(947) Anestetico

A un certo punto si inizia a capire che c’è bisogno di anestetizzarci un po’ per le cose che ci portano scompensi. Soprattutto emotivi, che sono i più fastidiosi perché non colpiscono mai un punto soltanto, ma si propagano fin dove neppure li vedi e son cazzi a sistemare tutto. Quindi, in età pre-adolescenziale inizi ad alzare le spalle, poi impari a farlo con più discrezione distogliendo l’attenzione e pensando ai fatti tuoi e poi chiudi proprio la porta appena ti accorgi che lo scompenso si sta per presentare sulla soglia.

L’anestetico funziona, ci permette di sopravvivere. Ha, come ogni farmaco, anche effetti collaterali obbligatori. Anche brutti. Uno fra tutti è che senti di meno. Senti tutto di meno. 

Perché ti anestetizzi ma non è una puntura che fai nel punto che decidi tu, lo spargi dentro di te random e da qualche parte andrà. E lui va. Va dappertutto. Significa che il tuo corpo ogni volta dovrebbe disintossicarsi per ritornare quello di prima, ma una volta che sai come attivare la procedura di addormentamento dei sensi perdi il controllo, la usi a sproposito e non te ne liberi più. L’anestetico sparso ovunque fa il suo mestiere: anestetizza. Ogni parte di te che incontra. Senza pregiudizi, senza cattiveria. Prende quello che c’è e potrebbe prendersi tutto. 

Piano piano, ovviamente, e puoi anche non accorgertene. Piano piano, ma in modo sistematico e senza ritorno. A meno che non succeda qualcosa di veramente traumatico che ti risveglia. Una disintossicazione violenta, diciamo. 

La vecchia abitudine non muore però e, appena puoi, ritorni all’uso smodato. E non sentire è brutto, non sentire niente dev’essere davvero brutto. Quell’inferno consolatorio di chi ha abbracciato l’indifferenza come filosofia e ha giurato di farla pagare a tutti. Chi c’è c’è. 

Evviva.

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(918) Stato

Quando mi prende lo sconforto me lo domando: Babs, in che stato sei? 

Domanda retorica, ma salvifica. Mi permette di focalizzarmi sull’autocommiserazione come punto estremo dei miei bassi e da lì non si può fare altro che risalire. Con fatica, ma si risale.

Non farsi la domanda, molto probabilmente, non ti fa scendere dove non vorresti andare, ma allo stesso tempo ti toglie la possibilità di non finirci inconsapevolmente e vivere là in fondo per tanto tanto tanto tempo. 

Mi è stato chiesto ieri, ma era più che altro una constatazione fatta da una persona che stimo molto quindi le sue parole le prendo in seria considerazione: sei sempre incazzata? 

Ehmmmmmmmmmmm…

No, sì, non proprio, boh. 

Fondamentalmente non sono una che vive incazzata, ma credo di esserlo stata un po’ troppo negli ultimi anni. Più capisco e più mi incazzo. Lo so, non dovrebbe essere così, ma l’inverso. Per le persone sagge immagino funzioni al contrario: più capiscono e più se la mettono via. Smettono di incazzarsi e affrontano le cose con un certo distacco. 

Ahahahah. Distacco. Io? Mi dispiace non è contemplato nel mio genoma e il mio connettoma si è settato di conseguenza. Eh.

La stessa persona di cui sopra ha concluso così: no, forse tu sei solo una ribelle. E già lì mi ci sono ritrovata di più, meglio. Dal mio punto di vista se ti incazzi significa che ci tieni. Quando smetti di incazzarti è la fine, c’è il distacco. L’indifferenza. Ecco, io mi ribello all’indifferenza. La trovo disumana.

Quindi, rileggendo il tutto, mi piacerebbe che questo mio modo di prendere le cose non venisse letto come sfogo di un’isterica, ma come attaccamento alle cose umane. Mi interessa tanto la salute dell’Anima Umana. Tanto. E non so il perché, non me lo chiedo neppure il perché. Sento solo che bisogna farci caso, bisogna starci sotto, bisogna tenerci. Davvero. 

Passare sopra alla mediocrità come se fosse di default una parte di noi è da pusillanimi. Da perdenti. 

