(366) Arrovellarsi

Sembra che io non faccia altro che arrovellarmi sulle mille problematiche esistenziali che mi coinvolgono, e forse è proprio così. Non lo faccio apposta, mi ci trovo infilata dentro e non capisco come. Addirittura con coerente continuità! Com’è possibile?

Credo che a un certo punto la cosa mi abbia preso la mano e via. Come se fosse stato chiesto a me, a me!, di venirne a capo. Come se fosse stato chiesto a me, a me!, di trovare una soluzione. Come se fosse stato chiesto a me, sempre a me!, di salvare il mondo. Eh no! Nessuno mi ha mai chiesto nulla. Faccio tutto in autonomia. Me la canto e me la suono, one-woman-band. Una vera idiota.

La possibilità di godermi la vita con leggerezza, in fondo in fondo, mi fa schifo. Mi sembra una perdita di tempo. Mi sembra sia un buttare un’occasione che non tornerà più. Una vera idiota, confermo.

La giustificazione che nessuno me lo ha insegnato pertanto non so come si fa non regge. Poteva essere valida quando ero giovane, ma come ho imparato a stare davanti a un microfono senza che nessuno me lo insegnasse posso anche imparare a non dannarmi l’esistenza. Non sarà mica così diverso! Solo che non mi ci sono mai messa, non l’ho mai considerato come un ostacolo alla mia felicità, ho dato per scontato che fosse così e pace. Invece no. Raramente così e pace riguarda me e certamente non in questo caso, quindi dovrò arrovellarmi sul fatto che non ho mai pensato fosse importante pensarci. Vie d’uscita non ne vedo, ma su questo non voglio ancora arrovellarmici su.

Magari domani.

 

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(365) Trecentosessantacinque

365: i *Giorni Così* che ho scritto, i giorni che ho vissuto, i giorni che sono passati da quel 28 settembre 2016 in cui ho voluto iniziare questa piccola cosa senza senso. Fa impressione, no?

Devo ammettere che non è la prima cosa senza senso che ho fatto, e che le precedenti son durate parecchio, però questa ha un elemento che la rende inaccessibile a qualsiasi altro genio volesse farmi concorrenza: è completamente e assolutamente inutile. Non solo: non viene minimamente pubblicizzata né da me né da alcuno. Provate a fare di meglio se ci riuscite!

La confessione scoop che oggi voglio offrire a chi si fermasse qui per festeggiare è che *Giorni Così* è il mio egoistico modo per tenere traccia di me. Lo faccio già sul cartaceo, è vero, ma lì le cose diventano più psicoanalisi da lettino: dico cosa ho fatto durante la giornata, dico cosa mi ha fatto girare le palle, dico cosa mi propongo di fare il giorno seguente. Una noia da guinness dei primati. Invece, qui sul diario virtuale, mi impongo di parlare d’altro. Parlare di tutto quello di cui di solito non voglio parlare perché mi sembra che sia ovvio, visto che lo penso.

Ho scoperto che quello che penso non è ovvio neppure per me stessa. Una scoperta sconvolgente e nel contempo affascinante, ve lo assicuro. Significa che finché non lo scrivo non so che lo sto pensando. Il che la dice lunga sulla mia presenza mentale in questa dimensione terrestre, ma anche su un altro aspetto della mia persona che viene spesso giudicata malamente.

Mi spiego: quando parto per la tangente e mi infervoro su un concetto, la gente spesso si infastidisce, o si spaventa, perché pensa che io mi voglia mettere in cattedra per fare lezione. Ergo, la gente mi pensa una presuntuosa-a-tratti-arrogante che crede di avere la verità in mano e vuole imporla al resto del mondo. Non dico che non sia così, perlamordelcielo, dico solo che ragionando ad alta voce il pensiero prende una forma che riesco a vedere, che riesco a riconoscere, che riesco a tenere in mano per rigirarmelo per bene e capire un po’ di più. Più trovo davanti a me contrapposizione di veduta e più il pensiero è stimolato a farsi solido, a farsi specifico, a farsi spesso anche ingombrante. E io capisco meglio. Da lì inizio un percorso a ritroso, molto intimo, in cui mi faccio domande pungenti e imbarazzanti (Perché la pensi così? Perché t’incazzi così? Perché parli troppo? E via dicendo… ) e vengo a capo un po’ del mistero che sono.

