(428) Riluttanza

Lo ammetto, accolgo le novità con una dose eccessiva di riluttanza, spesso. Le novità mi procurano un fastidio pungente per dover muovermi contro il mio volere al fine di adeguarmici. Se l’ho decisa io la novità, tutto bene, se mi viene imposta, bene mica tanto. Se devo per forza prendermene carico, ok, ma non pretendere che lo faccia sorridendo perché a tutto c’è un limite.

Questo in generale.

Per quanto riguarda le cose che devo fare per forza, la riluttanza assume forme più subdole. Devo farlo, lo so, ma non ne sono entusiasta – usando un eufemismo – pertanto impiego un lungo tempo a convincermi che dovrei esserlo e che finché non lo sono non combinerò niente di buono al riguardo. Una rottura di palle notevole, star lì a convincermi con argomentazioni impegnative mi sfinisce. Non sono una che si convince facilmente, penso sia chiaro a tutti.

La riluttanza è diventata sempre più invadente nella gestione del mio devi-fare, tanto che al fastidio di dover fare si aggiunge il fastidio di dover lottare contro l’invasore-riluttanza e alla fine della giornata sono esausta.

Così non va bene, devo trovare una soluzione. Un modo per gabbare la riluttanza e farla indietreggiare un po’. Mi sta bene che ci sei, bella, ma non esagerare. Il fatto che io ancora non abbia capito perché si sia resa così forte mi inquieta. Forse lo so e non voglio credere che sia vero?

Brava Babs. Ora torna in trincea e combatti. Con riluttanza, ovviamente, estrema riluttanza.

 

 

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(427) Mancanza

La velocità d’abituarsi al lusso (fosse anche un piccolo lusso) è immensamente più alta rispetto a quella d’abituarsi ad una mancanza (anche piccola). Sembra ovvio, ma può non esserlo nella pratica, soprattutto quando è il nostro benessere a crescere e assieme a lui la nostra noncuranza.

Una cosa, però, ho imparato in questi miei anni ed è qualcosa che mi ha messo fortemente in crisi, ovvero: quando per lungo tempo vivi con una mancanza, quando l’hai addomesticata, quando le hai tolto potere, quando l’hai tradotta in un semplice e piccolo vuoto… a quel punto capisci che puoi farne a meno.

Se puoi farne a meno, ed è un dato di fatto visto che sei sopravvissuta, allora significa che forse quella mancanza non pregiudica la tua esistenza (e questo è un bene), ma piuttosto pregiudica la tua felicità (e questo è anche un bene, perché la felicità è sempre un bene) e se reputi che quella felicità sia giusta per te allora sarebbe bene che tu la recuperassi.

Dato per scontato che ogni Essere Vivente ha il diritto sacrosanto alla felicità, allora bisogna anche valutare che la felicità può assumere diverse forme e un numero smisurato di colori. Ci sono felicità sane e felicità meno sane, altre proprio avariate, e la cosa che dovremmo fare – quella più intelligente – sarebbe prenderci cura della nostra idea di felicità.

Cos’è che ci rende felici? Perché? Già rispondere a queste due domande potrebbe risolverci la vita.

La pienezza della felicità non tiene conto delle mancanze, ma delle presenze. Ecco cosa voglio ricordarmi ogni giorno finché avrò respiro: le presenze, non le mancanze.

Ce la farò?

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(426) Nostalgia

Ci sono cose di me che mi mancano, le ho perse per strada temo. Cose piccole, da nulla, ma che mi facevano felice. Stupidamente felice, in autonomia, senza che ci fosse qualcuno coinvolto. 

La lista non è lunghissima, ma ho notato che si è allungata negli ultimi dieci anni e un po’ mi preoccupa. Sono meno felice di un tempo? Sì, credo di sì. Che sia una cosa irrecuperabile? Non del tutto, credo. Spero.

Negli ultimi tempi mi sono concentrata sui motivi per cui ho perso pezzi di me per strada, ma non è che mi abbia fatto sentire meglio. Anzi. Si finisce sempre con l’autocommiserarsi, in questi casi. Quindi sto cercando di impormi un’altra visione e di dimenticare il perché per perdonarmi e riprendermi in fretta. Potevo fare meglio di così? Certo che potevo, ma forse no. Il passato non cambia, il presente può cambiare. Io sono qui nel presente… guarda te che coincidenza!

Oggi ho iniziato a considerare che, forse, ho frainteso un paio di lezioni e che, forse, mi sono data per vinta perché mi sono pensata e vista perdente. Questa cosa mi ha rattristata peggiorando la situazione, ovviamente. Così riparto da là, da quelle lezioni non lette correttamente e nei prossimi giorni vedrò che farmene. Da qualche parte dovrò pur ricominciare, no?

E anche se la nostalgia per le corse sfrenate in bicicletta – della mia fanciullezza – e il ballare in pista fino al mattino – della mia adolescenza – o il cantare a squarciagola ai concerti rock – dei miei vent’anni – non ho altra scelta che vivermela perché quelle cose non le posso riportare qui nel mio oggi, posso sempre ridimensionare il tiro e godermi quelle piccole felicità che so ancora creare in autonomia, soltanto per me. Toccherà inventarmi qualcosa…

eh.

