(726) Altezza

Non è che soffro di vertigini, è che l’altezza – se la guardo dal basso – mi disorienta. Dall’alto la gestisco, dal basso no. Questo dà il quadro perfetto di come io sia fatta al contrario – e in un certo senso saperlo può essere pure rassicurante. 

Non ho mai pensato di dover scalare un’ipotetica montagna o un grattacielo per arrivare chissà dove nella vita. Non ci ho mai pensato ma in fin dei conti è quello che ho fatto. Non ho fatto altro che arrampicarmi, santidddio! Una sorta di freeclimber drogato di adrenalina. Presente. Ecco spiegato perché la questione del No Limits e degli sport estremi non mi tocca minimamente, già do e non mi serve altro.

Dall’alto si vede meglio, le cose si ridimensionano. Se plani sulle cose, queste non ti possono crollare addosso – e già qui ci metterei la firma. Quindi quello che faccio è un quotidiano esercizio per restare in quota. Non per essere sempre al top ma per evitare di perdere i punti di riferimento e ritrovarmi a girare a vuoto tra sensi unici, rotonde e incroci inverosimili. Ammetto che ci riesco abbastanza, mai perfettamente, ma abbastanza a lungo e con una certa costanza. Questione di allenamento, senza dubbio. E c’è anche un altro elemento da tenere in considerazione: bisogna non aver paura di cadere. Contando sbucciature e contusioni che mi hanno accompagnato negli ultimi quarantasei anni, cadere non è più una paura per me è una certezza. Io cado. Cado spesso. Cado anche frantumandomi, altroché, quindi lo do per scontato e anziché temerlo me lo aspetto. Quando non cado mi preoccupo: com’è possibile?!

Un paio di volte son precipitata mentre stavo davvero in alto – con l’umore intendo – e forse il mio ironico cinismo è nato per evitarmi la terza volta. Me ne sono bastate due, grazie, la terza me la posso risparmiare – so già quanto male fa.

Quindi, ricapitolando: meglio in alto che in basso. Si cade comunque, inutile procedere con paura, magari dei paraginocchia e un paracadute possono aiutare. Non so davvero se basti un po’ di filosofia e due attrezzi tecnici per affrontare i prossimi mesi, ma visto che non ho altro per le mani è così che procederò. Ci sono tante cose che spingono per entrare in gioco, chi sono io per vietare loro l’entrata? Eh.

Ai posteri l’ardua sentenza.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(417) Dopo

Dopo c’è il calo d’adrenalina, il crollo della resistenza, la lobotomia. Ti sembra quasi che non riuscirai mai più a pensare di nuovo. Ti domandi come potrai cavartela, ma non ti interessa la risposta. Vuoi solo fare armi e bagagli e andartene in Tibet dove nessuno ti conosce. Sette anni? Di più.

Dopo c’è il feedback, che è sempre un tasto dolente e andare in Tibet sembra sempre più una buona idea.

Dopo c’è la presa di coscienza che poteva andare anche peggio, che hai dato il meglio di te e che alla fine l’hai spuntata tu. Ancora una volta. Non sono salti di gioia, perché la gioia è un’altra cosa, ma è sollievo. E il sollievo può essere una cosa ancora più rara e preziosa della gioia. Almeno in certi casi. Almeno in questo mio caso.

Dopo gli applausi e dopo che le luci si sono spente, ti aspetti un po’ di riposo. Nel senso che lo avevi proprio programmato, che è tuo per diritto, e lo sai tu  e lo sanno tutti, ma la notte dormi poco e male e al mattino inzia il nuovo giorno.

Dopo pensi che ne valeva la pena, dopo pensi che ne valeva la pena, dopo pensi che ne valeva la pena.

Allora ti accorgi che hai ricominciato a pensare e anche se non ti sai ancora spiegare come te la caverai, almeno saluti i tuoi due neuroni con una pacca amichevole perché sempre da lì devi ricominciare. Sempre da te.

Qui o in Tibet non fa differenza. Sette anni o mille, neppure. Rassegnati.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF