(648) Panorama

Cosa vedi fuori dalla tua finestra? 

Questa domanda mi ha accompagnato per oltre trent’anni, mi ha guidata e mi ha dato la forza di non fermarmi in luoghi dove non c’erano finestre o dove il mio sguardo non potesse spingersi oltre. Difficile da spiegare, ma è esattamente così che ho vissuto in questi anni.

Non l’ho mai detto a nessuno, non l’ho mai usato per giustificare certe mie decisioni e certe mie partenze, non l’ho mai sottovalutato e non l’ho mai zittito: ho lasciato che mi facesse strada, che si prendesse cura di me. Lo ha fatto.

Ci sono stati momenti di finestre sbarrate, di pareti cieche, di panorami squallidi e cieli bui, ma sono stati momenti perché ho agito e mi sono spostata, ho preso in mano la situazione e ho cercato un cielo meno cupo, un panorama più vasto, aprendo la mia finestra per respirare. Non sono mai ritornata indietro, sempre avanti. Senza rimpianti per di più.

Credo sia importante chiederci cosa riusciamo a vedere dalla finestra, quanta vita riesce a passare da lì per incontrarci? Credo sia fondamentale. E cercare il panorama che fa per noi, quello che ci mette in pace con le nostre storture e le nostre tristezze è un dovere oltre che un nostro diritto. Comporta un po’ di sbattimento, sì, certamente sì. E un po’ di disagio interiore, sì lo posso confermare. Ma non importa. Non importa. Non. Importa. Tutto questo serve.

Quando non ci sono finestre non c’è luce, non c’è respiro. Se chiudiamo le nostre finestre smettiamo di sentire il mondo per finire ad occuparci soltanto di noi stessi mettendo in pericolo la nostra mente, il nostro equilibrio. Se poi c’è chi trova l’Illuminazione ritirandosi a vita monastica, buon per lui. Per chi è come me non funziona. Quando sono in un luogo senza finestre so che quel luogo non è il mio. Non funziono senza poter spingere il mio sguardo oltre la finestra, mi si blocca tutto. Non so spiegarlo, ma così è. E così mi basta.

Amen.

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(222) Scena

È il luogo dove tutto accade, dove tutto è possibile, dove tutto è più nitido e quasi più vero perché viene raccontato per essere ricordato. Ci si mette l’anima quando si racconta una storia che vuole essere ricordata.

È sempre un perdere te stesso per ritrovarti sparso tra le parole che in scena vengono liberate. Bisogna essere folli per attraversare le pluridimensioni in cui una storia si muove. Eppure, se ci provi e sopravvivi saresti un folle a non farlo ancora e ancora e ancora e ancora. E lì ti rendi conto che il tuo mondo è cambiato e ti ha cambiato portandoti con sé.

Non ritorneresti a quel che eri, neppure quando il futuro si fa cupo e incerto. Così ti viene quella specie di leggerezza che solo pochi sanno provare, e vedi tutto come dev’essere perché hai trovato le tue ragioni e su quelle sai che puoi sempre contare.

In fin dei conti, il futuro per quanto cupo e incerto e fedifrago uno lo può sempre modellare a suo piacere, basta sapersela raccontare bene e una volta imparato come si fa niente te lo può far scordare.

Si va in scena!

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