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(425) Inutile

Muoversi nel terreno dell’inutile è la cosa peggiore che si possa fare. Quando sai, quando senti, quando prevedi, quando anche solo immagini che quello che stai facendo si rivelerà inutile, molla tutto.

Diamo per scontato che se fai, se proponi, se ti ingegni, se ti muovi per far accadere qualcosa è perché in un certo qual modo ci tieni. Potrebbe essere anche soltanto un discorso di interesse personale, magari niente di cui vantarsi sui Social, qualcosa che ti farà stare bene e basta. In un modo o nell’altro. Senza cadere in nessun tipo di giudizio, senza nessun ipocrita moralità, facciamo un discorso in generale: quando fai impegni energia. L’energia costa, ce lo insegna l’Enel. La questione è che con il tempo non è detto che l’energia che impieghi poi tu possa anche recuperarla in qualche modo – a meno che tu non ti cosparga di pannelli solari (in questo caso Elon Musk potrebbe darti una mano).

Se mentre fai ti accorgi che è inutile, che non arriverai a niente, che stai solo perdendo tempo, cosa fai? Ti fermi e fai altro. Giusto? Ecco, no, non è sempre così. Non è sempre ovvio, non è sempre fattibile. Perché? Perché ci sono degli impedimenti morali – più o meno sani e più o meno forti – che spesso ti impediscono di andartene.

Devo dire che con gli anni mi sono specializzata nell’andarmene appena mi è evidente che le cose che sto facendo si riveleranno inutili. Sia in situazioni professionali, che in quelle personali. Sia riguardo alle cose che alle persone. Me ne vado, senza neppure guardarmi indietro. Per farlo ho dovuto frantumare muri di cemento armato – costruiti con impegno da altri per me – che m’impedivano di vedere la grande, immensa, Bellezza della scelta di mollare anche senza aspettare che la cosa sia finita.

Alzarsi dalla poltrona quando il film – per cui hai pagato un biglietto (perché un biglietto lo si paga sempre) – non ti piace, anche solo dopo qualche scena è un tuo sacrosanto diritto. Prendi e te ne vai.

Ho assistito con grande fastidio e sofferenza a film orrendi. Ero lì, immobilizzata dalla paura che se me ne fossi andata sarebbe finito tutto. Tutta la mia vita sarebbe andata in frantumi. Riconoscevo l’inutilità di quella situazione, per me, per la mia anima, ma pensavo che se fossi rimasta avrei comunque potuto fare qualcosa, avrei potuto essere utile. Essere utile a qualcosa/qualcuno, era il punto di vista malato da cui guardavo. L’utilità di quel qualcosa/qualcuno nella mia vita non era neppure contemplata. Pazzesco.

Non sto dicendo che tutto quello che non ci è utile ci è dannoso, ma quasi. Quasi. Davvero quasi. Non pensavo di arrivare a questo punto, ma sono certa che rendersi conto di questa cosa può salvarci la vita. Ostinarci a essere utili a qualcosa/qualcuno non ci garantisce il successo. Spesso ci rende pesanti, ci rende troppo presenti. Troppo presenti. E troppo non è mai bene.

Le cose inutili rallentano gli eventi, ci impediscono di dedicare la nostra energia alle cose utili. Le persone inutili danneggiano il nostro amore per la vita, ci derubano delle speranze e dei sogni e impoveriscono le nostre risorse. Dove c’è scritto che siamo qui per questo? Non c’è scritto da nessuna parte e se qualcuno osa affermare una castroneria del genere ricordiamoci che è solo la sua interpretazione del mondo e come tale non corrisponde a Verità.

Possiamo andarcene di fronte all’inutilità. Sempre. Proprio sempre.

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(424) Bersaglio

Non è bello essere il bersaglio, chi ci è passato lo sa. Lo dovrebbero sapere tutti com’è, così a nessuno verrebbe in mente di scegliersi un bersaglio per sfogare i propri istinti bestiali. Il colpire per fare male, per far morire  – fosse anche solamente l’amor proprio. La crudeltà, la fogna dei sentimenti.

Si fa leva sulla propria presunta forza, come se questa fosse una certezza, ma si sa che di certo a ‘sto mondo c’è ben poco. La supponenza di non essere nel bisogno e per questo essere superiore, come se il bisogno fosse una conseguenza di una mancanza di capacità o intelligenza, ma si sa che come la fortuna non c’è niente di più cieco del bisogno.

Possiamo anche far finta di nulla, pensarci invincibili, ripeterci che il nostro bersaglio se la sia meritata e che prima o poi doveva pur capitare che ci fosse qualcuno capace di fargliela vedere. Possiamo, ma si sa che certe coperte son troppo corte e che il sangue è difficile da lavare via.

Essere un bersaglio ti fa correre come una lepre, anche se le gambe ti tremano, anche se il cuore ti scoppia. E ti fa pregare, anche se non hai mai creduto in nessun Dio. Essere un bersaglio ti fa tirare fuori la tua fame di vita, ti scopre la forza che mai avresti sospettato di avere, ti acuisce i sensi e ti fa pensare in fretta. Soluzioni che arrivano e ti sembrano la salvezza, e anche se non lo sono a quel punto va bene lo stesso, sempre meglio che niente.

