(259) Fiducia

Si dice: riporre la fiducia in qualcuno/qualcosa. Quando si ripone qualcosa in un luogo la si pensa al sicuro. La si può tenere lì per sempre, volendo. E se quando te la vai a riprendere, magari per darle una spolverata, non la trovi più o è ammaccata… insomma, ci rimani di sale, no?

Ecco, mi succede spesso di riporre la mia fiducia in luoghi poco poco poco sicuri. Viene spesso frantumata e io me ne accorgo solo quando non c’è più nulla da fare.  La questione è che la fiducia è cosa delicata, e io lo so e ci sto pure attenta, ma periodicamente succede. Luogo sbagliato. È scocciante, è frustrante, è anche doloroso. Diamine, ma non posso fare più attenzione?!

Mi rendo conto che nella vita si prendono fregature e si danno fregature, che spesso sono in buona fede e che farla tragica non serve a risolvere e a sistemare le cose. Eppure, sto qui a riflettere sul da farsi.

Probabilmente prendere sul serio la questione fiducia è un dato positivo, significa che ne ho ancora qualche grammo da parte da riporre in qualche luogo. Eh! Buona fortuna a me.

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(258) Orgoglio

Consegnare a qualcuno la propria fragilità è un suicidio. Questa è una delle lezioni che ho dovuto imparare e credo che questa lezione sia arrivata a me per un motivo ben preciso: fare i conti con il mio orgoglio.

Non è una battaglia che vincerò, d’altro canto a fare i conti io sono proprio negata. Eppure la vita si ostina a mandarmi in loop situazioni in cui io e il mio orgoglio ci mettiamo uno di fronte all’altra a vedere chi di noi due la spunta. Lui è forte, forte perché le sue ragioni non sono da poco. Le sue ragioni si fondano su terra antica, terra di sacrificio, di lavoro, di testardo mai-mollare. Le sue ragioni mi hanno permesso di arrivare fino a qui e non era scontato, anzi tutt’altro.

Mi dicono che c’è un punto, però, in cui lui si dovrebbe fare da parte. Io con la testa ci posso anche arrivare, può essere una tattica con delle reali potenzialità, ma lo stomaco è conquista sua e me lo fa urlare talmente tanto che ha sempre lui la meglio.

Non sono una che gioca di tattiche, imboscate, controtempi e chissà che altro. Affronto a viso aperto e occhi dritti negli occhi ciò che devo affrontare e vada come vada. Ammetto che va spesso male, ma l’ho sempre saputo che i vincitori sono altri e non me ne sono mai fatta una malattia.

E sono ancora qui a ringraziare il mio orgoglio che mi fa stare in piedi nonostante i colpi non smettano di arrivare. Sì, fa male, ma le radici non le puoi bruciare solo perché non sono comode. Anche questo ho imparato e questo sono costretta a ricordare. Senza mai smettere.

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(257) Neutro

Fino a qualche tempo fa, tutto ciò che si presentava come neutro mi metteva a disagio, anzi, mi faceva arrabbiare. Neutro non era una condizione che ritenevo dignitosa, neppure per un sapone.

Come si cambia per non morire, canta la Fiorella nostrana. Eh!

Da un po’, e non so dire neppure da quanto, tutto ciò che si dichiara essere neutro mi mette addosso un senso di delicata cura, qualcosa che va a colmare un bisogno evidentemente forte che mi è nato: quello di non essere attaccata da un lato o l’altro dello schieramento.

Ho scoperto che non sempre so da che parte stare. Ci sono questioni talmente complicate che mantenere una posizione neutra per me significa ammettere con umiltà che non ho capito abbastanza per decidere se stare da una parte o dall’altra. Mi dichiaro insufficiente, inadeguata, non all’altezza, questo per non millantare una preparazione che non ho.

Dire “non lo so” una volta per me equivaleva a dichiarare una manchevolezza che mi feriva. Ora mi suona come una ammissione di finitezza, magari non definitiva, ma pur sempre in essere e di cui tenere conto.