Girarsi dall’altra parte quando l’invidia, la cattiveria, la violenza si esplicita è disumano. Non ha niente a che fare con noi, con il nostro Cuore, con la nostra Anima. Niente proprio. Ce la raccontiamo perché non vogliamo rogne. Ma ce la stiamo comunque raccontando male perché mortifichiamo la nostra parte bella. Quella che non fa casino, magari, ma che non vede l’ora di esplicitarsi. Non sgomita, e forse sarebbe il caso lo facesse, ma è un attimo tirarla fuori e far stare bene tutti. Noi e gli altri.

In che stato sei Babs? In quello che non accetta la rassegnazione come politica, l’indietreggiare come opzione, il nascondersi come strategia. Se vi sembro incazzata, allora va bene. Se volete andare un po’ oltre, però, sarebbe meglio, perché dentro di voi risuonate come me, soltanto che non ve lo confessate. Pensate di non potervelo permettere. Non è così. Altrimenti sareste morti. E ancora non lo siete. Ricordatevelo: ancora non lo siete.

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(659) Pavone

C’è solo il pavone che può permettersi di fare il pavone. Primo perché lo è, e nessuno lo può confutare, e secondo perché è bellissimo e anche questo è inconfutabile. Chiuso il discorso.

Parliamo di cosa dovremmo fare davanti a chi pavone non è ma lo fa. Tu stai lì e lo guardi sfoggiare una miserevole boria e ti vien voglia di dargli una testata. Non lo fai. Un po’ perché il mal di testa conseguente te lo vuoi evitare, un po’ perché la violenza se puoi te la risparmi. Ma ti rimane la voglia, quello sì.

I vanagloriosi sono un popolo vasto, vastissimo. Un vero e proprio ammasso di decerebrati che fa sfoggio di tutto quello che non possiede: intelligenza, sensibilità, eleganza, stile. Questi gap incolmabili sono enormi buchi neri che si palesano a chiunque sia dotato di un minimo di decenza, pudore, buongusto (oltre che intelligenza, sensibilità, eleganza e stile), e lo spettacolo è impressionante. Non ci si può credere di quanto sia profonda la pochezza d’animo di questi campioni di ben poca umanità. 

Trovare un modo efficace per far chiudere loro la coda una volta per tutte ed evitare in contemporanea la violenza fisica, secondo me, non è umanamente possibile. Non la capiscono che sono fuori luogo, che sono disgustosi, che sono dei cialtroni senza sostanza, che sono tenuti per decoro a starsene zitti. Non la capiscono. Non possono. Averne compassione, forse, è la strada. Ma per riuscirci bisognerebbe essere evoluti, io non lo sono. Io mi fermo alle mani che prudono e alla voglia di mollargli una testata sul naso. Mi fermo lì, al pensiero. Ma non perché sono buona, soltanto perché non voglio sprecare energie preziose. Mi ritraggo per mancanza di coraggio? O per pigrizia? O per indifferenza per le sorti del genere umano? Non lo so. 

Non sono indifferente, in realtà, forse sono soltanto stanca di fare la Don Chisciotte della situazione. E poi mi fa male la testa. 

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(231) Aspettative

Sono bastarde. Infide. Sono viscide. Luride.

Tu pensi che siano cosa passata, pensi di essere sgamata, di essere andata oltre, di essere. Non sei. Loro sono. Fortemente sono. Indissolubilmente sono. Sono.

Una cosa sola puoi fare, puoi farla sempre e senza regole. Una cosa spettacolare, una cosa che è diversa a seconda di come tu sai permetterti di essere diversa da te stessa: guardare altrove.

Le aspettative sono a destra? Tu guarda a sinistra. Si spostano a sinistra, tu guarda dritto di fronte a te. E via così. Schivale, ignorale, soffocale con la tua indifferenza. Falle verdi di rabbia concentrandoti in quel microspazio dove loro non si sono ancora inserite. Gioca d’astuzia, non abbassare mai la guardia, sferra il colpo senza pietà.

Fottile così. Loro non spariranno, ma tu almeno ti sarai goduta il paesaggio.

 

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