Ecco, questa cosa qui non ho mai avuto la possibilità di dirla a nessuno. Nessuno me l’ha mai chiesto e nessuno ha mai pensato che al di là di ciò che si vede e si sente può esserci una me piuttosto diversa. Piuttosto in bilico, piuttosto in ricerca, piuttosto vulnerabile. E non è che sia così importante che nessuno se lo chieda, diventa invece di vitale importanza per me perché io ho il dovere di chiedermelo e di non scappare davanti alla risposta. Le risposte che riproducono la realtà delle cose, fanno risultare il mistero che sono meno mostruoso. Più umano. Non per gli altri, no, ma per me stessa sì.

Buon primo anniversario *Giorni Così*!!!

 

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(364) Vigilia

Lo stato d’animo che mi prende a ogni vigilia non ha niente di esaltante. Penso immeditamente a come sarà il dopo festeggiamento e a quanto vorrei avere già scollinato. Lo so, sono una guastafeste.

Penso che una cosa è bella se dura poco, forse perché mi stanco facilmente, quindi se ci fosse il modo di passare subito ai festeggiamenti senza attraversare la vigilia sarebbe perfetto. Viene benissimo quando me ne dimentico di brutto e al mattino appena sveglia qualcosa o qualcuno mi ricorda che è ora di festeggiare: l’entusiasmo mi sale a 1000 e sono pronta a fare bagordi. Carpe Diem.

In poche parole vorrei già essere a domani, quando festeggerò (penso proprio che lo farò da sola, ma che importa!) ben 1 anno dall’apertura di questo diario virtuale che ho chiamato *Giorni Così* appunto per non creare troppa aspettativa – so essere astuta se mi ci metto.

Di questo parlerò domani – accidenti! – oggi voglio dilungarmi ancora un po’ sul fatto che le vigilie, secondo me, siano state create apposta per rovinare la festa. Ti prepari a festeggiare, in poche parole ti scappa di festeggiare un po’ prima e così quando arriva la festa sei già stanco e ti prende la malinconia. Una cosa del genere può essere giustificata solo in caso di forzato Natale, dove la malinconia fa scempio di te già dal 1° dicembre e ti molla soltanto dopo la Befana quindi la vigilia è soltanto un pretesto per mangiare tortellini in brodo in vista dell’ingozzamento selvaggio del pranzo-merenda-cena-dopocena natalizio.

In tutti gli altri casi, la vigilia non è una buona idea. Mi propongo, pertanto, di ignorarla totalmente il prossimo anno, e se sarà proprio necessario fingerò di non accorgermi che il tempo passa veloce-lento-veloce-lento dribblando ogni mio tentativo di controllo e lasciandomi in balìa di me stessa e della mia idiosincrasia per le vigilie.

Meno 5

Meno 4

Meno 3

Meno 2

… 1

 

 

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(363) Jolly

“A questo punto mi giocherei il Jolly”, un’affermazione che non ho mai potuto utilizzare, ma che mi è rimasta lì in memoria e di cui non riesco a disfarmi.

Per giocarsi un Jolly, ovviamente, bisognerebbe avercelo. Ho pensato di averne parecchi di Jolly da giocarmi in tutti questi anni, ma una volta buttati sul tavolo si sono rivelati un bluff. Cioè, tanto per far capire il tenore della beffa: un auto-bluff.

Che non si tratta più di sfiorare il ridicolo, ma di attraversarlo alla velocità dell’Enterprise tanto per capirci. E non indenni, voglio sottolineare.

In poche parole, ho voluto così tanto poter giocarmi un Jolly che me ne sono inventati mille – totalmente fake – pur di crogiolarmi nell’idea che al momento opportuno li avrei sfoderati per… vincere. Sì, vincere. Perché io voglio vincere. Vincere in modo onesto, s’intende, ma vincere. Non mi piace la via di mezzo, neppure arrivare ultima. Mi piace vincere. Ma non basta. Bastasse questo, a cosa servirebbero i Jolly? Ci sarebbe una rivolta di Jolly se si scoprisse che non servono a una cippa. Triste giorno per i Jolly, per noi un po’ meno. Per me sarebbe una festa.

Fatto sta che non ne ho. Non ne ho e non so dove andarli a comprare. Non ne ho e non potrò mai dire “Mi gioco il Jolly”. Non ne ho e non potrò mai dare una complice e soddisfatta pacca sulla spalla al mio Jolly e andare a festeggiare in birreria con lui, come una vera squadra, la vittoria. Credo non ci sia nulla di più mortificante.