Neutro è quel colore che ti permette di osservare le cose finché non ne capisci il senso. Solo dopo puoi onestamente prendere una posizione e dire o agire di conseguenza. Perché le cose sono spazi immensi da esplorare, specialmente in relazione agli Esseri Viventi, ora lo so. Almeno questo lo so.

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(256) Limiti

Odio ammetterlo, ma il concetto di limite ha determinato il mio fare e il mio non fare per tutta la vita. Spesso, per superare ostacoli nel realizzare ciò che desideravo, ho giocato d’azzardo e ho spinto l’acceleratore perché andare oltre era per me vitale. Non ho mai, però, superato il limite della decenza, del decoro, e non perché qualcuno me l’abbia imposto, soltanto perché oltrepassare quella linea mi avrebbe frantumato la dignità. Questa è la parte ok.

Ho creduto per molti anni che certi miei limiti fossero invalicabili perché più di così non mi sarebbe stato possibile migliorare. Una visione parziale di me stessa, una semplice bozza, che si mortificava e si ridimensionava ogni volta per non dover affrontare la cruda realtà. Non so neppure io come spiegarlo, ma proiettata dentro di me la luce si spegne, non ha strada. Solo nella scrittura si espande, ma non grazie a me, nonostante me. Questa parte non è affatto ok.

Oggi tutti i miei limiti archiviati come invalicabili sono qui davanti a me e mi sembrano ancora più mostruosi di un tempo, forse perché l’energia dei vent’anni è solo un pallido ricordo ormai. Me li trovo intatti e interi e intollerabilmente forti, rispetto a come mi sento adesso. E ancora non mi vedo. Ancora la luce non trova la sua strada.

Mi viene da piangere.

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(255) Zitta

Ogni tanto me ne sto zitta. Cerco di dimenticare un po’ il suono della mia voce. Uso molto la voce e quando si stanca se ne va.

La seconda volta che se ne è andata era pieno inverno scozzese, non era affatto facile lavorare afona, ma mi sono rimessa al suo volere. Ero sorpresa, non usciva un suono dalla mia bocca per la prima volta dopo anni e non ero costretta a ribattere, non ero obbligata a interloquire, potevo evitare di dire la mia – una volta tanto. Una pausa benedetta.

La prima volta che è successo mi erano state tolte le tonsille. Una settimana di bigliettini su cui appoggiavo le parole con l’inchiostro blu, nero, rosso o viola – assecondando l’umore. Dapprima irritata, poi compiaciuta: nessuno si aspettava nulla da me, potevo pensare e basta.

Dare modo alla mia voce di riprendersi il sacrosanto diritto al silenzio è un dovere che mi sono negata per troppo tempo. Spesso sono stata zittita malamente da qualcuno, ma ha funzionato soltanto per il tempo dello stupore. La reazione ha sovrastato ogni aspettativa. Se resto parlo, e posso dire troppo, se me ne vado ti consegno il mio silenzio imposto e quello urla a più non posso.

Ecco, ogni tanto me ne sto zitta. Non tutto il giorno e non per sempre, ma mi prendo lunghe ore per lasciare libera la mia voce di viversi silente. È quando la sento in affanno, furiosa o confusa. Le lascio il tempo di riprendersi, d’altro canto è lei il mio sostegno.

E, zitta zitta, osservo e ascolto. Osservo e ascolto. Qualche volta scrivo. Anzi, spesso scrivo.

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(254) Bianco

Uno dei miei colori preferiti, il bianco, specialmente d’estate. Il nero? Sempre, assolutamente sempre e da sempre. Il blu è un altro dei miei prediletti. E poi c’è il viola, che chi mi conosce sa che è una fissazione. Non indosso mai il giallo né il verde, sono belli ma non su di me.

Bianco è il mio modo di affrontare la giornata, ci scrivo sopra. Bianco è il mio modo di relazionarmi con gli altri, ci faccio scrivere sopra da loro. Bianco è il mio modo di guardare il mondo, i colori ce li mette lui.

