(972) Sfidare

… la Sorte. Si dice così, no? Più che altro sfidiamo noi stessi, chi ci crede alla Sorte? 

Già alzandoci dal letto al mattino ci mettiamo in gioco, sfidando noi stessi ad arrivare a fine giornata interi. Chi e cosa incontreremo durante le ore seguenti non è così importante, la cosa che conta è che abbiamo intenzione di arrivarci a sera e arrivarci intatti. Con questo stato d’animo affrontiamo quel che arriva e che il cielo ci aiuti!

Tirarsi indietro, alzarsi e passivamente andare incontro alla Sorte ci fa sentire deboli e sconfitti, anche se non lo siamo. In realtà non lo siamo. Forse pensarci così ci aiuta a sopportare meglio i colpi? Non lo so, sentirci vittime inermi non è un bel sentire e a fine giornata non è che sei granché soddisfatto di essere sopravvissuto, lo dai per scontato: non hai reagito, non hai agito, non hai deciso, non hai fatto nient’altro che trascinarti e renderti invisibile così che la Sorte non si accanisse contro di te.

Non è che se alzi la testa sfidi la Sorte chiedendole di darti i colpi ancora più forte tanto tu non crolli. Sfidi le tue paure, i tuoi mostri, più che altro. “Nun te temo” (alla romana) lo dici alla parte di te che vorrebbe scomparire per non dover affrontare tutto quello che comunque accadrà appena sbuchi fuori e ti interfacci con il mondo. Accadrà comunque. Anche se non vuoi. Nonostante te.

Come andrà? Lo sapremo soltanto a sera fatta, quando tireremo le somme. E essere arrivati a fine giornata può essere una vera vittoria se sfidando ogni atomo oscuro che ci portiamo dentro siamo riusciti a sorridere, a dare un abbraccio a chi se lo meritava, a metterci la passione che abbiamo in un progetto, a combinare in generale qualcosa di bello. 

Le sfide ci servono per dimostrarci che ci siamo e che contiamo. Perché essere vivi non è cosa da poco e un applauso, ogni tanto, ce lo meritiamo. 

Clap clap clap.

 

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(885) Subire

subire v. tr. [dal lat. subire, der. di ire “andare”, col pref. sub– “sotto”, propr. “andare sotto” e quindi “sopportare”] (io subisco, tu subisci, ecc.). – 1. a. [ricevere una cosa non voluta né gradita, anche assol.: s. un torto] ≈ patire, soffrire. ↓ (fam.) incassare, sopportare, tollerare. b. [accettare senza reagire] ≈ (fam.) digerire, (fam.) mandare giù, (fam.) sorbire, tollerare. 2. [dover far fronte a qualcosa di spiacevole: s. un interrogatorio] ≈ affrontare, sostenere. ↔ evitare, fuggire, rifuggire, schivare.

Già solo leggere il significato del verbo subire mi fa ribollire il sangue. La nostra esistenza è una lista pressocché infinita di cose che dobbiamo mandare giù, con cui dobbiamo avere a che fare nostro malgrado, che non possiamo schivare e non possiamo risolvere. Frustrazione a mille e voglia di spaccare tutto.

Eccoci qui. Tutti d’accordo. Spacchiamo tutto.

Andiamo oltre però. Quando subisci significa che sei convinto, dentro di te, di non essere nel posto giusto. Torto o ragione? Torto. Ti senti dalla parte del torto. Ti pensi in difetto, ti vedi debole, ti credi non degno. Subire è arrendersi. Ti arrendi all’evidenza che tu non puoi o tu non sei o tu non hai o tu non vali/meriti niente. Sbang.

La normale sopportazione, la normale tolleranza, la normale sofferenza, nessuno ce le toglie. Son quelle e basta. Quando si va oltre, però, non va bene più. Ci sono mille modi per non arrivare a quel “oltre” che ti impallina senza scampo, bisogna solo farci attenzione in tempo. Far andare oltre le cose significa subire. Rassegnarsi al non-fare, non-dire, non-pensare, non-agire, non-credere, non-sperare. Morire.