Scusate, ma ora vado a piangere in privato.

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(362) Eludere

Col tempo ho imparato. L’Arte di Schivare è qualcosa che prima lo fai diventare bagaglio di conoscenza personale e meglio è. Non semplice da padroneggiare, bisogna dirlo, ci vogliono anni e anni di allenamento, ma la vita ti offre un milione di opportunità all’ora e anche a volerne pigliare una decina al giorno alla fine ce la si fa.

Senza mani e senza sensi di colpa, siòre e siòri!

Ammetto che disfarmi dei sensi di colpa non è stato automatico, sono pur sempre una brava bambina cresciuta negli anni 70-80 in solida terra friulana – dove dal prete al barista, tutti son pronti a dirti come gestire la tua coscienza. Proprio per questo sono piuttosto fiera di me stessa per aver saputo barcamenarmi tra abissi e colpi di coda e aver avuto la meglio.

Chi si appropria dell’Arte di Schivare, sa tenere a bada tutti coloro i quali si siano specializzati nell’Arte di Sfinire il prossimo – che consiste nel giocare sul senso di colpa per farti fare esattamente quello che vogliono loro. Questi sono individui senza scrupoli e senza pudore, travestiti in modo sopraffino per mimetizzarsi perfettamente e inserirsi in ogni anfratto della tua vita – e se li lasci fare anche della tua anima. Ricordiamoci che nessuno è immuno allo sfinimento. Nessuno.

Eppure, se eludi il rischio di sfinimento puoi dirti salvo. Non dal TIR che potrebbe centrarti in pieno giorno in ogni momento (e lo sappiamo bene per esperienza diretta, ormai), ma dalla manipolazione subdola di chi usa occhi da gatto gordo per manovrarti come se fossi un burattino.

Vade Retro!

 

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(361) W.T.F.

Cosa diavolo mi sta succedendo? Me lo chiedo da un paio di mesi, ancora non l’ho scoperto. Mi domando anche se succede soltanto a me di guardarmi e non ritrovarmi. Robe da farmi cadere le braccia. Potrei far partire un sondaggio social.

Sto valutando la questione delle mutazioni, quei processi che una volta attraversati ti rendono pianeta nuovo. Nuovo, non come novità, ma come cosa che fa capo a ben poco su quel c’era prima. Non s’inventa nulla di questi tempi, va bene, ma ci si ritrova in situazioni dove è cambiato tutto nonostante non sia cambiato niente. Una mutazione silenziosa, sotterranea, ma non oscura e perversa, anzi: illuminante e di disarmante logica.

Ecco, ancora non sono arrivata alla fase illuminante, forse per questo la domanda mi resta fatalmente in sospeso, ma voglio pensare che prima o poi la luce arriverà. Nel frattempo sono stordita, scontenta, scoordinata. In doppia curva da esse, appunto. Tanto per dire: mi sono accorta che le mie parole piene possono venire svuotate in mezzo nanosecondo da chiunque senza che io sia in grado di impedirlo. Oppure, mi sono resa conto che vivere con il freno a mano tirato è stato il leit-motiv della mia esistenza e che la cosa non è destinata a finire. O ancora: ho capito che il mio scollamento pensiero-realtà non è affatto sano perché si è trasformato in una tomba per la mia squilibrata sensibilità.

Tutto questo ha ribaltato il mio oggi senza garanzie che il mio domani possa farci i conti senza sacrificare una certa dose di amor proprio. Sentimento di cui sono già e da tempo in forte scarsità e di cui dovrei fare economia.

Cosa diavolo mi sta succedendo? Forse sto solo invecchiando. Precocemente.

 

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(360) Dormire

Dormire ti fa staccare dal corpo, che nel frattempo si rigenera, e ti concede un volo altrove. Adoravo dormire da adolescente. Ora meno. Ricordo sogni bellissimi, a colori e gioiosi, di me bambina in una 500 rosa a guidare tra le nuvole… un secolo e mezzo fa, ormai.

Dormire, per me ora, significa crollare esausta, fare incubi orrendi, svegliarmi con il mal di testa, la schiena dolorante e la voglia di morire. Non sto scherzando. Se rimango nel mio corpo, in veglia, posso procedere senza grossi problemi per 72 ore filate senza sentire nulla. Appena me ne stacco è finita, il rientro è sempre traumatico. Cosa nasconde ‘sta cosa non lo so, so che non mi piace. Sa di premorte e non mi piace. E non voglio pensarci adesso.

