(907) Femminile

Un viaggio affascinante quello che ti fa attraversare le età del femminile. Mentre le percorri non te ne accorgi, ma se le guardi alle tue spalle ricomponi un quadro di te interessante.

Non è che mentre cresci ti rendi conto del perché di certe scelte e del come le stai portando avanti, lo fai perché sull’onda della ricerca (tu che ti stai cercando, tu che ancora non sai chi sei) agisci d’istinto oppure scegli per gusto o – quando sei davvero fortunata – nutri la tua visione. La visione che hai di te e che vuoi che si compia.

E mentre lo fai, mentre ti nutri e cambi e cresci e impari e ti riaggiusti, lo fa anche il tuo femminile. Quella vena d’oro che non esiste soltanto perché sei un Essere Umano e sei viva, ma perché sei un Essere Umano Femmina e sei dannatamente viva.

La cosa che ti rende potente – se sei davvero fortunata – è scoprire che non ci sono regole imposte dalla società che possono fermarti. Tu puoi andare oltre. Non ci sono legami che ti possono bloccare. Tu puoi andare oltre. Non ci sono tabù che ti possono schiacciare. Tu puoi andare oltre. E quando impari ad andare oltre non c’è niente che ti possa rendere schiava. Tu sei oltre.

Se sei davvero fortunata lo impari in tempo. Se sei davvero fortunata riesci ad applicarlo alla tua esistenza e a raccogliere i buoni frutti. Se sei davvero fortunata comprendi che quelle scelte e quelle fatiche e quelle ribellioni e quelle cadute e quelle ferite e quelle maledizioni che hai superato, non erano finalizzate alla distruzione bensì alla costruzione.

Se sei davvero fortunata a un certo punto riuscirai a guardarti e a sorriderti perché sai benissimo come poteva finire e sai che ancora non è finita ma che finirà bene. Sei nel pieno della tua femminilità e hai imparato ad andare oltre.

Sono davvero fortunata.

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(734) Rugiada

Ho dovuto imparare a scrollarmi la rugiada di dosso al mattino presto perché il lavoro lo devi andare a incontrare e non ti viene a svegliare a letto come faceva la mamma quando andavi a scuola. Sono un animale notturno, una civetta direi, e questo fa di me lo strazio che sono: comincio a carburare leeeeeeeeeeeentamente e non andrei mai a dormire perché durante le ore tarde il mio cervello – quando non troppo devastato dalla giornata – inizia a funzionare alla grande.

Il mattino, un tempo, lo detestavo. Dovevo alzarmi per fare quello che odiavo fare. L’indolenza adolescenziale me la sono lasciata alle spalle, ma mi è comunque ostico il pensiero che la sveglia puntata alle 6.00 sta suonando e io non posso far finta di niente. Dentro di me l’imperitura lotta fra il chissenefrega e il fai-il-tuo-dovere è sempre cruenta come allora. Stoicamente mi alzo, stoicamente mi butto in doccia, stoicamente arrivo all’auto e affronto la solita coda in tangenziale. Tutto peeeeerfetto.

Mentre percorro gli oltre 30 chilometri per recarmi in ufficio butto lo sguardo sui prati e sul ciglio della strada e quella rugiada che luccica pare un po’ la mia, quella che mi sgocciola dentro. Alla fine sono uguale a un filo d’erba. Considerazione illuminante, vero?

Senza crogiolarmi troppo in quest’ultima immagine, faccio presente che comunque preferirei essere a Bali e godermi il paradiso terrestre, che comunque penso che il mio mattino non abbia l’oro in bocca ma a malapena un ettolitro di caffè da ingurgitare, che comunque ‘sta cosa del viviamo di giorno e dormiamo di notte dovrebbe essere un’opzione e non un’imposizione, che comunque avrei preferito fare la rockstar che qualsiasi altro lavoro al mondo… ma.

Ma il mio cervello in parallelo pensa già a come affrontare ogni punto della lunga lista di cose da fare, a come risolvere quel tal problema, a che idea aggiungere alla presentazione che sto lavorando e via di questo passo. Il mio cervello, la parte che funziona e che non si piange addosso, si formatta autonomamente per permettermi di funzionare – nonostante tutto, nonostante me – fino a notte inoltrata quando appoggio la testa sul cuscino e mi arrendo all’oblio.

Il mio cervello asciuga la rugiada senza neppure il bisogno di un fòn. E io dovrei essergliene grata. Molto anche.

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(497) Oro

Mantenere la tua posizione quando senti che è giusta, vale oro. Fare un passo indietro quando ti accorgi che ti sei sbagliato, vale oro. 

Guardare negli occhi chi ti sta di fronte mentre affermi il tuo essere libero, vale oro. Fermarti e riconoscere che stai abusando della tua libertà per mortificare quella di chi ti sta di fronte, vale oro.

Ma quale oro? Non quello che si gratta dalle viscere della Terra, quello vale poco, non quanto le vite di chi consuma i suoi giorni affondato laggiù. L’oro è quel filo che ci percorre dai piedi alla testa e che ci tiene su, ci sorregge. Non si mescola al sangue, non lo puoi confondere con nient’altro. Lo vedi brillare in superficie in un bimbo che sbatte i pugnetti sul pavimento quando piomba giù al suo primo passo. Una bella culata, parata dal pannolone, non fa altro che rinvigorire il bagliore. Tempo due secondi ed è in piedi, quel nuovo tentativo non vale oro, è oro.

Mi sconvolge vedere che qualcuno lo ignora, che c’è chi non prende in considerazione quel filo d’oro che lo attraversa. Mi chiedo il perché. Forse non lo vede? Forse lo vuole negare? Forse pensa di averlo perso?

Se sto su, se sono in piedi, è per quel filo d’oro che sorregge ogni osso del mio corpo. Quel filo è sottile, sta facendo una fatica della miseria, ma ancora non si spezza. Sono sbalordita dalla sua forza. Riconoscerla ora, con la stanchezza che è sparsa ovunque, vale oro. Questa volta il mio.

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