(722) Soliloquio

Non sono solita bere alcolici, mi sarò sbronzata un paio di volte in tutta la mia vita, eppure oggi ho riletto a casaccio alcuni dei post di questo mio blog e mi sono impressionata. Sembro un’alcolizzata all’ultimo stadio. 

Sto qui a scrivere di pensieri e cose che hanno forma solida soltanto nella mia mente da quasi due anni. Una sbronza bella lunga direi.

Non mi sono mai soffermata sul fatto che chi non mi conosce e passa di qui per caso a leggermi potrebbe farsi un’idea piuttosto squinternata di me – e molto probabilmente succede anche a chi mi conosce nella vita reale. Quindi, visto che non l’ho mai considerato un rischio fino a ora, ho deciso che continuerò a non pensarci. Mi viene più facile.

Quest’ennesimo soliloquio non è che una conferma di tutto quello che il mio stato perenne d’inebriamento comporta: pensieri concatenati che solitamente mi portano a zonzo senza alcuna meta e poi mi lasciano a un angolo o l’altro della strada. Strada deserta, il più delle volte. Che senso ha? Averceli, i pensieri, potrebbe non essere molto sensato ma non posso impedire loro di comparirmi in testa, non scriverli avrebbe ancora meno senso perché mi illudo ancora che uno di questi scritti potrebbe – col senno si poi – rivelarsi illuminante. Non tanto per gli altri quanto per me. Metti che a un certo punto mi viene un pensiero straordinario e poi me lo dimentico… ma scherziamo?!

Chi pensa troppo corre il rischio di intortarsi avvoltolandosi in se stesso. Perdi la bussola, perdi la misura, perdi il controllo. Bisogna ancorarsi a terra in qualche modo e ognuno trova il suo modo. Ecco, il mio modo è pressocché innocuo. Riguarda soltanto me, nessun danno collaterale. Non è mica poco.

Comunque stasera sono in ritardo rispetto al solito e sto crollando dalla stanchezza… questo soliloquio risulterà più alcolico che mai. Quasi quasi me ne faccio un altro. Anzi, ne prendo due. Due on the rocks, ovviamente.

Buonanotte.

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(721) Lettering

letteringlètëri› s. ingl. [der. di (to) letter «segnare con lettere; imprimere il titolo su …»], usato in ital. al masch. – Nel linguaggio della pubblicità e della grafica, operazione consistente nello scegliere, secondo opportuni criterî, i caratteri (anche scritti a mano) con cui far comporre il testo che accompagna un annuncio pubblicitario, o che in genere serve di commento e integrazione a un’immagine, a un disegno o serie di disegni (per es., un racconto a fumetti). Anche, il risultato di tale operazione.

La forma delle lettere parla. Lo stile con cui le lettere sono graficamente presentate parla. Che tu lo voglia o no, ti parlano al cervello prima ancora che agli occhi. Che tu lo voglia o no la tua risposta, la tua reazione, è influenzata da quello che il tuo cervello ha ricevuto come impressione.

Detto questo, se funziona per la parola scritta, funziona ancora meglio, e in modo più dirompente che mai, per la parola parlata. Lo chiamano tono, riferito alla voce, intonazione se riferito alle parole e alle frasi. Poi c’è la cadenza, che ci portiamo dietro come retaggio culturale, e anche quella serve e si impone un bel po’ nel nostro modo di presentarci e/o rapportargli con gli altri.

Tutto questo si traduce come modo. Il modo che abbiamo di esprimerci ci rende più o meno piacevoli al nostro prossimo. Sto molto molto molto molto attenta al mio modo, molto attenta. Quando scrivo e quando parlo. Più quando scrivo che quando parlo – non mi scappano parolacce quando scrivo, se le scrivo le voglio proprio scrivere, non sono soltanto un fastidioso intercalare – e sto molto molto dannatamente molto attenta al modo degli altri. Chi è sincero e chi finge, per esempio. Chi se la tira e chi no, un altro esempio.

La mia attenzione è focalizzata sul modo perché anche se ne esistono miliardi di varianti, sono solo due le dinamiche possibili: quella rispettosa e quella irrispettosa. Non c’è pericolo di confonderle, non sono interscambiabili, sono limpidamente evidenti perché prendono direzioni opposte. Certo, bisogna farci caso, bisogna che tu lo ritenga importante per riuscire a captarlo immediatamente e reagire di conseguenza.