Detto questo sono in credito di secoli di buon sonno e non so a chi presentare il conto. Forse potrei farmi ibernare per due mesi e vedere che effetto fa, ma risvegliarmi nelle condizioni della star Instagram del momento non è un’ambizione che nutro. Non c’è soluzione, sembra.

Vabbé, buonanotte.

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(359) Serratura

Non mi è mai piaciuto guardare attraverso il buco della serratura, forse perché già quello che vedo normalmente mi basta. Tutto quello che mi sfugge lo intuisco, lo immagino, lo fantastico. Mi viene molto meglio, la realtà spiata spesso è deludente.

C’è anche la questione del pudore, che sembra una brutta parola al giorno d’oggi eppure fa parte di me in modo consistente e non me la sento di rinnegarlo. Mi troverei snaturata, brutta brutta sensazione. Il pudore mi impedisce di ficcare il naso nell’intimità delle persone. Le mie domande si fermano ben prima del limite consentito, preferisco ricevere una confidenza che forzare la mano e invadere territori privati. Violare le persone non è contemplato nel mio DNA.

Va da sé che tendo a fidarmi. Voglio dire che non indago, non mi infogno in pensieri sospettosi a meno che non mi si renda evidente la menzogna. Quindi affronto la situazione e chiarisco. Non guardo senza essere guardata, è un gioco vigliacco che non mi diverte.

Tutto questo fa di me una persona con poco appeal, me ne rendo conto, ma me ne frego bellamente. Il rovescio della medaglia è: se vengo spiata, e me ne accorgo, si salvi chi può.

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(358) Q.I.

Non ho mai fatto il test per paura. Scoprirmi Essere Microcefalo mi disturberebbe. Andrebbe a falciare quei pochi grammi di fiducia in me stessa che nei decenni sono riuscita ad accumulare.

Mi rendo conto che per certi versi il calcolo del quoziente intellettivo può rivelarsi utile, resto comunque perplessa sulle modalità di valutazione. Considerando che l’intelligenza è suddivisa in settori, bisognerebbe avere più Q.I. per una analisi accurata. Non lo farò il test, quindi il problema non sussiste.

Mi dispiace pensare, però, che a causa di un test qualcuno rischia di vedersi precludere strade interessanti, per studi o professioni, e di trovarsi obbligato a mortificanti aggiustamenti di ambizioni o sogni che potrebbero rovinarci la vita.

Capisco tutto, capisco anche che non ci fa bene illuderci di essere a 100 quando arriviamo a malapena a 25, ma credo che la vita te lo faccia capire prima o poi e che non servano precise misurazioni dei propri limiti per darsi una regolata.

Non lo so, lo trovo addirittura crudele.

Abbasso il Q.I.!!!

 

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(357) Break

Il momento più creativo della giornata è il break. Che per me, fino a poco tempo fa, il break era cosa agile, del tipo: mi prendo una mug di caffè/tè davanti al monitor e cazzeggio per dieci minuti. Ho scoperto che questo non è – tecnicamente parlando – un vero break, è un lavorare sciallo tra due porzioni di hardworking a testa bassa.

Una vera rivoluzione. Non sto scherzando. Ora devo impegnarmi a gestire i dieci minuti di break inventandomi trucchi geniali per non inchiodarmi al monitor mentre sorseggio una qualsiasi bevanda, sgranocchiando mandorle o alimenti molto meno sani.

Mi costa una fatica non indifferente perché va al di là della mia concezione di pausa, come se il mio cervello venisse espulso nello spazio intergalattico con l’obbligo di non pensare a quello che un secondo prima lo aveva fagocitato e in cui è destinato a immergersi di nuovo, soltanto dopo una manciata di minuti. Mi gira la testa.

Quando lavori con le idee, impari presto che sono le idee a gestire te e non viceversa. Non ti si presentano citofonando, si infilano in spazi che tu manco avevi previsto e ti colpiscono con la mazza chiodata sempre a sorpresa. O sei pronta o sei pronta. Buona alla prima o adieu.

Devo imparare a gestirmi il concetto di break, magari riesco ad addomesticarlo e renderlo meno invadente. Magari dovrei venirne a patti. Magari dovrei fargli capire che i miei neuroni a forza di viaggi intergalattici potrebbero decidere di non tornare alla base e allora sì, Houston, che avremmo un bel problema. Capito?