Essere un bersaglio, se sopravvivi, ti rende più duro e pronto a quel che sarà. Ti giuri che non capiterà di nuovo e sei pronto a tutto pur di mantenere la promessa. Chi gioca a tiro a segno non si aspetta una reazione. E fa male.

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(423) Juke-box

Monetina, scegli la canzone, pigia il tasto e… musica. E ti compravi così due/tre minuti di spensieratezza o di nostalgia o di quello che ti sembrava potesse farti stare bene, per un po’. 

Un gesto che facciamo tutti e che facciamo continuamente, anche se non ce ne rendiamo conto. Monetina, scelgo la canzone, pigio il tasto e… musica. E quando parte la musica tu stai lì per un po’ e ti immagini qualcosa, qualcuno, che c’era e non c’è più, o che non c’è mai stato e non ci sarà mai, o che potrebbe comparire all’improvviso per cambiarti la vita. Ci concediamo un sogno mentre dondoliamo la testa, mentre ciondoliamo il corpo seguendo un ritmo, una melodia che veste il nostro sentire/sentirci per un po’.

Credo che a nessuno dovrebbe essere tolto un sogno, mai, in nessun modo. Sarebbe come togliere le note da un pianoforte, togliere le ali ad una rondine. Non si fa, non si fa e basta.

So che spesso questi miei pensieri notturni si fanno confusi e tumultuosi, lo so, ma sono nati così e così voglio che rimangano, fissati dai pixel che di poco si allontanano dall’inchiostro che amo tanto. E se parlo di Juke-box e di sogni, di nostalgia e monetine e sentimenti, non è perché non so dove andare, ma perché dove vado ci sono tutte queste cose insieme e molte altre che non si fanno tradurre e prenderle troppo sul serio sarebbe da pazzi ma ignorarle ancora di più.

Nel mio Juke-box le monetine scendono con intenzione, la musica non è mai casuale e la nostalgia si mescola al resto come se non ci potesse essere nient’altro a sollevarmi dalla terra. Forse non sarà il miglior sistema per gestire i pensieri, ma è abbastanza per decorare a modo mio questa vita che semplice non è. Mai.

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(422) Cuspide

In astrologia la cuspide è una linea immaginaria che divide un segno zodiacale da quello successivo e da quello precedente. Una linea immaginaria è quel sottile spazio dove tutto può succedere e lì, in quello spazio, non c’è regola che tenga.

Se sei cuspide ti puoi permettere il meglio e il peggio di due segni zodiacali senza colpo ferire. Come avere un bonus senza scadenza che ti permette di fare e di essere più cose contemporaneamente e non hai neppure bisogno di giustificare sentimenti e azioni, basta dichiarare il tuo stato e il mondo capisce, accetta, passa oltre.

A quelli come me, quelli che odiano certe furbate, stanno sulle palle le cuspidi, ma ammetto che essere cuspide può risultare nel concreto piuttosto divertente.

Ho sempre pensato che essere tutta d’un pezzo fosse una gran fregatura, eppure anche se nella piena consapevolezza dei miei limiti non ho mai saputo fare altrimenti. Mai saputo darmi la possibilità di mutare forma pur rimanendo sempre una fan del “contengo moltitudini” del poeta Walt Whitman.

Forse che mi contraddico? | Benissimo, allora vuol dire che mi contraddico, | sono vasto, contengo moltitudini.]

Do I contradict myself? Very well, then I contradict myself, I am large, I contain multitudes.

Ecco, Walt, non te l’ho mai confessato, ma contenere moltitudini a volte non basta, bisogna pure avere le palle per farle uscire ‘ste moltitudini, perché chiuse in una scatola fanno la muffa. Molto probabilmente, azzardo, non ne ho mai avute abbastanza di palle.

Quindi esplicitarsi in incongruenze, discontinuità, contrari e opposti, oltre che risultare liberatorio potrebbe anche essere un modo per riscoprirsi e riprendere un posto nell’Universo che non sia troppo scontato o troppo noioso. Ovviamente tutto questo lo trovo bellissimo in teoria, in pratica mi risulta faticoso e dispersivo. Va a finire che se mi ci ostino creo a me stessa più disagio che libertà e, pur guardando con meno fastidio le cuspidi, rimango nel mio pezzo convinta che – tutto sommato – una certa solidità a qualcuno dovrà pur piacere.

A me, onestamente, non dispiace, ma non nego sia la mia ignavia a parlare per me. Mah!

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(421) Yogin

Allorché lo yogin è fermamente stabile nella non violenza, coloro che sono in sua presenza abbandonano ogni ostilità. (Patañjali)

Mi piacerebbe riuscirci. Riportare il tutto in un vuoto cosmico e azzerare ogni ombra violenta nell’Essere Umano. Cosa resterebbe? Un mondo di Yogin, suppongo. Talmente inverosimile come ipotesi che neppure Hollywood ci ha mai pensato. E c’è da tenerne conto.

Come in tutte le cose, però, il troppo stroppia. Voglio dire che ci sono dei limiti che non vanno superati, per un sacco di ragioni e una di queste è il buongusto. Il buongusto è quella sensibilità del palato che ti fa arricciare il naso quando il sapore, l’odore, la consistenza ecc, di quello che dici e di quello che fai  è sgradevole. Talmente sgradevole da farti vomitare. Ecco, bisognerebbe fermarsi un 100 mt. prima. Ti fermi e ti ripigli, così eviti di superare quel dannato limite.