Io ci faccio caso sempre. Proprio sempre. Vado oltre il sorriso, punto al lettering. Deformazione professionale, chiamiamola così, assolutamente precisa e affidabile.

Non mi piace avere sempre ragione riguardo alla lettura dei modi di chi mi sta attorno, ma non sono io quella infallibile, è il lettering. Mi affido a lui e lui non sbaglia. Ora, ce la possiamo anche raccontare, la prima impressione può essere sbagliata, ma se sai dove guardare non è un’impressione è studio istantaneo. E quando ho ragione, solitamente, mi siedo al centro del mio silenzio e aspetto. Non c’è bisogno di fare altro. Il tempo dirà meglio di me. E anche questa è una certezza.

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(720) Orsetto

Non ho mai avuto un amico orsetto che mi stesse vicino nel momento del bisogno. Avevo i miei fumetti, i miei libri. Non sono morbidi, non sono caldi, sono proprio un’altra cosa. Un orsetto non avrebbe potuto rassicurarmi sul fatto che oltre a quello che conoscevo e che stavo vivendo ci fosse dell’altro, qualcos’altro di magnificamente misterioso e intrigante (come le storie che leggevo) e che quel qualcosa era lì e mi stava aspettando. Dovevo solo crescere un po’.

Ecco, questa cosa mi ha fatto viaggiare su corsie neuronali preferenziali, lo ammetto, ma nel concreto mi ha fatto sbattere il muso quotidianamente contro una realtà che non aveva nulla a che fare con quel misteroso-e-intrigante che sognavo – anzi tutto il contrario – eppure senza mai dubitare del fatto che la parte migliore doveva ancora arrivare e che mi stava aspettando.

Aspetta che ti aspetta ho affrontato diverse avventure – nel vero senso della parola – e seppur io mi sia pure divertita oltre che fatta il mazzo tanto, mai neppure per un istante quella tensione frizzante e deliziosa che trovavo in quelle storie si è verificata. Mai. Neppure da lontano. Neppure quando ero emotivamente coinvolta, niente di niente.

Ho pensato che probabilmente peccavo di sensibilità e che fosse mia responsabilità andarmele a cercare queste sensazioni mirabolanti, infatti continuavo a pensare che fossero lì da qualche parte e che mi stessero aspettando. Sta di fatto che odio aspettare senza fare niente per cui mi sono data piuttosto da fare per andare loro incontro, con molto impegno mi permetto di aggiungere. Anni e anni di situazioni assurde e spesso grottesche, di scivoloni e ridicoli errori, di incontri tristi-scellerati-stupidi-inutili, ma niente.

Quindi, facendo due conti veloci, le cose possibili sono due: o il  misteroso-e-intrigante non sono lì ad aspettarmi (e neppure sanno della mia esistenza) oppure mi stanno deliberatamente ignorando – per lecite ragioni, perlamordelcielo, ma senza un briciolo di compassione o umanità.

Qualche tempo fa decisi che mi sarei fermata, basta andare incontro alle mie allucinazioni, facciamo che il misteroso-e-intrigante non li voglio più. Un po’ mentendo e un po’ con convinzione, metà e metà diciamo. Non mi sono ancora spostata da questa perentoria autoimposta decisione, e non me ne pento. Però, stasera, stavo pensando che se fossi stata come tutti i bambini intelligenti di questa terra, mi sarei fatta regalare un orsetto perché a questo punto sarebbe lui a rassicurarmi sul fatto che anche così va bene. Non troppo, ovvio, ma potrebbe pure andare peggio.

Prossima volta nasco più intelligente.

 

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(719) Aperitivo

In origine l’aperitivo era una bevanda alcolica (a base di vini invecchiati, vermut, o di amari vegetali come la china, il rabarbaro, il carciofo, ecc.), che stimolava l’appetito o favoriva la digestione. L’aperitivo ora è un sostituto della cena. E non so come si sia arrivati fin qui, ma la realtà non mente.

