che si compia.

E mentre lo fai, mentre ti nutri e cambi e cresci e impari e ti riaggiusti, lo fa anche il tuo femminile. Quella vena d’oro che non esiste soltanto perché sei un Essere Umano e sei viva, ma perché sei un Essere Umano Femmina e sei dannatamente viva.

La cosa che ti rende potente – se sei davvero fortunata – è scoprire che non ci sono regole imposte dalla società che possono fermarti. Tu puoi andare oltre. Non ci sono legami che ti possono bloccare. Tu puoi andare oltre. Non ci sono tabù che ti possono schiacciare. Tu puoi andare oltre. E quando impari ad andare oltre non c’è niente che ti possa rendere schiava. Tu sei oltre.

Se sei davvero fortunata lo impari in tempo. Se sei davvero fortunata riesci ad applicarlo alla tua esistenza e a raccogliere i buoni frutti. Se sei davvero fortunata comprendi che quelle scelte e quelle fatiche e quelle ribellioni e quelle cadute e quelle ferite e quelle maledizioni che hai superato, non erano finalizzate alla distruzione bensì alla costruzione.

Se sei davvero fortunata a un certo punto riuscirai a guardarti e a sorriderti perché sai benissimo come poteva finire e sai che ancora non è finita ma che finirà bene. Sei nel pieno della tua femminilità e hai imparato ad andare oltre.

Sono davvero fortunata.

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(743) Maestosa

Ho un’idea Maestosa della Vita. Di come la Vita è – nonostante tutto quello che di Lei possiamo farci (che non è granché perché non siamo capaci di azioni maestose se non di rado). Eppure la Vita porta in sé – e per sé – questa maestosità in ogni sua espressione. Basta solo farci caso e avremo davanti ai nostri occhi tutte le prove che ci servono.

Questa mia convinzione va contro ogni cosa che affronto quotidianamente perché la Maestosità in gioco non è sempre quella che ti porta carichi di felicità, e forse è ora di sfatare questo mito: la Vita ci vuole vivi ma non necessariamente felici, la scelta sta a noi.

Le proposte che la Vita ci mette a disposizione hanno un miliardo di variabili l’una, cambiano a seconda delle circostanze e degli intrecci e degli incontri e degli incidenti e degli imprevisti e delle sfighe o delle fortune. Variabili a non finire, variabili da perderci il sonno, variabili da sbattere la testa contro il muro. Talmente tanto e talmente tutto insieme che non lo si potrebbe definire se non nel modo che ho scelto io: Maestoso. Un dannatissimo Maestoso modo di farci attraversare ogni atomo dell’Universo con i nostri poveri sensi martoriati.

Come fare per non restare schiacciati da tutta questa Maestosità? Riconoscerla e rispettarla, credo. Non possiamo fare altro se non cavalcarla e sperare che non ci disarcioni. Non dobbiamo fare altro se non affidarci a quello che deve essere senza mai smettere di fare quello che dobbiamo fare: cercare e scoprire, cercare e provare, cercare e trovare. Pezzo dopo pezzo ci faremo un bel puzzle e ce lo guarderemo una volta diventati vecchi, ricordando un po’ e il resto inventando come fanno i bambini. Guarderemo il cielo invidiando le stelle che nonostante la mancanza di vita ancora sanno brillare. E saremo grati per tutto quello che di Maestoso ci avrà attraversato, perché la Vita avrà saputo prendersi cura di noi – nonostante tutto, nonostante noi.

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(386) Giustizia

giustizia /dʒu’stitsja/ s. f. [dal lat. iustitia, der. di iustus “giusto”]. – 1. a. [riconoscimento e rispetto dei diritti altrui, sia come consapevolezza sia come prassi dell’uomo singolo e delle istituzioni: agire secondo g.; fare un atto di g.; uomo di grande g.] ≈ correttezza, equilibrio, imparzialità, integrità, moralità, onestà, probità, rettitudine. ↔ disonestà, fraudolenza, immoralità, ingiustitia, iniquità, parzialità, scorrettezza. b. [di atto o comportamento, l’esser conforme a un diritto naturale o positivo: g. di un provvedimento] ≈ giuridicità, legalità, legittimità. ↔ illegalità, illegittimità. 2. (giur.) a. [potere di realizzare il diritto con provvedimenti aventi forza esecutiva, ed esercizio di questo potere: ministero di Grazia e G.; intralciare la g.; g. civile, penale] ≈ ‖ legge. b. (estens.) [autorità a cui tale potere è affidato: ricorrere alla g.] ≈ magistratura, potere giudiziario. ● Espressioni: collaboratore di giustizia [chi decide di collaborare con la magistratura pentendosi dei reati commessi] ≈ (burocr.) collaborante, Ⓖ (fam.) pentito. 3. [attuazione concreta della giustizia in casi determinati: chiedere, ottenere g.] ≈ riparazione. ● Espressioni (con uso fig.): fare giustizia (di qualcosa) → □; farsi giustizia (da sé) → □. □ fare giustizia (di qualcosa) [eliminare la presenza o gli effetti di cose fastidiose: occorre fare g. di questi intralci, di queste seccature] ≈ levarsi di torno (o dai piedi) (ø), liberarsi, sbarazzarsi. □ farsi giustizia (da sé) [reagire a un’offesa ricevuta senza ricorrere all’autorità giudiziaria] ≈ vendicarsi.