Il pensiero violento, al di là della minaccia – che è di per sé disgustosa, è mancanza di buongusto, mancanza di eleganza, mancanza di stile. Per assurdo, sono costretta a sottolinearlo, anche il pensiero non violento a tutti i costi comporta una lista di mancanze. Prima fra tutte: la giustizia.

Temo di essere troppo stanca per spiegare meglio il concetto, sono veramente esausta, pertanto devo limitarmi a un’affermazione lapidaria: non sono una Yogin e non è mia ambizione esserlo. Mi interessa di più badare al mio buongusto e al mio buonsenso, che appena li lasci liberi ‘sti due non sai più dove ti portano. Ecco, mi fermo 100 mt. prima, anche 150 a volte. La prudenza, in questi casi, non è mai troppa.

[rileggendo questo pensiero domani potrei non capirci nulla, eviterò di rileggerlo e sia quel che sia]

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(420) Nanosecondo

Precisamente il tempo che mi ci vuole per capire come girerà la cosa. L’illuminazione è questione di un istante, lo sanno tutti, anche quelle di settore (quella generale mi è ancora preclusa) e se ti applichi può avverarsi con regolarità e una certa sostanza.

Ci sono state circostanze nelle quali, per una serie di dubbi sul mio efferato sesto senso, sono passata oltre, ho registrato i segni ma senza volermici troppo soffermare. Pudore? Speranza? Dabbenaggine? Non lo so, forse un po’ di tutto questo e anche altro. Fatto sta che poi le ho pagate care certe scelte troppo fiduciose partendo da evidenti presupposti malsani.

Se ripenso a ognuna di queste posso indicare con certezza assoluta l’istante di consapevolezza che poteva salvarmi dalle rovinose conseguenze. Quel nanosecondo benedetto che io ho guardato con candore e che ho ignorato, invitandolo a ripresentarsi più tardi. Diamoci una chance, mi dicevo. E sbagliavo.

Non sono più così pudica o illusa o scema, credo, perchè ora quel nanosecondo me lo tengo ben vicino e me lo curo finché non decido il da farsi. Che a volte basta anche non fare niente e già la non decisione può cambiare tutto. Sono certa che ogni Essere Umano abbia un numero impressionante di nanosecondi di illuminazione su cui contare, solo pochi sanno coglierli. Basterebbe dar loro retta, in effetti, però ci vuole coraggio. E un po’ di arroganza. E un po’ di facciatosta. E un po’ di diplomazia. E un po’ di macchisenefotte.

Ci si arriva col tempo, molto probabilmente, ma conviene imparare in fretta.

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(419) Wow

Lo penso spesso. In positivo e in negativo. Riferito al mondo che mi circonda oppure a quello che mi porto dentro. Lo stupore che si traduce con un Wow può prendere toni e colori diversi a seconda dell’oggetto a cui è rivolto.

Ci ho riflettuto seriamente e sono arrivata alla conclusione (provvisoria) che non sia una brutta abitudine, quella di stupirmi intendo, perché presuppone una certa apertura alla meraviglia. Nulla di cui andare fiera, è qualcosa che è parte di me e probabilmente ereditata dalla mia genitrice, ma è senza dubbio il presupposto che mi ha permesso di avvicinarmi alle storie. Quelle che mi vengono raccontate, ancor prima di quelle che io racconto.

La convinzione che l’Essere Umano sia portatore sano e insano di storie non mi ha mai abbandonata e non mi ha mai delusa. Quando ti aspetti una storia, quella arriva. Sicuro come il giorno e la notte. Arriva. Certo, la devi saper cogliere, ma se la aspetti allora i sensi ce li hai allertati per forza.

Le storie migliori sono quelle che ti lasciano piccole briciole di meraviglia da raccogliere mentre le attraversi. I colpi di scena fanno bene, certo, ma possono anche lasciarti l’amaro in bocca. Quando, invece, trovi una briciola dove non pensavi ci potesse essere… ti fermi, la raccogli e te la guardi.

Wow.

E chi ci pensava che qui avrei trovato questa cosa! E chi ci credeva che qui avrei trovato questa meraviglia! E chi ci sperava che qui avrei trovato questo piccolo balzo del cuore che mi ha fatto aprire gli occhi d’un colpo e trattenere il respiro!

Wow.

Auguro mille wow – mescolati belli e brutti – al giorno a tutti, a tutti. Quelli belli ti fanno amare la vita, quelli brutti ti fanno amare le altre cose belle della tua vita. Fare un confronto serve, aiuta. Tutti.

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(418) Q.B.

La giusta misura: quanto basta. Se stai cucinando ti serve a puntare l’attenzione sulla tua capacità di sentire il sapore dei cibi. Non troppo sale e non troppo poco, tanto per fare un esempio. Significa che non ti devi affidare alle quantità che altri hanno deciso, devi fare da te e, personalmente, lo trovo bellissimo.

Allenarsi al quanto basta nel gestire la nostra vita è un percorso affascinante, non tutti se la sentono di affrontarlo e la maggior parte delle persone va da un eccesso all’altro sbattendo contro i propri limiti e i propri tormenti, eppure…

Il quanto basta ti fa stare all’erta. Devi domandarti “Basterà?”, ogni tre per due e la cosa può essere stressante se la prendi dal verso sbagliato. Viverlo come un allenamento per migliorare la qualità della nostra esistenza, invece, ci porta a raggiungere uno stato di benessere che ha un reale e concreto valore aggiunto rispetto a tutti gli eccessi di cui possiamo cadere vittime.