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(356) Punte

Vivere in punta di piedi, non è un bel vivere. Hai paura di fare troppo rumore, paura di rompere qualcosa, paura che qualcuno potrebbe notarti e infastidirsi per la tua presenza. Paura che qualcuno potrebbe accorgersi che sei di troppo, che lì non sei desiderata.

Significa non respirare bene, restare sempre un po’ a metà. Significa mettersi da parte quando capti che qualcuno se n’è accorto, che ci sei e che occupi uno spazio intendo. Significa sentirsi dire che sei ingombrante, che hai manie di protagonismo, che sei in cerca di lusinghe e di clamori, anche quando vorresti che ti si aprisse una voragine sotto i piedi per inghiottirti.

Però. Vivere in punta di piedi ti permette di sollevarti un po’, quel tanto che basta da cogliere il vento nuovo che profuma diverso. Vivere in punta di piedi ti fa resistere al risucchio della forza di gravità, la terra non la calpesti, ti posi più leggera che puoi e non lasci tracce indelebili. Vivere in punta di piedi ti rende silenziosa, nel silenzio puoi ascoltare, puoi imparare, puoi crescere.

Le punte su cui traballo sono ormai consumate. Mi fanno male le dita, le gambe non reggono più il peso. Credo sia tempo di poggiare i piedi a terra, dalle punte ai talloni, e sperare che la terra sopporti i miei chili di troppo. Non so come andrà, so che è stata una scuola dura, quella del vivere in punta di piedi, e che sono abbastanza stanca e adulta da appendere le paure al chiodo. E che la musica continui!

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(355) Candore

L’ho perso tanto tanto tanto tempo fa. Me ne rammaricavo perché mi pareva di essermi imbruttita a suon di cinismo e disillusioni. Addirittura covavo rancore nei confronti della vita che me lo aveva frantumato senza tante cerimonie, privandomi dell’ultima caratteristica bambina di cui mi potevo vantare.

Pensavo anche che fosse quel candore che mi permetteva di amare, amare incondizionatamente, senza risparmiarmi, senza calcoli, senza vie di mezzo, senza dubbi, senza bisogno di assicurazioni, senza chiedere niente in cambio e senza aspettarmi niente in cambio. Lo pensavo talmente che non ho più dato peso all’amore, facendolo – molto probabilmente – scappare via a gambe levate.

Il candore che mi permetteva di approcciare un altro Essere Umano con la convinzione che quell’Essere Umano fosse per forza speciale soltanto per il fatto che esistesse, credevo fosse la cosa più preziosa che potessi donare al mio prossimo. Una volta perso, anzi, una volta disintegratosi a forza di colpi letali è andato per sempre. Non c’è via di ritorno. Sei solo più opaca, più spenta, quasi un po’ morta.

Ho vissuto così gli ultimi 20 anni della mia vita, rimpiangendo il candore che mai più riavrò. E oggi, proprio oggi, mi sono risvegliata dal delirio e penso che sono proprio un’autentica idiota. Quel candore, in realtà, non lo rivoglio più – e non lo dico per ripicca, ma sul serio – perché mi sarebbe d’impiccio, dovrei continuamente raccattare il mio cuore frantumato e non avrei tempo per nient’altro. Quel candore se n’è andato per un buon motivo e, anche se poteva trovare un modo meno doloroso per farlo, imparare forzatamente a vivere senza di lui è stato vitale. Infatti sono viva. La cosa mi consola parecchio, ma resto pur sempre una imperitura idiota.

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(354) Ingranaggio

L’ingranaggio è quella cosa che se si incastra per bene fa funzionare la macchina (qualsiasi macchinario funzioni con ingranaggi, s’intende). Un metodo geniale che ti permette di far andare un qualsiasi mezzo che usi per creare qualcosa. L’uomo lo ha inventato per facilitarsi il lavoro e quando l’ingranaggio lavora per te e lavora bene tu sei più felice.

L’ingranaggio per far sì che non ti lasci a piedi deve essere oggetto di continua manutenzione. Se è sporco, se è liso o obsoleto si blocca o si spacca e tu sei fregato.

Se facessimo più attenzione agli ingranaggi e rendessimo loro grazie perché esistono e esistono per noi, molto probabilmente le cose funzionerebbero per bene e noi saremmo più felici.

