(874) Fobie

Tutto quello che vogliamo è una piccola casa in cui rifugiarci. Vero? Poi quella casa la arrediamo come più ci piace, o semplicemente come siamo capaci, e ci rintaniamo per scampare al mondo che resta fuori. Che male c’è? 

Diventa claustrofobico il nostro rifugio quando pensiamo che tutto quello che ci abbiamo messo dentro ci possa bastare. Non è così. Il mondo là fuori, nel bene e nel male, ci è necessario per riempirci. Non di cose, di esperienze.

Tutto molto semplice detto così, vero? Sì, ma perché dovrebbe essere tanto più complicato? Perché abbiamo così paura a ridurre il carico per poterlo sostenere? Pensiamo che sia troppo per noi e lo guardiamo sconsolati. “Mi dispiace, ma non ce la faccio”, ci prostriamo davanti a quel mucchio di roba che manco sappiamo riconoscere più cos’è. Siamo costernati davanti all’abbondanza. 

Quando abbiamo meno siamo più focalizzati, vero? Less is more? Bah. Chi non ha niente potrebbe non essere dello stesso parere, suppongo. Fatto sta che rifiutando il mondo ci sentiamo rifiutati dal mondo. Un gioco perverso che non ci vede vincitori, ma sopravvissuti scontenti. Lamentosi. Rabbiosi. E dentro la nostra casa ci nutriamo di robaccia che attraversa l’etere per depositarsi nei nostri neuroni sfiniti. 

No, non siamo felici, neppure dentro il nostro rifugio. Non siamo felici quando camminiamo per strada, non siamo felici quando raggiungiamo il picco della montagna, non siamo felici quando attraversiamo gli oceani baciati dal cielo. Non siamo mai felici. Ci risvegliamo, di tanto in tanto, e sorridiamo. Sì, ma quella cosa che senti in mezzo al petto e che ti fa posare sul mondo come una farfalla, quella cosa lì è lontana, così lontana da non sapere più neppure come desiderarla.

Forse non ho capito niente.

Neppure di quello che ho scritto.

Eh.

 

 

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(352) Fotografia

Catturi un istante e lui rimane lì per farsi ricordare. E si fa ricordare non con un’interpretazione del tuo sguardo o con una variazione sul tema, no: esattamente così come tu lo hai guardato, amato, e saputo congelare nella tua mente.

Ho mille istanti che avrei voluto fotografare della mia infanzia, ma non l’ho fatto e mi si sono congelati dentro e non mi permettono di lasciarli andare perché se lo facessero io li dimenticherei.

E la mia mente è stanca di questo carico, che è prezioso ma per niente leggero. Certe volte spero di dimenticare, altre ho paura di dimenticare e allora scrivo. Ma le parole – per quanto siano contenitore ed espansione e immersione e volo e chissà cos’altro ancora – non sono un’immagine pura, sono un piccolo mostriciattolo in movimento che può manomettere il ricordo e renderlo opaco o sfocato o distorto. Un incubo si può trasformare in sogno e un sogno in un’ossessione da incubo e tu comunque non sapresti più da che parte sta la verità.

In una fotografia la verità è lì davanti a te, immobile e pura. Tutto lì. Tutto quello che stavi vedendo e che hai voluto catturare sta lì di nuovo davanti a te, per tutte le volte che lo desideri ti ci puoi infilare dentro e trovarci un rifugio che ha il tuo sapore. Non servono parole, basta che la guardi ancora e ancora e ancora e ti si calma lo stomaco, si placa la chiacchiera della mente e il cuore un po’ rallenta e un po’ rincorre i suoi stessi battiti cercando di doppiarli, forse con una certa dose di dolore, ma di quelli diluiti, come acquerelli.

Non lo so il perché, ma così sembra meno crudele. Sembra solo un po’ meno crudele e, spesso, questo ci basta. Ci può bastare. Almeno per un po’.

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