Non si tratta di morigeratezza, ma di tarare bene la nostra soglia del ok-va-bene-così, né più né meno. Così va bene. Pensiamoci, quante volte ci fermiamo al così-va-bene? Quasi mai. Siamo ingordi (fino a diventare disumani) e siamo gonfi di tutto: cibo, comodità, possibilità. Gonfi come manco abbiamo il coraggio di ammettere. Farci stare nel range del quanto basta è come bastonarci, dirci che non siamo liberi di… di cosa? Di fare cosa? Di strafare. Di stradire. Di stra-qualsiasi-cosa-ci-passi-per-la-testa. Essere strafatti di questo o di quello è diventato normale.

La mia intera esistenza è stata un allenamento al quanto basta, dall’educazione ricevuta in casa alle vicende che ho dovuto attraversare per arrivare a oggi, e mi rendo conto sempre di più che sono fatta di questo. Quel quanto basta è metà del mio DNA.

Sopporto quel quanto basta prima di mandare tutto al diavolo, per esempio. Sembra una cosa da poco, ma non lo è. Se non arrivo al q.b. tengo duro. Ci arrivo e agisco. Non prima, non dopo. La soglia del q.b. mi impone un certo rigore.

Mi do da fare il q.b. che ritengo giusto per me, se è troppo – e spesso lo è – mi rendo conto che devo stroppiare per ridimensionare il tutto e cambiare tutto. Quindi il q.b. è un riferimento fondamentale, non sempre immediatamente raggiungibile, ma aggiustabile sì, sempre. Una volta revisionato le proporzioni, le misure, si modella la situazione e le cose vanno a posto.

Q.B. non è aria fritta, è la vera libertà.

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(417) Dopo

Dopo c’è il calo d’adrenalina, il crollo della resistenza, la lobotomia. Ti sembra quasi che non riuscirai mai più a pensare di nuovo. Ti domandi come potrai cavartela, ma non ti interessa la risposta. Vuoi solo fare armi e bagagli e andartene in Tibet dove nessuno ti conosce. Sette anni? Di più.

Dopo c’è il feedback, che è sempre un tasto dolente e andare in Tibet sembra sempre più una buona idea.

Dopo c’è la presa di coscienza che poteva andare anche peggio, che hai dato il meglio di te e che alla fine l’hai spuntata tu. Ancora una volta. Non sono salti di gioia, perché la gioia è un’altra cosa, ma è sollievo. E il sollievo può essere una cosa ancora più rara e preziosa della gioia. Almeno in certi casi. Almeno in questo mio caso.

Dopo gli applausi e dopo che le luci si sono spente, ti aspetti un po’ di riposo. Nel senso che lo avevi proprio programmato, che è tuo per diritto, e lo sai tu  e lo sanno tutti, ma la notte dormi poco e male e al mattino inzia il nuovo giorno.

Dopo pensi che ne valeva la pena, dopo pensi che ne valeva la pena, dopo pensi che ne valeva la pena.

Allora ti accorgi che hai ricominciato a pensare e anche se non ti sai ancora spiegare come te la caverai, almeno saluti i tuoi due neuroni con una pacca amichevole perché sempre da lì devi ricominciare. Sempre da te.

Qui o in Tibet non fa differenza. Sette anni o mille, neppure. Rassegnati.

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(416) Prima

Prima c’è la concentrazione e la rimozione del dubbio. Non può che andare bene, andrà bene. Perché il dubbio quando devi agire ti dimezza la forza. Non puoi agire debolmente, devi farlo con energia, il doppio di quella che sarebbe sufficiente per farti arrivare alla meta. E potrebbe volerci un bel po’. Più la situazione è complicata e più i dubbi proliferano. In questo caso, nel mio caso, quello di questi giorni pre-spettacolo non è stato così difficile perché non era il debutto perciò dubbi pochi.

Poi c’è l’attenzione, che deve essere totale per evitarti errori fatali. Non basta andare con la corrente, devi metterci il tuo e di solito costa fatica. Tanta fatica. Più sei sicuro che questa fase di preparazione sia stata da te seguita e curata e più affronterai il momento fatidico con sicurezza.

Il prima non è mai un frizzare di gioia e entusiasmo, piuttosto un meticoloso affaccendarsi affinché tutto quello che si può controllare sia in controllo. Testa bassa e lavoro duro.

Il prima è fatica e stanchezza. Ti domandi prima di addormentarti – che è più che altro un cadere in coma  fino al mattino – se quello che stai facendo ne valga la pena. Te lo domandi, ma non ti rispondi. I dubbi li hai già liquidati durante la fase 1 e indietro non si torna ( “… neanche per prendere la rincorsa” diceva Pazienza ne Le straordinarie avventure di Penthotal).

Il prima è imparare a gestire la tensione e la tua capacità di relazionarti con chi ti sta accanto è fondamentale per non ritrovarti dopo nei guai (meritatamente).