Si muore un po’ dentro. Pezzo per pezzo si spengono le lucine e rimaniamo al buio. Al buio ci si sente ancora più piccoli, vulnerabili, fragili, miserabili. No?

Diventa importante captare i segnali e fermare la valanga prima che il normale si stroppi, direi vitale. Nessuno può farlo al nostro posto. Sappiamo noi quanto è normale quello che stiamo sopportando e quanto è troppo. E quando è troppo, se rimaniamo lì senza dire-fare-pensare-lettera-testamento, manchiamo di coraggio. Non abbiamo scuse. Siamo noi a decidere. Ogni sacrosanto minuto della nostra maledetta/benedetta esistenza. Che ci piaccia oppure no.

Ma forse l’ho già detto. Ho idea che sto andando in loop. Perdono.

 

 

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(843) Standard

La intendiamo come normalità. Una cosa, una situazione, una persona ordinaria. Già sai come inizia e già sai come finisce, quindi? Sciallo. Nel positivo come nel negativo, beninteso, perché è comunque una cosa che ci ha visti già passare, ci ha già preso le misure, e che intende replichersi così come è sua natura fare. Amen.
 
S’è capito che gli standard mi terrorizzano? No, perché sono davvero terrorizzanti, vero?
 
Viscidamente ti mettono in una situazione dove abbassi la guardia. Ti poni di fronte a uno standard con una certa remissività, abbassi la testa in un certo senso. Lui ti saluta con un famigliare “ehi, amico!” e tu rispondi con un rassegnato “ah, ciao”. Non ti permetti alcuna enfasi, lo riconosci – certo – ma preferisci essere cauto, non ti fidi. Ma cauto mica significa che già non sei entrato nel tunnel del so-già-cosa-mi-aspetta-fanculo-speriamo-stavolta-di-non-lasciarci-le-penne, anzi, te lo stai già arredando il tunnel. E tu lo sai, perché gli standard solitamente hanno un lungo iter. Richiedono tempo.
 
Vabbé, non voglio dire che stare sempre allertati ci fa vivere bene, ma il punto è che gli standard NON sono innocui. Sembrano! Solo lo sembrano, ma non lo sono!
 
Si tende a dimenticarlo perché hanno una forma rassicurante, quel già-visto-che-sta-bene-su-tutto (tipo il tubino nero di Audrey Hepburn, che però se lo indossa lei è elegante e se lo indosso io diventa inguardabile – il tubino, mica io! Eh… certo certo).
 
Ora, non lo sto dicendo per seminare il panico, ma voglio creare nei loro confronti una sorta di clima di sospetto, voglio incentivare nei loro confronti uno sguardo critico, un atteggiamento combattivo o comunque di sfida. Sì, sfidiamo gli standard! Facciamogli vedere di che pasta siamo fatti, noi che dagli standard ci siamo sempre presi le porte in faccia. Regoliamoci di conseguenza una volta per tutte: “Di chi porte in faccia ferisce, di porte in faccia perisce”, recita l’adagio. Quindi avanti tutta, senza scrupoli!
 
Io non odio nessuno, ma gli standard proprio non li sopporto. Proprio.
 
S’era capito?
 
 
 
 
 
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(730) Occhiali

Ultimamente mi sono dimenticata di indossare gli occhiali rosa. Esistono solo nella mia testa, ma mi sono stati utili in diversi frangenti, soprattutto quando il sole era troppo o il freddo era troppo o lo schifo era troppo. Il troppo vestito di rosa viene smorzato e si trasforma in sopportabile. Gioco scemo eppure efficace.