Ci sono milioni di ingranaggi che si prodigano per noi – moltissimi racchiusi nel nostro corpo e nella nostra mente – e in silenzio lavorano sodo senza mai smettere e lavorano malgrado tutto, anche se noi non ce ne accorgiamo o e anche quando noi non vogliamo (sì lo fanno). La cosa affascinante è che sono il fulcro di tutta la nostra forza, il nostro potere risiede in loro e loro possono – quando ne hanno davvero fin sopra le orecchie – bloccarsi, fondersi, disintegrarsi e smettere di funzionare. Così di botto. Senza nessuna spiegazione. Senza chiedere il permesso e senza chiedere scusa. Smettono di andare e basta.

Considerata questa possibilità agghiacciante, c’è da dire che molto spesso ci lanciano dei segnali che ci dovrebbero mettere in allarme, ma la maggior parte delle volte noi facciamo finta di niente. Finta di niente oggi e finta di niente domani, lasciamo andare a remengo le cose pensando che ci vada sempre liscia fino a che ci fermiamo e basta.

Questo errore lo fanno tutti e continuamente, anche quando hanno già sperimentato la drammatica situazione in cui ci si ferma e basta e hanno già avuto fortuna a pacchi a potersi rimettere in moto.

Ecco, io ci ricasco continuamente, ma spero che questa volta sia l’ultima per un pezzo. Speriamo.

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(353) Scacchi

strategia /strate’dʒia/ s. f. [dal gr. stratēgía (lat. strategĭa) – 1. (milit.) a. [individuazione degli obiettivi di una guerra e dei mezzi per conseguire la vittoria: s. terrestre, aerea] ≈ Ⓖ piano. b. [impostazione e condotta delle operazioni belliche da parte di un comandante, di un esercito: la s. romana nella seconda guerra punica] ↔ tattica. 2. (estens.) a. [individuazione degli obiettivi generali di qualsiasi settore di attività pubbliche e private, nonché i modi e i mezzi più opportuni per raggiungerli: s. politica; s. di sviluppo] ≈ piano, progetto, programma. b. [modo accorto di agire per raggiungere un fine: se vuoi conquistare quel ragazzo, devi cambiare s.] ≈ linea, tattica.

Non so giocare a scacchi e mi dispiace. Mi dispiace perché sono convinta che sia un’attività mentale sopraffina. Non so giocare a scacchi perché non mi ci sono mai dedicata, non li ho mai preso in considerazione, ho sempre pensato che non facessero per me.

Fino a oggi credevo che ci volesse un quoziente intellettivo piuttosto alto per giocarci e ben consapevole dei miei limiti ho archiviato la cosa come non adatta. Mi sono accorta ora, però, forse perché sono un po’ stordita dall’antidolorifico per una lombosciatalgia fulminante, che forse c’è sotto un’altra cosa, ovvero: non sono una brava stratega. Intendo dire, che di mia natura non sono portata alla strategia d’assalto. Non ci sono portata, non è cosa da me. Questo è il punto cruciale su cui la mia vita ha inciampato, continuamente.

Non sto dicendo che tutti lo debbano essere – strateghi sopraffini – sto solo dicendo che ogni volta che c’è bisogno d’esserlo io devo impormelo e iniziare a elucubrare selvaggiamente, senza scrupoli, determinata e implacabile. Quindi vado in modalità stress e la mia schiena si blocca. Non mi sorregge più, esausta si arrende e io crollo.

Mi domando: basta saperlo o urge costruire ciò che manca per sorreggere tutto il resto? I don’t know. Magnus Carlsen aiutami tu!

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(352) Fotografia

Catturi un istante e lui rimane lì per farsi ricordare. E si fa ricordare non con un’interpretazione del tuo sguardo o con una variazione sul tema, no: esattamente così come tu lo hai guardato, amato, e saputo congelare nella tua mente.

Ho mille istanti che avrei voluto fotografare della mia infanzia, ma non l’ho fatto e mi si sono congelati dentro e non mi permettono di lasciarli andare perché se lo facessero io li dimenticherei.

E la mia mente è stanca di questo carico, che è prezioso ma per niente leggero. Certe volte spero di dimenticare, altre ho paura di dimenticare e allora scrivo. Ma le parole – per quanto siano contenitore ed espansione e immersione e volo e chissà cos’altro ancora – non sono un’immagine pura, sono un piccolo mostriciattolo in movimento che può manomettere il ricordo e renderlo opaco o sfocato o distorto. Un incubo si può trasformare in sogno e un sogno in un’ossessione da incubo e tu comunque non sapresti più da che parte sta la verità.