Il prima è emozione, quel chissà come andrà non è mai archiviato davvero. Ti dai sempre – cautamente – una percentuale onorevole di errore, tipo il 20%, ma menti spudoratamente se pensi che poi potresti perdonartelo.

Il prima è contare i secondi e fare un bel respiro e affidarsi a quel che sarà.

C’è sempre un prima in ogni cosa, ho imparato a godermelo e ancora non me ne sono pentita.

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(415) Evoluzione

Indietro non si torna, evolvere è l’unica strada.

Questo delizioso aforisma l’ho coniato quando avevo sedici anni. Un secolo fa, in pratica. Se devo essere franca, e non vedo motivo per cui io non debba esserlo, l’unica cosa che mi rende davvero orgogliosa di me stessa è proprio questa: ho mantenuto fede alla promessa.

Guardando alle mie origini posso affermare tranquillamente che l’evoluzione c’è stata. Oddio, molto inferiore alle mie ambizioni, ma tutto considerato in linea con la mia indole e le mie capacità (mai troppe, mai splendide).

Il nocciolo della questione sta proprio qui: imporsi un’evoluzione anziché adagiarsi e rischiare un’involuzione è già di per sé un modo per salvarsi l’anima. Che è qui che noi ci salviamo l’anima e se aspettiamo troppo diventa tardi, dovrebbe esserci chiaro il concetto anche se lo ignoriamo caparbiamente.

Evoluzione mi piacerebbe fosse sinonimo di salto quantico, ma nel mio caso non lo è e questo è duro da digerire, ma rassegnarmi soltanto perché la Natura non mi ha dotata di genio (in nessun campo) è sempre stato fuori discussione. Una sorta di amor proprio che si può confondere con la presunzione – lo so – ma che in fin dei conti non ha mai danneggiato nessuno se non me (in alcune occasioni) e mai troppo seriamente.

Anche solo per il fatto che ora sto scrivendo, il mio credo ha trovato soddisfazione. Scusate, non è cosa da poco e non è cosa ovvia. Ammiro le persone che sanno evolvere il proprio pensiero senza farsi sconti di sorta, mantenendo la pulizia interiore e la limpidezza della visione. Sono la mia ispirazione, guardare a loro mi rafforza la speranza. In cosa? Nella salvezza del Genere Umano.

Se lo guardo troppo da vicino non ci fa una gran bella figura, ma quando zoommo sulle persone giuste l’impennata di ottimismo è evidente. Sono convinta più che mai che noi siamo qui per evolvere la nostra anima e con questa prospettiva tutto sembra avere un senso, tutto sembra avere il suo posto. Cade la rabbia, cade la rogna, cade la voglia di mandare tutto al diavolo. Evolvere significa avvicinarsi al tiepido abbraccio della vita, senza soffermarsi in dettagli da nulla, senza discussioni, senza lamentele.

Al lavoro, ordunque!

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(414) Superpoteri

Ci sto pensando da tutto il giorno (come se non avessi di meglio o altro da fare, lo so) e ancora non mi so decidere. Qual è il superpotere che potrebbe risolvermi la vita? Quale? Quale? Quale?

Nella mia personalissima Top Ten i primi tre posti se lo sono aggiudicati:

1° Il teletrasporto

2° La telepatia

3° Schioccare le dita e far apparire denaro.

Non sono granché fantasiosa, lo ammetto, ma in tutta onestà il gioco non riguarda la creatività, ma la capacità di usare questi poteri per risolvermi la vita. Infatti, per ognuno dei tre ho un milione di situazioni diverse nelle quali usarli e questo mi rende parecchio creativa. Pure troppo.

Ora: dando per scontato che l’Essere Umano è del tutto incapace di valutare cosa sia la felicità e quale sia il tenore dei propri desideri, sospetto che questi tre superpoteri potrebbero anche distruggermi.

Va bene, sono disposta a correre il rischio. Aspetto pacco dal corriere, allora, è deciso.

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(413) Segni

I segni ci sono e li so leggere. Che io sappia cosa farne è tutto da vedere, ma intanto li vedo e li comprendo. Spesso basta solo aspettare e i segni diventano fatti, cose reali che si possono maneggiare meglio rispetto all’aria fritta di cui spesso mi occupo.

Ogni cosa lascia una traccia, evidente o meno, e sono quelle più leggere e dimesse che mi interessano perché hanno uno sviluppo, una trama, raccontano una storia. O anche più di una. Pensano che nessuno se ne accorga e quindi lavorano in pace, senza essere disturbate, e ricamano il proprio disegno. Ci sono cose che si raccontano molto bene da sé, altre che hanno bisogno di una traduzione. Ci sono cose che nell’omissione pensano di potersi nascondere, ma non è così perché i segni restano. Basta saperli captare.

L’amica che ti tradirà. L’uomo che ti ha già tradita. La collega che sta per tradirti. Una lista infinita di segni, che disegnano il tradimento e lui sta sotto qualsiasi segno di dolore. Ma anche la felicità lascia i suoi segni, magari sul viso di chi la sta provando o l’ha provata o si prepara speranzoso a provarla.

Niente è più importante del saper riconoscere e leggere i segni. Niente.

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(412) Uragano

Forse, in certi frangenti, lo sono stata. Distruttiva, intendo. Magari senza volerlo, soltanto per troppa vita. Boh. La questione è che ormai rifuggo gli uragani emotivi, proprio me ne guardo bene dall’esserne coinvolta.