Credo abbia a che fare con la luce, anche troppa, e con la voglia di chiarezza. Ne sono sicura, un tocco di bianco può cambiare la vita. Ed è l’unico colore che non devi usare con parsimonia. Abbondare non nuoce, al massimo rischiara.

Quando un pensiero mi si colora di bianco si disperde. Diventa innocuo. I pensieri innocui sono i migliori, garantisco.

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(253) Chimica

È quella cosa che anche se non la conosci, anche se la eviteresti, anche se non ne vuoi sapere… c’è. È parte di te, funziona a prescindere da tutto. Ti sorregge o ti sotterra, ti asseconda o ti si oppone, ti fa spaccare tutto o ti fa in pezzi. Dipende da come funziona e dipende da te controllare che funzioni bene.

A un certo punto della mia vita ho deciso che dovevo saperne di più. Ho iniziato a leggere e ad approfondire il discorso, pensando che una volta capito avrei gestito meglio le cose. Ecco, mi sbagliavo.

Non è che capisci come funziona la chimica del tuo corpo e lo gestisci meglio. Funziona, invece, che riesci appena appena a capire cosa ti sta succedendo riconoscendone certe dinamiche, e prendendo atto delle conseguenze dirette scatenatesi nella tua mente e nel tuo corpo.

Io, maniaca del controllo, mi sono arresa. Non voglio più controllare nulla. Mi arrendo alla chimica, mi arrendo alla vita, mi arrendo al flusso d’energia che comunque mi sovrasta.

Anzi, no: mi affido. Meglio.

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(252) Capolavoro

Per molti anni ho preso sul serio la fine del mondo. Nel senso che ogni volta che mi capitava qualcosa di spiacevole e doloroso io pensavo fosse destinato a durare per sempre e che la fine del mio mondo sarebbe sopraggiunta di lì a subito per stroncarmi definitivamente.

Mi sbagliavo.

Sopravvivere ai dolori è una stramberia perché ti passa piano piano la paura e diventi un po’ spavaldo e un po’ sborone. Quasi arrogante. Certamente supponente. Guardi chi si dichiara felice e privo di patemi con un certo distacco, come fosse un essere inferiore. Oppure il contrario: tutto il dolore che hai attraversato ti rimane addosso come una maledizione e muori un po’ ogni giorno, perché non vedi più niente se non quel buio che ti inghiotte.

Dove sono finita io? Ho vagato da un evento all’altro cercando di capire di cosa mi importava e di cosa potevo fare a meno, per molto molto molto tempo. Non mi sono persa, mi sono spesa, temo troppo. E quando sei esausto ti stacchi da tutto e vuoi solo dormire. Il distacco è la chiave.

Vedi un’altra piccola fine del tuo mondo, ma la distanza ti permette di non crogiolarti nel dolore o nella nostalgia. A distanza scorgi la rete intricata della tua ragnatela e ti sembra un capolavoro. Allora aspetti che la stanchezza passi perché sai che sarai di nuovo pronta a camminare. Non correre, no. Camminare.

 

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(251) Gioia

Provo gioia, quella autentica, tutti i giorni. Dura qualche secondo o qualche minuto, raramente tutto il giorno. In realtà, non lo pretendo. La durata della gioia non mi riguarda, è la variabile che me la fa apprezzare ancora di più.

L’ho sempre riconosciuta e l’ho sempre cercata come prima cosa. Non me la sono mai fatta mancare, anche quando ero a pezzi. Un istante di gioia. La salvezza.

Se qualcuno mi chiedesse cosa vorrei donare agli abitanti della Terra, tra le tante benedizioni ne sceglierei una, questa: la gioia. La capacità di provare una profonda e autentica, pura e splendente gioia una volta al giorno. Sarebbe la cura di tutto.

A chi verrebbe in mente di farsi esplodere e di far esplodere qualcuno, quando ha conosciuto, toccato, assaporato, assimilato in ogni sua cellula la gioia? Io lo so: a nessuno.

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(250) Estate

Sto cominciando a credere in questa estate. Non sto parlando di aspettative, sto parlando di desideri da realizzare che potrebbero realizzarsi. Non ho intenzione di focalizzarmi su questo, ho una tabella di marcia bella tosta da seguire e che intendo rispettare, ma adesso, proprio adesso ho avuto questo pensiero.

