(238) Delusione

Non so perché succede, ma succede. La delusione è soltanto la frustrazione di un’aspettativa, lo so, non si dovrebbero avere aspettative, so anche questo, ma chi non ne ha neppure una scagli la prima pietra!

Non sono delusa a causa di un’aspettativa esagerata, tutt’altro. Ed è questo che mi sbalordisce, mi aspetto il minimo sindacale, proprio il minimo. Eppure: niente.

Mi rendo conto che la delusione è per lo più un sentimento effimero, che poi te la dimentichi e ricominci daccapo con le benedette/dannate aspettative (ai minimi e ai massimi termini, dipende dalla situazione), ma delusione dopo delusione il peso si va a sommare a quello degli anni e… diventi cinico e scazzato, acido e velenoso.  Insopportabile.

Io ce la metto tutta, ma mica è facile remare contro ‘sta dannata corrente di faciloneria e strafottenza. Datemi una mano, perdio!, non posso fare tutto da sola.

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(237) Pudore

Un senso di opportunità, di rispetto della sensibilità altrui: questo specifica il dizionario. Sinonimo di ritegno, vergogna, discrezione e in questo senso lo sto affrontando.

È un sentimento che mi appartiene profondamente e con diverse declinazioni: il ritegno come senso di opportunità, la discrezione come segno di rispetto della sensibilità altrui, la vergogna quando l’orrore si compie e mi ritrovo inerme e inutile e mancano le parole perché i pensieri si sono svuotati.

Apprezzo il pudore negli altri, quando lo incontro, ma lo incontro raramente. Si sbatte in faccia al nostro prossimo qualsiasi cosa ci riguardi, anche la più intima, la più segreta, come se fosse d’obbligo accoglierla, approvarla, celebrarla. Credo sia ripugnante.

Ci sono scelte delicate, condizioni delicate, posizioni delicate, emozioni delicate che non vogliono essere buttate in piazza alla mercé di chiunque passi. Distogliere lo sguardo, l’orecchio, l’attenzione è segno di rispetto, a volte. Quando è troppo e quando quello che si può fare è niente, l’opportunità del nostro esserci è opinabile.

Il pudore è quella cosa che si muove quando la commozione è profonda e la consapevolezza di ciò che È ti sovrasta. Un sorriso, se è cosa lieta, un abbassare il capo se è cosa greve. Cos’altro fare di più o meglio? Ritrarsi in silenzio, mi è sempre sembrata l’unica cosa possibile quando quello che È mi sovrasta con la sua grandezza, quando terribile e quando magnifica.

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(236) Ho’oponopono

Ho tra le mani un libro che si intitola Ho’oponopono, un regalo. Porta in sé un messaggio semplice, basilare: vivi con amore e nel perdono, così facendo sciogli ogni resistenza di guarigione e ti liberi.

Le cose semplici spaventano, pensiamo sempre che ci sia qualcosa sotto di torbido che ci fregherà. Non lo so perché è così, ma è così. Attenzione, però: le cose semplici positive ci sembrano infide, mica quelle semplici negative.

Gli slogano razzisti, di ogni genere, sono semplici, diretti, chiari, inequivocabili. Li capiamo al volo. Tutto sta lì. Ci fidiamo di loro, di quello che dicono e quasi quasi ci convincono pure. Non è così per i messaggi positivi, anche se semplici, diretti, chiari e inequivocabili non ci danno fiducia. Ci fanno diventare sospettosi.

Ecco, penso che questo faccia schifo. Questo pensare che l’amore sia cosa semplice e pertanto banale, ovvia, svalutabile ed equivocabile fa davvero schifo.

Come ho fatto a ridurmi così? Dannazione!

 

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(235) Umore

Gli alti e i bassi e i bassi e gli alti, tutti i giorni, più volte al giorno. Dicono sia normale, sicuramente è stressante. E non capita solo a me, no, capita a tutti. Solo che non tutti sanno prendere bene la cosa, per far tacere gli alti e i bassi molti preferiscono ammortizzare i sensi e vivere in un rassicurante limbo emotivo.

Ognuno fa quel che gli pare, ma mi sembra un peccato. Penso che osservarci nei nostri alti e bassi sia piuttosto istruttivo e anche divertente.

Mi scopro essere un caso clinico interessante e cerco di farne tesoro. Un esempio? Ok, ho scoperto cos’è che mi fa veramente incavolare. Anche se i motivi per cui mi incavolo durante la giornata sono vari e sfacettati, l’origine è sempre la stessa: la mancanza di rispetto.