Per certi versi è un peccato, è come perdersi un pezzo di vita, un pezzo di me. Per altri versi benedico questa mia scelta ogni giorno. Sono una dislocata mentale, ormai lo si è capito.

Virtualmente parlando l’uragano porta in sé potenza e furore, è ipnotico e devastante, ti dà il carico d’adrenalina e in certi periodi della mia esistenza ne avevo bisogno – anche come sorta di autopunizione o giù di lì. A pensarci ora, però, mi domando: ma cosa diavolo mi era preso? Perché mi sono messa in quella stramaledetta cosa? Pensavo forse di essere Wonder Woman?

Sì. O comunque non me ne fregava niente di essere devastata e portata via. Dato di fatto, poco felice ma vero. Mi sono anche chiesta per chi io sia stata un uragano, quanti danni io abbia fatto vivendo, quanti cocci mi sono lasciata alle spalle e se qualcuno ne è rimasto ferito. Facendo qualche calcolo: qualche volta. Non tantissime, ma alcune sì. Mi dispiace? In tutta sincerità, poco. Per un paio di queste proprio per nulla. Sono una brutta persona, lo so.

A mia discolpa posso dire che il mio essere emotivamente un uragano silente ha tratto in inganno anche me stessa, non me lo immaginavo di esserlo fino a poco tempo fa. Questo la dice lunga sulla mia presenza scenica nello spettacolo della mia vita, ma forse questo argomento lo affronterò in un altro dei miei Giorni Così e non ora.

Se l’uragano distrugge, aggiungo, la quiete può uccidere. Vorrei non morire di quiete, sarebbe un finale davvero deprimente. Un fallimento. A volte la vita non ti dà scelta, figuriamoci la morte. Eh.

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(411) Anticipare

Se riesci ad anticipare gli eventi, e guardando con attenzione il tuo presente certe cose le cogli per forza, riesci a non esserne travolta in modo irreparabile.

Ci credo totalmente, provato sulla mia pelle per anni. Questo è il consiglio che darei a chiunque: anticipa. Anticipa la tua mossa per bloccare sul nascere ciò che senti sta preparandosi pronto a schiantarti. Gioca d’anticipo.

D’accordo, non sempre è fattibile, non sempre è evidente, non sempre. Eppure se lo fai anche soltanto per la metà delle volte è già sufficiente, fidati. Non possiamo vivere con gli occhi imbottiti di prosciutto (me lo diceva una mia vecchia prof di educazione artistica) e pensare che ciò che non vediamo sia scomparso. Non si può e basta.

Incolpare sempre agli altri, fare appello alla crudeltà della vita e del mondo e del destino, è la forma più bassa di idiozia che possiamo mettere in pratica. Guardare, registrare i dettagli, riflettere su ciò che c’è e ciò che non c’è, svelare l’enigma e agire subito! Subito, santiddddddddio, subito!

Ci vogliamo dare una svegliata o no? Subito!

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(410) Divertimento

Rifuggo il divertimento, mi fa proprio schifo. L’idea che devo uscire per divertirmi mi mette addosso una tristezza che piuttosto mi seppellisco sotto il piumone e ci vediamo domani. 

Non ci posso fare niente, è così e basta. Ci ho provato per tutta la mia adolescenza e per tutta la mia giovinezza, ho provato con tutte le mie forze a divertirmi e non posso negare che a volte ci sono anche riuscita. Ma non come tutti i cristiani sanno fare, il mio divertirmi ha connotazioni strambe – quanto lo sono io – e anche segrete. Infatti non è mia intenzione dire di più, né ora né mai, in proposito. Però…

Stasera Mr. Big in concert! Cioé, voglio dire: i Mr. Big con Faster Pussycat live! Il concetto divertimento qui viene superato da tutto quello che si porta addosso questa band e la mia musica rock in generale, ed è tanto, tantissimo. E poi la scoperta di una band irlandese – The Answer – che m’ha fatto andare sulla loro pagina facebook a cliccare like e scrivere due cose… ma quanti anni ho?! Mah!

La riflessione circa l’età che avanza, il corpo che crolla e la testa che se ne va a remengo – lentamente e inesorabilmente – lascia il tempo che trova una volta che sposti il tuo punto di vista e ti vivi quello che vuoi viverti. La questione dell’essere troppo vecchia per fare qualcosa mi ha sempre toccato profondamente, ma quando voglio fare una cosa mica penso alla vecchiaia, penso che la voglio fare e basta. Valutato che poi non me ne sono mai pentita, direi che da oggi si archivia la faccenda e non ci si pensa più.

Rooooooooooooooooock ooooooooooooooooooooooon!!!

 

 

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(409) Pacemaker

Regolare il passo, è un concetto che mi affascina. Fossi capace di regolare il mio passo non mi troverei semprea altrove rispetto al passo che sto facendo. E no, non è una cosa che riesco a spiegare, è soltanto quello che è. Non ci posso fare niente, non riesco a stare al passo con me stessa. Amen. 

Però, regolare il passo sarebbe la soluzione a tutto. Non so da che parte si cominci, se qualcuno lo sapesse e me lo volesse far sapere mi farebbe un gran favore, ma la cosa importante, per ora, è rendermi conto che esiste una via e che questa via si chiama “regolare il passo” tradotto “pacemaker” (in inglese fa più figo, come al solito).