Sopportare significa che non ti va bene, ma proprio non ti va bene, però ti rendi conto che lo devi attraversare e che devi trovare un modo decente per farlo. Son passata di troppo in troppo e non ho avuto il tempo di cercarli, quei dannati occhiali rosa, li avevo appoggiati chissà dove e me li ero dimenticati quasi del tutto. Fino a oggi.

Oggi mi sono resa conto che ne avevo bisogno. Il troppo di questi ultimi tempi non è stato nulla di tragico, nulla di devastante, ma il troppo rimane troppo. E c’è bisogno di fermarsi, c’è bisogno di riflettere, c’è bisogno di smorzare l’intensità perché gli occhi sono stanchi.

Ho un talento per la sopportazione, ma non è affatto una caratteristica positiva. Ammiro chi non sopporta e reagisce in modo da non subire  situazioni che sono oggettivamente intollerabili – per diversi motivi. Io penso sempre che, prima di reagire con decisione, devo arrivare al punto che il troppo sia colmo. E ci arrivo, altroché se ci arrivo, ma ci arrivo sfinita. Ecco, vorrei riuscire a fare diversamente. Mi spingo sempre oltre ogni limite e poi crollo e stacco.

Gli occhiali rosa oggi li ho indossati per guardare tutto quello che in un anno ho attraversato e quanto la mia sopportazione abbia creato e bruciato dentro e fuori di me. Sono rimasta allibita. Ho fatto diventare quel troppo enorme e ho sopportato innanzitutto quella me che attraversava il troppo esagerato come se fosse parte del pacchetto all-inclusive. Evviva. No, davvero, sono veramente troppo avanti. Un genio.

Dovrò sforzarmi d’ora in poi di essere meno genio o camperò ancora poco. Dovrò sforzarmi di avere una voce più decisa, anche quando la voce mi mancherà del tutto. Dovrò sforzarmi di crescere, molto probabilmente. Non mi piace pensare che dovrò forzarmi a fare diversamente, ma naturale non mi viene di certo pertanto sarà bene che io mi ci metta d’impegno. Sì, è arrivato il momento di ripensare al come di ogni mio silenzio per fissarlo con pesi differenti. Ho attraversato un onorevole numero di troppo, mi posso pure accontentare di un abbastanza e sopportare il giusto e darmi pace il giusto lasciando andare il giusto.

I toni accesi mi hanno sempre dato noia, dopotutto. Meno genio e più concretezza, perdio!!!

 

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(670) Quotidiani

Il quotidiano non è una passeggiata. Non intendo soltanto il mio, quello di tutti. Come siamo riusciti a complicarci l’esistenza in questo modo lo sa solo il Cielo – e forse pure lui s’è perso qualche pezzo qua e là. Ci rendiamo conto a malapena del tempo scandito dai nostri orologi con le ore che si intrecciano perché ci si sposta spesso e ci si sposta in fretta e ci si sposta sovrappensiero. Siamo sempre sovrappensiero, il corpo qui o lì e la mente sempre un po’ più in là. Dove non lo sa bene neppure lei, ma non si dà pace.

Le notizie che escono sui quotidiani sono come petardi che ti scoppiano in testa, non hanno mai effetti benefici, piuttosto provocano piccoli danni che una volta sommati ti sbattono giù a terra. Non riesco ad assorbire una tale valanga di informazioni e far finta di niente. Scelgo gli articoli che sono scritti meglio, dalle penne capaci di muoversi tra realtà e pensiero costruttivo. Non sono molte, ma quelle poche sanno dare sollievo.

Perché nella baraonda dei crucci quotidiani un po’ di sollievo ci è dovuto, parliamoci chiaro. Anche a sapere nei dettagli le motivazioni per cui il mondo sta andando a scatafascio come sembra, non è che ti vien voglia di salvarlo donandogli tutto te stesso, ma soltanto di alzare le spalle e girarti dall’altra parte. Perché? Perché è tutto troppo. Troppo, troppo, troppotroppotroppooooooo. Davvero troppo. 