Lo so da molti anni e questa presa di coscienza mi ha decisamente cambiato la vita. Come? Così: se mi arrabbio, in modo incontrollabile e apparentemente senza senso, so che la ragione è perché mi stanno mancando di rispetto. Sembra che tutto sia normale, ma io mi sto arrabbiando. Ok, significa che non è tutto normale, l’anormalità è subdola e non evidente, basta aspettare un po’ e si espliciterà.

Succede sempre. Mi arrabbio e poi capisco il perché.

Una volta rivolgevo la rabbia contro me stessa, pensando di essere “fatta male”, ora mi fido di lei. Se mi parte l’embolo, so che il motivo è che mi stanno mancando in qualche modo di rispetto. Alzo la guardia e attendo l’esplicitarsi del fatto. Non vengo mai smentita.

No, non me la tiro dietro, la sento prima che si verifichi, la annuso mentre mi sta arrivando addosso. Mi permette di prepararmi a incassare. In questo modo, barcollo senza crollare. Reagisco più in fretta, spiazzando il mittente.

Qual è la morale della storia? Monitora come stai, studia l’andamento dei tuoi alti e bassi e trai conclusioni utili per vivere meglio. Amen.

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(234) Drago

Se potessimo ricordare in ogni istante il potere del Drago, avremmo risolto gran parte del nostro personale conflitto interiore.

La parte malefica, dove morte e distruzione possono abbattersi improvvisamente nella nostra vita, e la parte benefica, la bontà e la fortuna a farla da padrone.

Il Drago è dentro di noi, distrugge e accudisce a fasi alterne. Ciò che distrugge dev’essere distrutto, anche se non ci piace. Ciò che rimane dev’essere curato per far crescere la fortuna che sta per arrivare.

La fortuna se non trova posto non si ferma, se ne va senza neppure salutare. Così è, non è disposta a compromessi.

Dobbiamo domare il Drago, domare noi stessi. Dobbiamo prenderci in mano e fare bene i conti, e fare bene le cose, e fare bene. Del bene a noi, anche se non ci piace. Dobbiamo.

Solo così possiamo sperare di migliorare tutto il resto, tutto quello che sta fuori e così vicino a noi che non può essere lo stesso provocare devastazione o profondere bontà e fortuna. Perché non ci mettiamo l’anima in pace e non affrontiamo il nostro Drago, ora? Perché?

Ora, non dopo. Ora. Il Drago aspetta, il Drago ha pazienza, il Drago non è la Fortuna, il Drago non se ne va.

 

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(233) Zavorra

Mollare la zavorra dovrebbe essere l’imperativo. Appena t’accorgi che ce l’hai proprio attaccata al collo, zak! Mollala lì, all’istante.

Ok, per qualche strano motivo che ancora non ho capito, io ho la predisposizione ad affezionarmi spasmodicamente alla zavorra che, di volta in volta, mi si appende addosso. Ecco, valutando quanto io sia poco incline a mollarla (sia mai, ne sentirei troppo la mancanza) si dà il caso che la zavorra prenda spesso possesso di ogni mio sciagurato passo.

Ebbene: l’ho capita ‘sta cosa e ne farò tesoro.

Ora devo solo trovare una discarica abbastanza capiente dove poter depositare all’istante i miei primi quarant’anni di zavorra accumulato compulsivamente e caparbiamente. E poi via dal chiropratico.

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(232) Sorgente

Perché siamo molto impegnati ad andare da qualche parte. Molto impegnati. Siamo sempre concentrati su quello che vogliamo raggiungere, il luogo dove vogliamo stare.

Oggi ho guardato la mia sorgente. Credo che sia passato un secolo dall’ultima volta che l’ho fatto. Troppo tempo. La mia sorgente è di acqua buona. Pura, cristallina. Mano a mano che è scesa a valle s’è un po’ sporcata, s’è un po’ persa, s’è un po’ asciugata. Non va bene. Tempo di rimediare, ora.

Ok, Babsie, vai lassù a riprenderti!

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(231) Aspettative

Sono bastarde. Infide. Sono viscide. Luride.

Tu pensi che siano cosa passata, pensi di essere sgamata, di essere andata oltre, di essere. Non sei. Loro sono. Fortemente sono. Indissolubilmente sono. Sono.

Una cosa sola puoi fare, puoi farla sempre e senza regole. Una cosa spettacolare, una cosa che è diversa a seconda di come tu sai permetterti di essere diversa da te stessa: guardare altrove.