Regolare ha valore di “gestire”, cioé calibrare le energie, l’attenzione, le forze ecc. ecc. ed è sicuramente il modo giusto per fare le cose, soltanto che nel mio quotidiano le cose non seguono la programmazione, vanno come vogliono e senza criterio. Ho speso anni a cercare di domarle, nessun risultato. In questi ultimi mesi (più che altro per sfinimento) mi sono arresa: “Fa un po’ quel cazzo che te pare!” – per dirla alla Osho. E comunque le cose accadono, si sviluppano, crescono e si sistemano da sé. Anche senza il mio controllo, senza la mia programmazione, senza la mia resistenza alle catastrofi. Questa cosa mi sconvolge.

Dando per scontato che il controllo che ho sempre cercato di mantenere è totalmente ininfluente e rasenta il ridicolo, a questo punto una gestione del passo potrebbe essere quella santa via di mezzo che tanto aspettavo. Seppur forte di questa nuova presa di coscienza, però, sto sempre ferma sul: da dove si comincia?

Perché non è che fermo il mondo, sistemo il passo e poi lo rimetto in moto. Non credo sia una cosa alla mia portata. Quindi, ragionando, dovrei scoprire qual è il passo del mondo e adeguarmici. Non funziona, anche se mi ci mettessi di buona lena lo perderei dopo un nanosecondo, perché non è il mio. Cosa rimane da fare? Lo ignoro bellamente.

Le teorie stanno a mille  e la realtà se la ride, a mie spese ovviamente. Senza fare troppo la Will il coyote della situazione, vorrei comunque trovare il sistema più alla mia portata per regolamentare l’afflusso di sangue al cuore e al cervello (po’racci) perché ho come la sensazione che così non possa durare a lungo.

Forse un po’ me la tiro addosso, è sempre andata così e non vedo perché adesso dovrebbe essere diverso. Forse certe riflessioni fanno più male che bene. Forse preoccuparsi del fatto che non c’è una soluzione non è troppo intelligente. Forse non posso pretendere troppo da me. Forse è meglio che me ne vada a letto, la mancanza di sonno mi è deleteria.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               

 

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(408) Ostruzionismo

ostruzionismo /ostrutsjo’nizmo/ s. m. [der. di ostruzione, sul modello dell’ingl. obstructionism]. – 1. [azione con cui si tende volutamente e sistematicamente a ostacolare una determinata attività] ≈ boicottaggio, (non com.) ostruzione, sabotaggio. ↔ aiuto, appoggio, sostegno. ● Espressioni: fare (dell’)ostruzionismo [frapporre degli ostacoli allo svolgimento di un’attività] ≈ e ↔ [→ OSTACOLARE (2)]. 2. a. (polit.) [sistema usato dalle minoranze parlamentari per impedire o ritardare le deliberazioni della maggioranza, mediante l’uso dilatorio di tutti i mezzi consentiti dalle norme parlamentari] ≈ filibustering. ⇑ sabotaggio. b. (sport.) [nel calcio e nel rugby, manovra scorretta consistente nell’ostacolare intenzionalmente con il proprio corpo la corsa dell’avversario che sta per impossessarsi della palla] ≈ ostruzione.

Di solito non è palese, ma viscido e codardo. Sia per dinamiche che per chi lo mette in atto. L’ostruzionismo è una di quelle cose che mi fa imbestialire. Quando mi trovo davanti qualcuno che finge di essere di supporto e invece ti si oppone con mezzi vigliacchi, mi parte l’embolo.

Non pretendo fans che mi sorreggono mentre faccio stage diving, perlamordelcielo, ma dichiararsi a favore o contro guardandomi negli occhi – visto che non giro armata – è un dettaglio che mi fa differenza. Ti opponi? Bene, motivami la tua posizione che magari mi convinci e vengo dalla tua parte. Che problema c’è? Se ti nascondi dietro l’invidia verde e la competizione idiota, non vale. Davvero, ti sgamo subito. Mi vien proprio facile, credimi. Dichiarati per quello che senti, confrontiamoci apertamente, vedrai che in me non c’è niente da invidiare e non c’è nulla per cui competere. Fidati, so quello che dico, fidati.

Gli sgambetti, le pugnalate alle spalle, l’ironia sparata appena mi giro… che cose misere, che cervello triste, che risorse ridicole riesci a mettere in campo!

Se ti pensassi nemico da combattere, avresti già vinto. Non è che voglio vincere io, è che non c’è nulla da vincere. Non sto combattendo per superarti, ma per superare me stessa. Non sto dando l’anima per salire sulla pedana, ma per non vergognarmi per non aver fatto del mio meglio nel superare l’ostacolo. Non sto guardando te mentre avanzo, sto cercando di non inciampare sui miei stessi passi. Perché la strada è stata lunga e sono piuttosto stanca. Secondo te ho tempo da perdere? Energie da buttare? Fame di rivalsa? No. Bado ai miei passi, a farli meglio che posso. Non voglio cadere, tutto qui.

Vai pure avanti, vinci quello che pensi ci sia da vincere, e tienimi da parte una birra che quando arrivo sarò assetata. Vuoi?

 

 

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