Come fa il mio cervello a sopportare tutto questo troppo? Si estranea, se ne va, si fa giri interstellari per respirare un po’ meglio. Il ritorno è sempre obbligato e di malavoglia, si va in apnea e poi si riparte. Quando tutto è troppo non sai neppure da che parte prenderlo il problema, non hai mani abbastanza grandi, non hai braccia abbastanza forti, non hai pensieri abbastanza strutturati per farlo. Il troppo non ha limiti, noi sì.

Quindi scelgo quel tanto che basta a non trasformarmi in un alieno in visita sulla Terra, quel tanto che basta per non farmi asciugare ogni grammo di energia rimasta. Sì, perché il quotidiano non è mica una passeggiata. Per nessuno, neppure per me.

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(662) Tolleranza

tollerare v. tr. [dal lat. tolerare, affine a tollĕre “levare”] (io tòllero, ecc.). – 1. a. [mostrare pazienza e rassegnazione di fronte a fatti o situazioni spiacevoli: t. un’ingiustizia] ≈ accettare, (fam.) mandare giù, (fam.) sciropparsi, sopportare, (non com.) sorbettare. ↑ arrendersi (a), cedere (a), rassegnarsi (a), subire. ‖ consentire, permettere. ↔ insorgere (contro), opporsi (a), reagire (a), respingere, ribellarsi (a), rifiutare. b. [con riferimento a persona, accettare a malincuore la sua presenza] ≈ (fam.) mandare giù, reggere, (fam.) sciropparsi, sopportare. ↔ apprezzare, gradire. c. [considerare con indulgenza punti di vista, comportamenti e sim. diversi dai propri] ≈ accettare, accogliere, ammettere, comprendere. ↔ contrastare, opporsi (a), respingere, rifiutare. d. [non essere contrario all’uso di qualcosa e sim.: t. l’uso di droghe] ≈ ammettere, autorizzare, consentire, permettere. ↔ interdire, proibire, punire, vietare. 2. (estens.) [mostrare una buona resistenza a disagi fisici o materiali: t. il caldo] ≈ reggere, resistere (a), sopportare. ↔ patire, soffrire. 3. (estens.) [considerare la possibilità di uno scarto da quanto precedentemente fissato: t. un piccolo ritardo] ≈ ammettere, consentire. ↑ (fam.) chiudere un occhio (su), passare sopra (a). ‖ giustificare, scusare. [⍈ CAPIRE]

Tollerare è un verbo che non mi convince. In certe occasioni lo trovo appena inevitabile, ma quando si tratta di “mandare giù” o di “sopportare” credo sia pericoloso. Se ti imponi di accettare, non è accoglienza, è un countdown che finisce nello sbrocco – quello brutto per di più. Diventi una pentola a pressione e il risultato è già scritto.

In più di un’occasione ho abbracciato la tecnica della tolleranza e non è mai finita bene. Non so fingere, neppure per mio tornaconto. Se una cosa non mi va giù, non mi va giù e basta. Metti anche il caso che mi sia infognata nelle ragioni sbagliate, non migliora la situazione se ingoio il rospo e faccio buon viso a cattivo gioco. Rimando soltanto il momento della verità. Il che è peggio perché nel frattempo ho covato malessere.

Detto questo: ci sono delle cose o delle persone che sanno essere profondamente fastidiose e andarci a patti è un diavolo di casino. Appurato ciò bisogna trovare il modo di sistemare le proprie posizioni senza dover per forza rinunciare alle nostre sacrosante ragioni. Quando si tratta di cose viene più facile, con le persone ci sono complicazioni e conseguenze a non finire. Con le persone bisogna tirar fuori risorse che ci costano fatica: comprensione, empatia, accoglienza. Grande fatica.