In una fotografia la verità è lì davanti a te, immobile e pura. Tutto lì. Tutto quello che stavi vedendo e che hai voluto catturare sta lì di nuovo davanti a te, per tutte le volte che lo desideri ti ci puoi infilare dentro e trovarci un rifugio che ha il tuo sapore. Non servono parole, basta che la guardi ancora e ancora e ancora e ti si calma lo stomaco, si placa la chiacchiera della mente e il cuore un po’ rallenta e un po’ rincorre i suoi stessi battiti cercando di doppiarli, forse con una certa dose di dolore, ma di quelli diluiti, come acquerelli.

Non lo so il perché, ma così sembra meno crudele. Sembra solo un po’ meno crudele e, spesso, questo ci basta. Ci può bastare. Almeno per un po’.

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(351) Lime

Perfetto per un mojito, una caipiroska alla fragola, una caipirinha, un cuba libre o un margarita: il lime. Che non è un limone, altrimenti non lo si chiamerebbe lime. Qui sta il punto: chiamare le cose con il nome giusto le diversifica.

Ci serve diversificare perché ci permette di notare le differenze e di procedere con le scelte che ci sembrano più opportune per noi stessi.

Non so quando questa cosa sia diventata sinonimo di demonizzare ciò che è diverso da quello che scelgo per me stesso perché lo ritengo o inferiore o sbagliato. Non lo so. Mi verrebbero in mente un paio di situazioni storiche e almeno un centinaio di declinazioni ripetute nei secoli, ma non credo sia importante.

Quello che è importante è che in una cotoletta alla milanese ci trovi una fettina di limone da spruzzarci sopra e non un lime. Questo perché è più adatto, è meno aspro – o che ne so io il perché – fatto sta che lo si preferisce al lime o all’arancia (tanto per allargare l’esempio). Così è, e nessuno si mette lì a pontificare o si scaglia contro la cotoletta perché non sceglie mai di sposarsi con il lime. E il lime stesso non se ne cura, a lui che gli frega se può sbronzarsi quando cavolo gli pare senza renderne conto a nessuno? Eh!

Dove voglio andare a parare con questa elucubrazione senza senso? Niente, che mi farei volentieri mezza tinozza di mojito. Ora. Grazie.

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(350) Composizione

Quando sistemo le mie giornate ci tengo a disporle con un certo garbo. Non mi piace fare le cose in modo caotico, creare una sorta di composizione che, anche se estrosa e poco convenzionale, risulti pur sempre gradevole, mi è indispensabile.

Questa predisposizione mi causa uno stress incredibile perché vengo infastidita fortemente da tutte le distonie che incontro. Far finta di niente peggiora la situazione. Non ho scampo.

Non do la colpa a nessuno, il mondo non è tenuto a risparmiarmi i fastidi solo perché sono fatta come sono fatta, ma comunque rimane lo stress e il fastidio e rimango io che sono fatta così e amen.

Detto questo, quando la composizione si compie, quella giusta intendo, dove l’armonia la fa da padrona, allora sono particolarmente soddisfatta di me e di tutta l’energia che ci metto per riuscirci. Non mi capita così di rado come si potrebbe pensare perché il mondo è pieno zeppo di istanti di pura bellezza e incanto. Credo che un intento del genere, anche nelle sue giornate fallimentari, sia pur sempre portatore sano di gioia.

Il segreto sta nella composizione, lo ribadisco.

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(349) Telecomando

Ci sono delle cose che mi fanno incazzare e basta. Succedono e mi incazzo. Non ho neppure voglia di rifletterci, discuterne, confrontarmi, rivalutare… no. Mi incazzo e basta. Gelidamente e furiosamente.

Al top della classifica c’è la mancanza di rispetto. Sembra un topic vago, ma non lo è. Lo definirei vasto e fantasioso perché può essere declinato in un fantastiliardo di modi diversi e ognuno di questi può prendere svariate sfumature e forme e dimensioni e intensità tali da non riuscire a nominarle tutte.

Il trattare le persone come se fossero un programma TV che quando ti stufa cambi pigiando un tasto del telecomando, per esempio, è tra le tante modalità quella più sfacciata, insolente, irritante e diosolosachecosaltro.