Ci sono cose che partono bene, con un senso preciso e ragioni solide, e che con l’andare del tempo vanno in malora. Il perché e il come non è dato saperlo. La parte peggiore è che una volta che la situazione si è snaturata, non c’è verso di riportarla sui giusti binari. La si deve dare per persa.

Se l’aperitivo in sé non manderà a scatafascio il mondo, ci sono altre cose che lo faranno e la dinamica non cambierà soltanto perché sono cose più importanti. Una volta che parte la valanga non la fermi più. Diventa brutto il vivere, diventa la tomba di qualcosa che era buona per tutti e che ora è morta. Un esempio? Ok, quand’ero piccola entravo in un negozio qualsiasi e salutavo (così mi avevano insegnato a casa, entri in una stanza e saluti, esci da una stanza e saluti). Chiunque fosse dentro a quel luogo rispondeva al saluto. Era bello, davvero bello. Mi piaceva salutare per far capire a tutti che ero entrata o che stavo uscendo e mi aspettavo lo stesso entusiasmo da parte degli altri. Non venivo mai delusa, anche se non proprio nell’entusiasmo di tutti, i presenti mi salutavano con gentilezza. Ora, quando entri in un negozio la commessa fa fatica anche a guardarti, figuriamoci ad accoglierti con un sorridente saluto. Dai quasi fastidio.

Lo capiamo o no che togliere il saluto è l’inizio del declino? Non ti riconosco anche se mi stai davanti, non ti voglio riconoscere e non ti voglio offrire il mio benvenuto perché benvenuto non sei. Un messaggio violento, crudele. Ce ne rendiamo conto o no? Evidentemente non ce ne importa nulla. Peeeerfetto.

Sono partita dall’aperitivo e sono arrivata al salutare, lo so che spesso questi miei pensieri possono sembrare squinternati, ma non sono loro ad esserlo, sono proprio io quella che probabilmente vive in un altro mondo. Eppure non ci posso fare niente, mi piacciono le cose che partono bene, che hanno un intento buono e mi dispiace vederle andare a remengo soltanto perché le persone non le ritengono importanti. Lo sono, altroché.

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(718) Nausea

Mi viene la nausea quando ci sono delle situazioni in cui palesemente le cose non funzionano e contro ogni buonsenso si evita di cambiarne le dinamiche perché così si è sempre fatto e così sempre si farà. 

Con questo modo di pensare lo stallo è irreversibile.

Le mastodontiche istituzioni politiche, religiose, economiche non vengono mai davvero toccate perché alla base ci sono degli interessi che non riguardano le persone che le subiscono, bensì le persone che le gestiscono. Lo sappiamo tutti, ma tutti ancora chiniamo la testa e tutti ancora pensiamo che siccome è sempre stato così allora sempre sarà così. E quando arriva qualcuno che afferma “ora basta, cambiamo le cose” noi ci dimentichiamo che se sono lì è perché hanno già abbracciato quella logica e niente cambierà perché non è più loro interesse che cambi. Semplice, lineare, vero. E noi non vogliamo vederlo, non vogliamo crederci.

Entri in una cattedrale, ne ammiri ogni dettaglio e poi ti accorgi che lì dentro il potere silente non è quello di Dio, ma quello degli uomini. E tu preghi, preghi un Dio che molto probabilmente non è lì che dimora perché dovrebbe essere dentro il tuo cuore ma tu lì non ci guardi, è più facile guardare il cielo che dentro noi stessi. Siamo dei patetici idioti. E ce la prendiamo con chi ci tratta come marionette, ma siamo noi che diamo in mano a questi molossi zeppi d’ego i fili per gestirci. E via di rabbia e via di orgoglio e indignazione.

“Si pregano i santi che fanno i miracoli”, mi ha detto oggi una mia carissima amica (donna intelligente e sagace) e lì mi sono inchiodata. Un detto popolare mai sentito prima che mi ha aperto un portone in testa. Preghi un santo affinché ti faccia un miracolo, mica quello che non ne ha mai fatti di miracoli. A cosa ti servirebbe pregare un santo senza alcun potere?

In poche parole, la nostra fede è una bella storia che ci raccontiamo. Converrebbe però raccontarcela bene, perché alla luce dei fatti non regge. Rimaniamo dei patetici idioti, pieni di rabbia. Evviva.