Le aspettative sono a destra? Tu guarda a sinistra. Si spostano a sinistra, tu guarda dritto di fronte a te. E via così. Schivale, ignorale, soffocale con la tua indifferenza. Falle verdi di rabbia concentrandoti in quel microspazio dove loro non si sono ancora inserite. Gioca d’astuzia, non abbassare mai la guardia, sferra il colpo senza pietà.

Fottile così. Loro non spariranno, ma tu almeno ti sarai goduta il paesaggio.

 

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(230) Nutrimento

Riuscire a bastare a noi stessi è una bella sfida. Il nutrimento che possiamo ricevere da un altro Essere Umano/Essere Vivente può dissolversi in un istante. Anche senza ragione, anche senza colpe o responsabilità. Succede. E quello che fino a un minuto prima ti ha nutrito ora ti lascia il vuoto.

Il vuoto non è che sta lì in silenzio e si fa i fatti suoi, no. Il vuoto inizia a divorarti e lo fa a suo piacimento. Può durare molto a lungo, tu non lo puoi sapere quando si fermerà, quando sarà finalmente sazio. Non solo ti manca il nutrimento, ti manca la tranquillità per correre ai ripari, per iniziare a guarire. Crudele.

Allora decidi che devi imparare a bastare a te stesso, per evitare che succeda ancora e ancora e ancora. Un loop maledetto, inarrestabile. Maledetto. Maledetto. Maledetto.

Ci ho pensato molto negli anni, nei miei alti e bassi, nei miei pieni e nei miei vuoti, e mi sono chiesta cos’è che mi manca per riuscire a ottenere quell’equilibrio che mi permetterebbe di bastare a me stessa. Cosa?

Non lo so. Proprio non lo so.

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(229) Relitto

Ho sempre guardato agli appigli come a piccoli miracoli di salvezza. Non è semplice farci l’occhio, ma se sei fortunato perché la vita ti ha ben bastonato con costanza e sollecitudine allora gli appigli hai imparato a riconoscerli ovunque.

Quando sei guardato come un relitto, quando nessuno ti darebbe un soldo sulla fiducia, quando le tue parole e le tue azioni passano nel silenzio e cadono lontane senza che nessuno le raccolga. Ecco, quelli sono appigli.

Da lì riparti, perché da un qualche posto uno deve pur ripartire e quando non c’è nient’altro da lì riparti. Non è che ti servono i dubbi o le recriminazioni. Non ti serve lamentarti, bestemmiare, vendicarti. Non ti serve. Fattene una ragione, non serve. Devi trovare un altro modo. Non ce l’hai ancora? Ok, inizia a cercarlo, inizia a desiderarlo, inizia ad accorgerti degli stramaledetti appigli.

Un relitto è qualcosa di finito, tu no.

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(228) Personaggi

Li vedo chiaramente i personaggi, io. Deformazione professionale oppure talento naturale, non lo so. Amo i personaggi, perché non si fingono persone, si mostrano per quello che sono. Dietro a loro ci sono le persone e quelle sì che fingono.

I personaggi ci scoprono dandoci l’illusione che siamo coperti, ma loro non sanno che noi ameremmo essere scoperti solo che non lo ammetteremo mai. Ammettere una debolezza è certezza di debolezza, sia mai.

Il personaggio che ti si para davanti vuole sempre qualcosa da te, molto più violentemente di quel che farebbe una persona. Il personaggio non ha scrupoli, non ha voglia di menate, non ha tempo da perdere, non ha bisogno di comprenderti: il personaggio è. Così com’è, senza chiedere il tuo parere o il tuo consenso. Che Essere meraviglioso, vero? Quanto dovremmo imparare da lui/lei per essere veramente noi!

Il personaggio quando è debole è dirompente, quando è forte è disarmante, quando è grande ti sembra piccolo e se è piccolo fa cose enormi. Non mente un personaggio, non ne ha bisogno, lui vive tuo malgrado.

Ci sono personaggi indimenticabili, capaci di far scomparire le persone che stanno lì dietro. Le persone che scompaiono, però, giocano il gioco vigliacco e non sono degne di compassione. Lo pensavo trent’anni fa, vent’anni fa, dieci anni fa e lo penso anche ora. Mi fa bene scoprire che, in fondo, resto fedele al mio personaggio, nonostante la gente pensi che non sia così. Ma io non mi nascondo, no. Io imparo dal mio personaggio, che mi sa prendere per mano e mi sa portare dove io non oserei andare. Ecco il perché del mio crescere.