Non è mai, credo, una lotta contro l’altro, ma una lotta contro il fastidio che un comportamento o un’abitudine o un’indole ci scatenano. Il fatto che siamo comunque diversi, anche quando siamo fin troppo simili, non facilita di certo le cose. Eppure, sono sempre più convinta che tollerare il fastidio sia una certezza di rissa futura. Ci dobbiamo appellare, dunque, al concetto di tolleranza zero? Eh, mi viene da ridere. E se togliessimo come concetto quello proprio di tolleranza e lo sostituissimo con quello relativo a compromesso?

compromesso² s. m. [dal lat. compromissum]. – 1. (giur.) [accordo con cui le parti si impegnano a stipulare un futuro contratto, spec. di compravendita] ≈ (accordo) preliminare. 2. (estens.) a. [accordo in cui ciascuna delle parti rinuncia a qualcosa: venire, arrivare a un c.] ≈ accomodamento, transazione. b. [rinuncia ai propri principi: una vita di compromessi] ≈ cedimento, ripiego. 3. (fig.) [fusione di elementi diversi: un c. tra il vecchio e il nuovo] ≈ ibrido, (fam.) via di mezzo.

Sì, mi rendo conto ci siano dei rischi pure in questo caso, ma le cose possono cambiare, le persone raramente lo fanno… si aggiustano o si guastano del tutto, ma diverse non potranno mai esserlo. Esattamente come non potremmo essere noi diversi da noi stessi. Sarebbe buttarsi in braccio all’insanità mentale, no?

Ogni volta che ho pensato di poter tollerare senza esplicitare il mio malessere in proposito l’ho fatto per non ferire qualcuno o per non far scoppiare una situazione che già stava in bilico. Ho pensato che prendendomene il peso avrei evitato lo scatafascio, mi sbagliavo. Mi sono procurata ferite brutte in nome di una tolleranza forzata, ho buttato giù muri a suon di testate e potevo evitarmelo se non mi fossi data all’accettazione scellerata.

Il compromesso, quello buono, quello efficace, quello giusto, tiene conto di ogni parte in causa. Si preoccupa di distribuire il fastidio affinché non risulti insopportabile per nessuno. Impone delle regole che avvicinano alla convivenza e non allontanano gli animi facendoli rodere nel silenzio. In fin dei conti, siamo fatti per vivere uno accanto all’altro, non ci sono abbastanza picchi sull’Himalaya per accoglierci come eremiti… facciamocene una ragione.

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(541) Topico

Arriva il momento in cui sei chiamato all’azione: il momento topico. Raramente il momento dura un momento, molto più spesso si tratta di giorni o settimane o mesi o anni, ma sempre di periodo topico si tratta. Te lo senti dentro, nelle ossa scricchiolanti, nel sangue reumatico, nelle sinapsi stressate, che non puoi far finta di nulla. 

Un tempo pensavo – che patetica ingenua! – che quel topic-moment si potesse verificare un paio di volte nella vita (se eri fortunato, se eri sfigato qualche volta in più), mai avrei immaginato – patetica ingenua dell’ostrega! – che fosse stato per me programmato un dannatissimo loop capace di accompagnarmi forever

No, non starò qui a lamentarmi perché non serve a nulla, ma faccio solo presente che ancora non me ne so capacitare. Voglio dire: ma siamo matti?! Quanti momenti topici un cuore può sopportare? Eh? Quanti? No, non voglio sentire la risposta, era una domanda retorica santiddddio!

Dovrebbe esserci un limite dettato da Madre Natura o da Dio in persona. Qualcosa che somigliasse a un salvavita del cavolo, appena raggiungi il limite… tac, scatta e te la sfanghi. Perché se non ti uccide il fattore topico, ti uccide l’ansia. Quella non ti passa. Non è che si prende una vacanza solo perché ci tiene alla tua salute, no. L’ansia rimane lì. Anzi, l’ansia è lì per sopravvivere a te stessa. Il suo compito preciso e di osservarti mentre ti disintegri e ridere di te. L’ansia, capito?