L’estate è sempre stata crudele per me, anche quelle estati dove c’era divertimento e giovinezza e cose belle. La luce impietosa del sole estivo è crudele, per me. Ogni estate vorrei scappare in un luogo dove l’autunno imperversa, mentre il mondo normale si gode quello che per me è insopportabile – e non so neppure il perché. Un’altra delle mie stramberie, eh.

Questa estate, però, la voglio diversa. Anzi: la sento diversa. Forse sono io diversa – il che sarebbe cosa buona e giusta, lo ammetto pubblicamente.

Sta di fatto che sono stupita di sentirmi così. E sono curiosa di vedere cosa saprò fare con questa novità. Mah!

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(249) Pietre

Ci sono parole che ti arrivano come pietre. Se ti colpiscono, se non riesci a schivarle, se senti il dolore, allora quelle pietre fanno la differenza. Non ne vuoi più e quindi due opzioni ti si parano davanti: o impari a schivarle o eviti chi te le sta lanciando.

Io evito.

Questo può essere letto in molti modi, come arroganza o come vigliaccheria o come che-ne-so-io, ma il motivo è semplice: schivare le pietre mi stanca. Stare sul chi va là continuo, mi stanca. Quel tipo di mortificazione mi stanca. Convincere il mittente a smetterla di tirarle è inutile – in generale è inutile prodigarsi per far cambiare idea a qualcuno che ha voglia di tirarti le pietre. Lo farà comunque, anzi, sempre più convinto che fa bene a farlo visto che le ricevi così male.

Il vecchio Antoine aveva ragione, non ha importanza che tu sia bello/brutto buono/cattivo comunque pietre in faccia prenderai, pertanto sta a te decidere: resti o te ne vai? Ecco, io me ne vado. Grazie.

 

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(248) Mantenere

Credo che sia un verbo potente, mantenere, forse il più potente di tutti. Lo vedo come il Re del controllo di se stessi. Il mantenere la calma, mantenere una promessa, mantenere uno stato di benessere, mantenere una posizione in cui si crede, mantenere fede a un sogno… quanta potenza può contenere?

La cosa preoccupante è che la stessa potenza si esplicita quando si mantiene una posizione o uno stato che crea malessere, dolore, frustrazione, umiliazione. La potenza non si misura in base al bene o al male, soltanto valutando la forza delle conseguenze. Un verbo che ci tiene tutti per la gola, con cui fare i conti ogni giorno.

Per riuscire a maneggiare un verbo così devi dimostrare senza tregua di essere coraggioso, di essere presente a te stesso, di essere… essere pienamente.

Mantenere un impegno, una promessa, una posizione, un’idea. Provvedere a mantenere te stesso integro, cosa ci può essere di più potente?

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(247) Tenerezza

Sfugge al controllo, può scaturire da qualsiasi situazione, può avere origine in un altro cuore o in un oggetto che pare inanimato e in realtà vive di ciò che si ripone in esso. Se ne scrivo anche la mia scrittura cambia, va alla ricerca di parole morbide, delicate.

Quando mi capita di scorgere una luce tenera sul viso di qualcuno mi si accende la speranza che quel qualcuno sia soltanto uno dei tanti milioni di esseri viventi capaci di provare un sentimento così delicato e così irruente. La tenerezza che nasce all’improvviso, e sorprende più te che gli altri, è un primo passo all’apertura, all’accoglienza, all’empatia.

Amo smisuratamente le persone capaci di donare la propria tenerezza a chi sta loro accanto. Ne vorrei incontrare mille al giorno.

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(246) Jackpot

Ho sempre pensato che la somma di ciò che fai, giorno dopo giorno, darà a un certo punto come risultato il tuo jackpot da ritirare. La tua vincita. Per tutti diversa, in qualità e quantità. Del tutto personale.

Lo penso ancora. Stavo, però, riflettendo sul fatto che molto probabilmente non ci accorgiamo del jackpot che ritiriamo – di periodo in periodo – perché sono somme modeste e le diamo per scontate, anzi: pensiamo siano solo un acconto.