In realtà, a questa definizione non serve aggiungere nulla. Posso dire la mia per quanto riguarda le ingiustizie che ho dovuto ingoiare. Ecco, le ho dovute ingoiare perché mi trovavo senza mezzi per reagire, così pensavo. Ora mi domando perché non lo penso più, perché oggi reagirei diversamente?

Forse perché con l’età ho capito la mia forza, la forza di un comune Essere Umano che può decidere che quella cosa ingiusta che gli è capitata sul muso non va bene e non deve per forza andare bene anche se opporglisi potrebbe non essere facile o comodo.

Mi colpì molto un’affermazione di Eleonor Roosvelt, letta anni fa, che mi si impresse nella memoria: “Nessuno può umiliarti se tu non glielo permetti”. Che vuol dire tante cose, ma proprio tante, e tutte fanno capo all’idea che una persona ha di se stessa, del suo diritto di stare al mondo. Anni di costosa psicoterapia che porterebbero comunque a niente. Non è una cosa che si cura, è una cosa che si gestisce. Con tanta fatica e sofferenza, per tutti e nessuno escluso.

Non sono diventata invulnerabile, non sono meno esposta alle ingiustizie, non sono più potente o più furba o più abile nel gestire le cose della vita, questo no. Ho solo deciso a un certo punto che il mio oppormi non sarebbe stato silenzioso, non sarebbe stata soltanto una resistenza intima, perché così non basta. Non basta per niente, neppure per difendere quel grammo di autostima che giace in fondo al tuo stomaco. Non basta.

Ho imparato a dirlo ben motivato il mio no, anche se non viene ascoltato non importa. Importa che io sia capace di tirarlo fuori al momento giusto per dare forza alla mia opposizione. Ora voglio essere io a oppormi agli eventi che cercano di schiacciarmi, non loro che si oppongono al mio voler vivere e vivere bene.

Ci sono persone che senza nulla, né potere nè ricchezze né istruzione né genio, hanno saputo non solo opporsi alle ingiustizie, hanno saputo vincerle. Quelle che io ho subito sono ridicole al confronto, ma non sottovalutiamo le cose piccole perché sono capaci di minare fortemente la nostra Anima.

Detto questo, ogni volta che un’ingiustizia si scaglia contro un Essere Vivente sento le viscere torcersi e mi auguro che quell’Essere Vivente non si lasci andare, non si faccia schiacciare, non pensi neppure per un istante che non ha mezzi né risorse per alzarsi e opporsi. Alzarsi e opporsi, o sedersi e opporsi – come ci ha insegnato il Mahatma Gandhi – e che lo faccia d’istinto, senza perdere tempo, perché così dev’essere e basta. Ogni secondo perso è un’occasione che diamo in mano a chi quell’ingiustizia è deciso a farcela ingoiare contando sul nostro silenzio.

Non è così che il silenzio vuole essere usato, non per agevolare chi si arroga il diritto di sopraffare un altro Essere Vivente. Mai.

 

 

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(307) Note

Le note si scrivono. Le note si suonano. Le note si intonano, come un bel maglione con il colore dei tuoi occhi. 

Quando ti impedisci di suonarle, le tue note, non la prende bene il tuo corpo e neppure la tua anima. Si crea un fraintendimento doloroso, come se il messaggio fosse sporco di un sottotesto crudele: “Non ti ascolto, non ti presto attenzione, non ti reputo importante per fermarmi un po’ con te e ascoltarti”.

Una dichiarazione di guerra, sembra, vero?

Ci sono stati giorni, lunghi anni e forse un decennio, in cui avevo smesso di notare le note, quelle che mi cadevano dalle mani, quelle che spandevo attorno a me come se le scorte non dovessero finire mai. Poi mi sono spaventata, quando anche a cercarle non riuscivo a farle risuonare dentro di me, sparite. Un corpo vuoto, senza eco, un’anima vuota senza riverbero vitale. Mi sono spaventata.

Mi auguravo che non fosse una condizione irreversibile, ho lottato affinché non lo fosse. Ora ho la sicurezza che non lo era. Ho note, nel corpo e nell’anima. E mi sto annotando tutto, tutto per bene per non dimenticarmelo la prossima volta che la realtà mi frusterà, la prossima volta che sarò schiacciata al suolo.

Note note note note note… è una questione di musica e non ce n’è per nessuno.

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(119) Misura

Ognuno di noi ha le sue misure. Nelle mie misure ci sto dentro bene (sono una misura piuttosto comoda, ahimé), ma anche se c’è posto per molte cose, non per tutto.

E non dico che faccio bene, dico solo che è così.

Ognuno di noi dovrebbe essere ben conscio della propria misura, diventa brutto adeguarsi alla misura degli altri e si rischia di rimanere schiacciati o di essere sbattuti a destra e a manca rompendoci la testa.

La misura è colma. Se lo si afferma, è vero. Non lo si dice tanto per dire, questa è una frase che ha una certa portata. Se la si fa seguire a un punto è irreversibile. Con un punto esclamativo (La misura è colma!) è liberatorio. Con una virgola (La misura è colma, ) si suppone ci sia spazio per una motivazione, con i due punti (La misura è colma: ) si calca un po’ la mano, con i puntini di sospensione (La misura è colma… ) si anticipa il disastro.

Sto divagando. Volevo soltanto far presente che ognuno di noi ha il dovere di badare alla sua misura e che quando è colma ha il diritto di farcelo notare.

Con la punteggiatura che più gli/le piace.

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