 

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(227) Long Playing

Cosa c’era di meglio di un LP, soltanto qualche anno fa? Niente. Era entrare in un mondo creato apposta per te, seguirne le note – come briciole di Pollicino – e gustarsi ogni solco chiudendo tutto il resto fuori. Succedeva quando avevo tredici anni e succede ora. Cos’è il tempo in fondo?

Long Playing significa tempo lungo, abbastanza per 12 canzoni. Un libro di note, armonie, tracce e storie raccolte in un’unica grande storia, come capitoli. Un libro rotondo, di vinile, che ci appoggi sopra la puntina e… voli!

Il CD scompare alla tua vista, ma l’LP balla girando come un Sufi davanti ai tuoi occhi e se lo fissi t’ipnotizza. Mi trovo molto LP, caratterialmente parlando, sarà per l’età o per quel legame sentimentale che mi risulta impossibile scindere. Non ci penso spesso, ma c’è.

Che roba strana che è la musica. Che benedizione.

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(226) Viaggiare

Te ne accorgi di botto, come un pallone sulla nuca che ti tramortisce. Da quant’è che non ti muovi? Da quant’è che non prendi l’auto, il treno, la nave, l’aereo, il che-diavolo-so-io, per andartene via. Via dalla tua comfort zone. Via. Per un po’, non per sempre, ma via.

Troppo tempo.

Se fai passare troppo tempo, le radici si fanno massicce e il passo diventa faticoso. Non va bene, non va affatto bene.

Quando ripensi a come stavi mentre eri via, mentre avevi a che fare con quella te stessa che non doveva fare o dire niente perché nessuno si aspettava niente visto che nessuno la conosceva – ecco, in quel momento e in quelle condizioni come stavi? Eri diversa. Chi lo sa se migliore o peggiore, comunque diversa.

Non è questione di libertà – non lo è mai – è questione di liberazione. Mica è la stessa cosa. La liberazione ti fa spalancare le braccia per renderti vela che si gonfia con il vento buono. Quella cosa lì, precisamente, vale la pena di tutto. Non per modo di dire, proprio in concreto. Le scomodità del viaggio, i rischi del viaggio, le rotture di scatole (dicesi inconvenienti o incidenti) del viaggio, tutto diventa zero se ti ricordi di aprire le braccia.

Ritornare è inevitabile, ma quel vento diventa rifugio per i tempi con le sbarre impietose e diventa chiave per aprire, un giorno, la gabbia.

Ora che m’è arrivata la pallonata, come faccio a far finta di niente? Eh!

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(225) Omaggio

Oggi, avevo evidentemente del tempo che mi avanzava, perché mi sono persa in un pensiero in apparenza stupido. Mentre me lo rigiravo per bene come si fa con una cotoletta che dev’essere impanata, ho scoperto che era lì per dirmi un paio di cose. Non so se le ho intese bene, ma se lo scrivo magari non me le dimentico.

Sono partita dal fatto che il rendere omaggio sia di per sé un gesto bello. Assolutamente inflazionato, d’accordo, ma se lo si prende alla radice rimane un gesto che veicola Bellezza. Infatti si scelgono spesso i fiori per farlo. I fiori non possono che essere belli, i fiori sono la Bellezza pura. Omaggi con la Bellezza, ovvio, con niente di meno che la Bellezza altrimenti sarebbe un oltraggio.

Bene, procedendo col pensiero sono arrivata alla domanda: ma tu, Babsie, chi omaggeresti ora se ne avessi l’occasione? Ero partita con pochi nomi, persone che ritengo meritevoli di tutta la Bellezza del mondo per svariate ragioni, ma poi la lista si è allungata. Di un bel po’. Per farla breve ho scoperto che nel mio mondo ci sono state (e ci sono) persone che hanno saputo darmi tanta Bellezza. Persone che magari neppure mi conoscono o che non si sono manco accorte che esistevo o che si sono totalmente dimenticate di me, non ha importanza. Il segno che mi hanno lasciato è la sola cosa importante.

Omaggiare con sentimento di sincera gratitudine queste persone potrebbe diventare la mia missione per i prossimi anni. Il pensiero mi fa sorridere, significa che è proprio una buona idea. Yep!