Succede continuamente, è diventata la colonna portante dei rapporti umani in questo incasinato secolo. Tu stai lì e parli di qualcosa che non viene ritenuto interessante e vieni bruscamente interrotto per parlare d’altro. Magari qualcosa di cui non te ne frega nulla, o di cui ignori totalmente l’esistenza, eppure… a domanda risponde.

E giri come una trottola cercando di sintonizzarti sul canale giusto, quello capace di mantenere sveglia l’attenzione del proprietario di quello stramaledetto telecomando, perennemente insoddisfatto e stronzo patentato. Come se tu fossi lì per intrattenerlo amabilmente, per distrarlo da se stesso quel tanto che basta da fargli pensare che con te non sta perdendo tempo.

No, non va bene, non va affatto bene. Se ti aspetti intrattenimento, paga a me il canone.

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(348) Ricetta

La ricetta più è precisa e più è garanzia di buon risultato. L’aspetto che prediligo di una ricetta è che si basa sul principio del funziona/non funziona. Se la segui pedissequamente funziona, se la aggiusti comprometti tutto e molto probabilmente non funzionerà.

C’è una terza opzione però: se te la studi per bene e inserisci delle varianti ben pesate e calibrate, potresti apportare quel cambiamento che la renderà migliore.

Se ci riesci non è mai per una botta di culo o per congiunzioni astrali favorevoli, ma perché hai agito conoscendo per bene la tecnica e hai osato aggiungere un pizzico di creatività per ottenere un miglioramento. Il risultato non mente: se hai fatto tutto per bene, funziona. Questo principio è applicabile a tutte le ricette, in ogni campo, a qualsiasi livello ti muovi. Piuttosto rassicurante, vero?

Spingendo un po’ oltre il ragionamento: se alla torta di mele sostituisco le mele con le banane, diventerà una torta alle banane e non una torta di mele 2.0. Giusto? Quindi ci sono delle varianti, chiamiamole sofisticate, che varcano i confini per trasformare il risultato finale in qualcos’altro – a volte addirittura in qualcosa di molto diverso dal risultato originale.

Allargando il discorso, penso che dovremmo scegliere le ricette che vanno eseguite alla lettera per farne le nostre fondamenta, quelle che possono essere migliorate per i nostri momenti di sperimentazione, e quelle che non hanno mai funzionato e non funzioneranno mai potremmo anche buttarle. 

La domanda cruciale è: le ricette che non hanno dato buoni risultati, le abbiamo eseguite fedelmente o alla cavolo? Ecco, da qui il discorso si riapre e ce ne sarebbe da discutere per giorni.

Buonanotte.

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(347) Vietato

Non ho mai pensato, neppure da adolescente, che tutto ciò che mi era vietato doveva essere per forza sfidato, superato e vinto. Forse perché c’erano poche cose vietate in famiglia, il resto lo si dava per scontato.

Tipo: non fumare. Non era un divieto categorico, in casa c’era chi fumava, ma si dava per scontato che almeno fino alla maggiore età io non potessi farlo. Non l’ho mai fatto, anche se ci ho provato, non mi è mai piaciuto. Fortunata.

La questione del vietato era una materia in continuo movimento, mano a mano che crescevo certe cose vietate si trasformavano in un “vabbé” e poi in un dato di fatto che le sdoganava quasi definitivamente e, quindi, me le potevo permettere. Tipo certe parolacce, o la quantità di gelato o Nutella da poter mangiare a merenda, e via di questo passo.

Crescendo in questo modo ho sempre valutato che se esiste un divieto un motivo  intelligente sotto c’è. Ingenua, certo, ma comunque questa fede mi ha sempre spinto a valutare in profondità ogni Vietato che mi si parava davanti.

La mia mente trovava le debolezze del ragionamento, ridimensionava la sostanza del veto e risistemava le cose in modo da farmele andare bene. Credo che crescere significhi proprio questo: imparare ad analizzare, soppesare, valutare e scegliere per se stessi.

La mia fortuna, però, sono certa che risieda all’origine – nelle prime righe di questo mio post: non mi sono mai sentita sfidata da un divieto. Non ho motivo per spingermi oltre soltanto perché un no si frappone tra me e qualcos’altro o qualcun’altro. Lo faccio, oso e vado oltre, solo per le cose in cui credo fermamente. In questo modo, la mia posizione diventa solida e motivata e ha buone possibilità di averla vinta. Credo che questa sia la mia fortuna.

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