Ok, chiarito questo concetto, credo, temo, prevedo con assoluta certezza che sto per entrare nell’ennesimo momento topico. Non so dire quanto durerà, so solo che l’ansia è già qui, mi sta guardando sorniona e vincerà. Sì, lei vincerà perché lei vince sempre.

Addio.

 

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(418) Q.B.

La giusta misura: quanto basta. Se stai cucinando ti serve a puntare l’attenzione sulla tua capacità di sentire il sapore dei cibi. Non troppo sale e non troppo poco, tanto per fare un esempio. Significa che non ti devi affidare alle quantità che altri hanno deciso, devi fare da te e, personalmente, lo trovo bellissimo.

Allenarsi al quanto basta nel gestire la nostra vita è un percorso affascinante, non tutti se la sentono di affrontarlo e la maggior parte delle persone va da un eccesso all’altro sbattendo contro i propri limiti e i propri tormenti, eppure…

Il quanto basta ti fa stare all’erta. Devi domandarti “Basterà?”, ogni tre per due e la cosa può essere stressante se la prendi dal verso sbagliato. Viverlo come un allenamento per migliorare la qualità della nostra esistenza, invece, ci porta a raggiungere uno stato di benessere che ha un reale e concreto valore aggiunto rispetto a tutti gli eccessi di cui possiamo cadere vittime.

Non si tratta di morigeratezza, ma di tarare bene la nostra soglia del ok-va-bene-così, né più né meno. Così va bene. Pensiamoci, quante volte ci fermiamo al così-va-bene? Quasi mai. Siamo ingordi (fino a diventare disumani) e siamo gonfi di tutto: cibo, comodità, possibilità. Gonfi come manco abbiamo il coraggio di ammettere. Farci stare nel range del quanto basta è come bastonarci, dirci che non siamo liberi di… di cosa? Di fare cosa? Di strafare. Di stradire. Di stra-qualsiasi-cosa-ci-passi-per-la-testa. Essere strafatti di questo o di quello è diventato normale.

La mia intera esistenza è stata un allenamento al quanto basta, dall’educazione ricevuta in casa alle vicende che ho dovuto attraversare per arrivare a oggi, e mi rendo conto sempre di più che sono fatta di questo. Quel quanto basta è metà del mio DNA.

Sopporto quel quanto basta prima di mandare tutto al diavolo, per esempio. Sembra una cosa da poco, ma non lo è. Se non arrivo al q.b. tengo duro. Ci arrivo e agisco. Non prima, non dopo. La soglia del q.b. mi impone un certo rigore.

Mi do da fare il q.b. che ritengo giusto per me, se è troppo – e spesso lo è – mi rendo conto che devo stroppiare per ridimensionare il tutto e cambiare tutto. Quindi il q.b. è un riferimento fondamentale, non sempre immediatamente raggiungibile, ma aggiustabile sì, sempre. Una volta revisionato le proporzioni, le misure, si modella la situazione e le cose vanno a posto.

Q.B. non è aria fritta, è la vera libertà.

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(166) Libri

Ho libri sparsi ovunque in casa perché in cantina l’umidità me li rovina. Averli sparsi per casa all’inizio mi infastidiva, dopo mesi che subivo quel fastidio ho tentato di staccarmene. Dal fastidio, intendo. Pensavo di esserci riuscita, ma ora che sto sistemando la cantina m’è presa una cosa allo stomaco che non si può capire.

Non vedo l’ora di riaverli tutti ordinati con santo criterio e vedermeli lì al sicuro. Mi fa stare male saperli accatastati alla bell’è meglio (solo perché non ho spazio a sufficienza per sistemarli come vorrei). Non l’ho superato per nulla il fastidio, mi sono presa in giro per sopportarlo meglio, tutto qui.

Ho capito questo e ho fatto una scansione veloce alla mia vita: quanti altri fastidi mi sono detta di aver superato soltanto per sopportarli meglio? La risposta, del tutto sommaria, mi ha sconvolto.

Urge azione decisa e definitiva.

 

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