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(224) Ragazza

Essere una ragazza per me non è mai stato un problema, non l’ho mai voluto vivere come un problema. Avrebbe potuto esserlo perché sono nata e cresciuta in una terra piuttosto maschilista e mio padre non faceva eccezioni, anzi.

Non ho mai considerato che diverse condizioni di genere avrebbero potuto ostacolare il mio cammino e, lo ammetto, non ho mai fatto caso a tante cose. Cose sottili o anche grossolane, cose che vedo ora e per fortuna che le vedo solo ora perché avrebbero potuto fermarmi.

Avevo in testa delle mete da raggiungere, le ho raggiunte. No, non quelle fantasmagoriche, quelle modeste tutte però. Sì, perché ho solitamente due modalità di funzionamento che riguardano l’immaginazione: quella stratosferica e quella normal. Mi ha dato più soddisfazioni la seconda, ma attendo con fiduciosa speranza che la stratosferica si dia una svegliata.

Ritornando al punto di partenza: alla mia veneranda età, dove chiamarmi ragazza diventa più che altro un insopportabile insulto, sono diventata ben più sensibile alle situazioni in cui essere una ragazza diventa rischioso o, per lo meno, invalidante. Non lo so il perché, forse perché è più evidente ora che trent’anni fa? Ancora non l’ho focalizzata bene ‘sta cosa.

Quello che so è che se fossi una ragazza oggi, non mi fermerebbe nessuno, peggio di sempre. Avrei più forza e avrei più determinazione per raggiungere ogni meta sul mio cammino. Insomma: essere una ragazza è una forza, sempre. La debolezza è lasciarsi convincere che non sia così. Le ragazze lo devono sapere, oggi più che mai.

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(223) Compleanno

Festeggiare il mio compleanno è sempre stata una faccenda non ovvia. Anni in cui l’ho voluto fare altri in cui ho fatto finta di niente. Sono una donna volubile, a quanto pare.

Se devo approfondire la questione posso affermare che ci sono età che mi sembravano inutili, soltanto un passaggio in attesa di arrivare a QUELL’età che tanto anelavo. Ma erano molti anni fa, ormai non anelo a raggiungere nessuna età, mi affido a ciò che sarà e che il Cielo mi aiuti.

La festa dei diciotto anni è stata strepitosa, ero felice. I trenta non sono stati malaccio, poi il disfacimento. Oggi è stato strano: ho ricevuto tanti auguri affettuosi e questo ha addolcito il peso di un 4 e un 5 che, uno accanto all’altro, mi fanno un po’ impressione. Però la somma dà 9.

Adoro il numero 9.

Su, godiamoci questi 365 giorni che i prossimi non saranno così epocali. Eh.

… to Me!

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(222) Scena

È il luogo dove tutto accade, dove tutto è possibile, dove tutto è più nitido e quasi più vero perché viene raccontato per essere ricordato. Ci si mette l’anima quando si racconta una storia che vuole essere ricordata.

È sempre un perdere te stesso per ritrovarti sparso tra le parole che in scena vengono liberate. Bisogna essere folli per attraversare le pluridimensioni in cui una storia si muove. Eppure, se ci provi e sopravvivi saresti un folle a non farlo ancora e ancora e ancora e ancora. E lì ti rendi conto che il tuo mondo è cambiato e ti ha cambiato portandoti con sé.

Non ritorneresti a quel che eri, neppure quando il futuro si fa cupo e incerto. Così ti viene quella specie di leggerezza che solo pochi sanno provare, e vedi tutto come dev’essere perché hai trovato le tue ragioni e su quelle sai che puoi sempre contare.

In fin dei conti, il futuro per quanto cupo e incerto e fedifrago uno lo può sempre modellare a suo piacere, basta sapersela raccontare bene e una volta imparato come si fa niente te lo può far scordare.

Si va in scena!

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(221) Carezza

Le carezze io le ricordo, tutte. Quelle di mia nonna per farmi addormentare sono le più preziose perché non le potrò avere mai più. Troppo pure, troppo dedicate, troppo amorose per poter essere replicate da chiunque altro.

Ho imparato da lei ad accarezzare. Non lo puoi fare se non sei nella condizione per farlo, non te la puoi inventare la delicatezza se non la conosci, se non la provi.

Le carezze si imparano per osmosi, se le ricevi impari a farle. Se non sei dell’umore giusto per farle, evita perché lasceresti una brutta impronta che poi si fa fatica a cancellare.

Le carezze sono fatte per togliere la stanchezza dal viso di chi ami, per togliere il dolore, per togliere la tristezza, per togliere la sporcizia di un giorno brutto. Mentre toglie, però, lascia. Lascia la dolcezza di un’attenzione esclusiva e dedicata, lascia la cura, lascia l’amore.

Così sono le carezze. Così devono essere le carezze. Così.

 

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(220) Xenofobia

xenofobìa (o senofobìa) s. f. [comp. di xeno- e -fobia, sul modello del fr. xénophobie]. – Sentimento di avversione generica e indiscriminata per gli stranieri e per ciò che è straniero, che si manifesta in atteggiamenti e azioni di insofferenza e ostilità verso le usanze, la cultura e gli abitanti stessi di altri paesi, senza peraltro comportare una valutazione positiva della propria cultura, come è invece proprio dell’etnocentrismo; si accompagna tuttavia spesso a un atteggiamento di tipo nazionalistico, con la funzione di rafforzare il consenso verso i modelli sociali, politici e culturali del proprio paese attraverso il disprezzo per quelli dei paesi nemici, ed è perciò incoraggiata soprattutto dai regimi totalitari.

Se lo sei non appartieni alla mia razza, ma non per questo ti odio. Il punto è che se lo sei per metà, per quella metà che ti fa comodo, allora non appartieni a nessuna razza se non a quella degli ipocriti. Allora sì che mi viene proprio da odiarti. Perché gestire il bello e il brutto, il buono e il cattivo, il giusto e lo sbagliato assecondando il tuo comodo mi fa davvero schifo.

Togliere dal mondo tutto quello che secondo i tuoi parametri non va bene equivarrebbe a togliere tutto e il contrario di tutto allo stesso tempo. Credo tu abbia bisogno di curarti, questo mondo è troppo per te e il tuo cervello.

Dopo questo sfogo, passo volentieri al pensiero successivo: non c’è niente di esterno a noi. Tutto quello che esiste ci appartiene, in un modo o nell’altro. Le fobie sono paure che sfuggono al nostro controllo e se così è dovremmo prenderci cura di noi stessi e venirne fuori. Non andando contro il resto del mondo, ma accogliendo il mondo dentro di noi perché è a lui che apparteniamo.

Come fai a stare bene con tutto l’odio che hai dentro? Povero te.

PS: no, la foto che accompagna questo post non è uno sbaglio, l’ho scelta apposta e, secondo me, lo capite senza bisogno che io ve lo spieghi.

 

 

 

 

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(219) Ozio

Ci ho provato, non ci riesco. Anche quando non sto facendo niente sto facendo un sacco di cose – tutte nella mia testa eppure concretissime. Sempre stata così, fin da piccola, nessuno mi ha mai sentito lamentare riguardo al non sapere cosa fare del mio tempo.

Il saper oziare credo sia un’arte. Voglio dire che se lo sai fare bene arrivi all’essenza della vita. Quello che l’uomo primitivo provava tra un pasto e l’altro, immagino. Ecco, provo invidia.

Dopo tre minuti che non sto facendo niente mi sale un tormento che non so neppure descrivere. Come se quel tempo fosse uno sputare in faccia al tempo che mi mancherà il giorno dopo. No, non so neppure come spiegarlo, è un sentimento orribile.

L’ozio è il padre dei vizi, io mi sento orfana.

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(218) Pozione

Ben inteso: la pozione mica è sempre magica, tutt’altro. Spesso è un semplice decotto, un infuso blando, un medicamento placebo. Eppure adoriamo le pozioni.

La sola possibilità che lo sia, magica intendo, cambia tutto. La possibilità che si può tradurre meglio in: immaginare la possibilità. Solo immaginare che questa pozione mi darà la forza di Asterix me la fa prendere volentieri. Faccia anche schifo come sapore, i risultati saranno strabilianti.

Io la vorrei la pozione giusta per farmi diventare strabiliante. Non l’ho ancora trovata, ma ogni giorno mi aggrappo a una delle mie possibilità immaginate per farmi fare ancora un altro passo nella giusta direzione. Fosse anche una pratica stupida, una cosa da nulla, non la abbandonerei mai, per nulla al mondo.

Ho ancora un paio di possibilità immaginate che mi sorreggono quando le gambe cedono e sono loro il mio segreto, la mia pozione magica. Un goccio e divento strabiliante. Lo consiglio a tutti, posologia a piacere, effetti collaterali ridotti a un nulla. Tenere lontano dalla portata dei cinici e dei boicottatori di possibilità immaginate, ovviamente.

 

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