Ritiriamo piccoli jackpot, periodicamente, da parte della vita e non ne abbiamo mai abbastanza perché pensiamo che solo un enorme jackpot sia degno di nota, solo un esorbitante jackpot sia la giusta ricompensa per il nostro faticare, il nostro sofferto vivere.

Grossa idiozia. So da molto tempo che spesso il jackpot che ho incassato era tutto quello che avevo accumulato in quel dato periodo e se da una parte posso non essere soddisfatta perché voglio di più, dall’altra non posso lamentarmi perché ho ricevuto molto e va bene così.

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(245) Ordinare

Mettere in ordine. Arrivo fino all’esasperazione, poi metto in ordine. Dal preciso istante in cui inizio arriva piano piano e inesorabile il sollevamento. Respiro meglio.

Mi arrabbio con me stessa per aver atteso tanto, ma forse è così che funziono e non ci posso fare niente. Conclusione troppo comoda? Forse. Assicuro che non è affatto comodo il tormento che ci sta in mezzo, però. Leggera forma di masochismo? Eh, vabbé, mi arrendo.

Mettere in ordine, per me, significa fondamentalmente buttare il superfluo e la scelta di ciò che è superfluo mi è fastidiosa, a tratti dolorosa. Il caos, a modo suo, può essere confortante. L’ordine no. Non è per nulla confortante, l’ordine è crudele, ti fa vedere esattamente tutto ciò che c’è e ciò che non c’è più.

Non fa piacere a nessuno questo tipo di crudeltà… soltanto ai masochisti. Quindi? No, forse sono pigra e codarda, ma non masochista. Ecco.

Mi sento meglio? Ni. Ora che ho visto e scelto, mi prendo il mio carico odierno di crudeltà sulle spalle e cerco di smaltirlo con un buon sonno. Di più non so fare.

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(244) Quadro

Avere il quadro della situazione non è cosa ovvia né immediata. Mi ci vuole tempo. Anche troppo, spesso. Probabilmente non sono così arguta come dovrei, oppure sono troppo pedante riguardo i dettagli e mi ci perdo.

Dipingere un quadro non è cosa da un giorno, i quadri migliori sono il risultato di ore e ore di lavoro-energia-tormentonellaricerca. Faccio così anch’io quando una situazione ha bisogno di essere analizzata per farsi capire: ore e ore di energia-tormento-lavoro. Ne vale la pena.

Appena il quadro si può dire completato lo si fa asciugare. Si sceglie una cornice e lo si appende a una parete: eccola lì la situazione, decidi tu se tenerla o buttarla. Io non butto via, metto da parte.

Devo trovare il modo di alleggerire le mie pareti. La confusione non mi aiuta a pensare.

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(243) Cerchio

Quando il cerchio si chiude fai un bel respiro profondo e di’ grazie. Perché il cerchio prima o poi si deve chiudere e la gratitudine è un modo perfetto per affrontare il fatto che si è chiuso.

Il nuovo cerchio sarà nuovo, bada bene. Non un duplicato, non una replica. Nuovo.

La nostalgia per il vecchio cerchio è cosa tenera, ma deve restare sentimento lieve e non premessa per riaprire quel che si è chiuso.

L’ho scritto perché so che ogni volta ci casco e ‘sta cosa deve finire. Ne ho abbastanza.

DI-SCI-PLI-NA della nostalgia, ecco una materia che devo approfondire se voglio fare un salto quantico. E lo voglio, santiddio.

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(242) Liberare

Un verbo bellissimo: liberare. Liberare se stessi dai legacci (pensieri e situazioni) e liberare qualcuno da noi stessi. Penso sia un gesto estremo d’amore.

Ora che l’ho scritto mi rendo conto con sgomento che è stato il mantra di questi miei anni: liberarmi-liberare.

Non sono attaccata al concetto di libertà, ma a quello di liberazione sì. Ci si libera dai fardelli, dalla zavorra, dal dolore, dal dovere, dal senso di colpa, dalla schiavitù declinata in milioni di modi e tutti diversi e tutti simili. Liberi la voglia, liberi i sogni, liberi l’amore, liberi la crescita… liberi, ovvero lasci andare le cose esattamente come è scritto che debbano andare. Loro sanno dover andare, devi fidarti. Ti viene chiesto di fare un atto di fede, tutto qui.

E quando lo fai e ti riesce bene, allora senti che sei in quell’istante di pienezza che può essere confuso con la felicità. La felicità di aver fatto ciò che era giusto fare. Anche se ti fa male, anche se muori un po’.

Liberare è la chiave. Ne sono certa.

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(241) Facile

Sembra che se una cosa non è facile da farsi smette di essere interessante, regola che non vale solo per i ragazzi ma anche per gli adulti. Ormai è così.

Se è facile, però, se la si ottiene schioccando le dita, manca la soddisfazione e la si gode solo per metà. Risultato che vale per giovani e adulti, è giusto rimarcarlo.

Ora: le cose facili a me non vengono mai in mente, mai. Non so cosa questo significhi e che origini abbia, ma è un dato di fatto. Se è facile non lo guardo neppure. Non è che va benissimo, me ne rendo conto, ma non ci posso fare niente. Se è facile per me non esiste.

Mi domando per quale strambo assemblamento neuronale io debba trovare naturalmente gratificante-interessante-divertente-motivante tutto quello che è difficile da ottenere.

Sono malata, non c’è altra spiegazione.

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(240) Bowling

Mi piace giocare a bowling e anche se non ci sono andata spesso, mi sono accorta che ci gioco continuamente. A ragion veduta, proprio continuamente.

Allineo i miei bei birilli in fondo alla pista, scelgo con cura la palla da tirare, prendo la mira bilanciando il peso del corpo (per quanto e come posso) e via. Non faccio strikes da campione (quando li faccio, certo è una gioia), ma tiri indegni neppure.

La metafora del bowling la sento felice, c’è tutto in un gesto che sembra niente. So che è così che va, quando sembra niente è la volta che ti trovi immerso nel tutto. Mano a mano che invecchio trovo sempre più difficile considerare le cose un niente, anche se il tutto mi sovrasta sempre un bel po’.

Mi trovo saggia quando mi accorgo di certe cose.  Certamente, e soprattutto, presuntuosa. Ebbé, mica ho detto Illuminata!

 

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(239) Ignoto

Sarebbe facile riderci sopra, ma non ridurrebbe il dilemma in dileggio, rimarrebbe comunque una spina da togliere. Se l’obiettivo è alleviare il dolore, diventa tempo perso.

Dipende dal dolore. Ci sono anche quei dolori a cui ti affezioni e guai a chi te li tocca. Altri dolori sembrano caduti dal cielo o scaturiti direttamente dall’inferno e te ne vorresti liberare, ma non c’è verso.

Ritornando al punto di partenza, l’ignoto è una spina da togliere. Appena te la togli c’è il sollievo, ma alzi lo sguardo e zak: ‘n’artra spina. Perché l’ignoto non finisce, l’ignoto si protrae all’infinito e oltre. Se la prendi male, se ti provoca sofferenza, sono affari tuoi. L’ignoto se ne sbatte di come stai, lui sta lì davanti a te, a solo un passo, e sta benissimo. Sta da Dio.

Se ciò che non vedi, non sai, non conosci, è la spina da togliere, il gioco ti vede perdente. Troppe spine, poche dita… dolore.

Conviene non pensarci, conviene far finta di niente, conviene guardare all’ignoto con benevolenza. In fin dei conti è lui che ci permette di tirare fuori il meglio dal nostro intelletto e dal nostro corpo fisico. Siamo lì in attesa che l’ignoto si palesi, abbiamo i nervi tesi, i sensi allertati, siamo svegli.

Ecco, così ci vuole l’ignoto: svegli.

Grazie, Signor Ignoto, pigra come sono avrei finito per addormentarmi davanti alla Tv sicura che la vita sia tutta qui.

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