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(717) Uva

Quand’ero piccola, nel mio paese, il periodo della vendemmia era piuttosto movimentato. L’uva della vite di casa mia si limitava a due specie: l’uva bianca di Sant’Anna, la prima a maturare, e l’uva fragola nera. Io ovviamente preferivo l’uva cabernet del mio vicino di casa. Era piccola, con la buccia dura, ma era buonissima. Certo, mangiavo anche la mia, era buona pure quella, ma barattavo la mia con l’altra ben volentieri appena possibile.

L’uva del vicino è sempre più buona, si direbbe.

La questione è che, spesso, abbiamo cose buone eppure ne preferiamo delle altre. Non so il perché, non penso capiti solo a me, ma so che appena mi accorgo di esserci ricascata mi vien voglia di prendermi a sciabolate. E cresci una buona volta, Babs!

Sono certa di essere cambiata anche in questo, ma forse non abbastanza, ma il fatto è che l’uva è buona a prescindere e che ora, nel mio giardino, ho uva fragola bianca e uva fragola nera e ogni anno le mangio volentieri e con gratitudine. Ogni tanto però mi farei una scorpacciata con vagonate di uva spagnola. Eh, diciamo che ho gusti internazionali.

Ecco, la questione del gusto e delle preferenze mi tocca particolarmente perché per quanto mi riguarda sono cambiate parecchio da quando ero giovane e penso cambieranno ancora, eppure io sono sempre io. Per fortuna e purtroppo. Mi domando perché è un problema per le persone il fatto che abbiamo gusti diversi, non è assurdo? Ovvio che sono diversi, sarebbe da pazzi il contrario!

So di una persona – che ora mi sta leggendo di sicuro – che la pensa esattamente come me e dimostra ogni giorno con le sue scelte quanto avere dei gusti personali e viverli in toto senza paranoie, soltanto per essere felici, sia un gran bel modo di vivere. A volte per nulla semplice, ma ciò che si conquista con fatica viene trattenuto con le unghie e con i denti. Avrei voluto avere la stessa anima libera che ha lui quand’avevo la sua età, mi avrebbe evitato un sacco di paranoie. Ho dovuto vivere molto per rendermene conto, lui è nato già con questa consapevolezza e la sta utilizzando talmente bene che tra poco conquisterà il suo mondo e sarà un mondo bellissimo perché ci sarà lui dentro e non vedo l’ora che sia così.

Ecco, Capitano, non ti ho mai chiesto che uva preferisci, ma sono sicura che mi risponderesti: tutta quella che c’è. E so che avresti ragione, so che hai ragione e questo mi riempie il cuore di sollievo perché quando me lo dimenticherò di nuovo potrò sempre chiamarti per farmelo ricordare. Grazie Aldo 🙂

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(716) Isolare

Quando isoli una persona dal contesto (ambiente e persone) acquista luci e ombre piuttosto diverse, da studiare. Una persona isolata ha la libertà di essere o non essere ciò che vuole, lontano anche dal suo passato e dalle sue origini, distante anche da quello che ha sempre desiderato e sognato. Come se si reinventasse, per un minuto o per una nuova vita, senza catene.

Isolare una persona ha valenza negativa perché la si mette in una condizione di tensione, costretta davanti a una scelta che forse non ha mai contemplato: essere o non essere quello che fino a ora sono stato?

Una persona isolata può avere reazioni imprevedibili, dipende dalla decisione che prende e se questa è conscia o inconscia. Una persona isolata può trasformarsi in un rischio per tutti – soprattutto in quelle condizioni dove la violenza è legge, oppure può perdere la forza e smettere di reagire, smettere di vivere. Si arrende al suo nuovo, e non voluto, stato.

In ogni caso isolare qualcuno è fargli un danno, o almeno tentare di fargli un danno, perché l’Essere Umano costretto alla solitudine e all’emarginazione è capace di tutto come di niente, è sempre la bomba inesplosa ma non disinnescata che può scoppiarti in mano.

Isolarsi dal mondo, invece, come atto volontario ha un valore credo totalmente diverso: di purificazione – quando si ha bisogno di disintossicarsi dal proprio quotidiano, oppure di rinascita – quando il cambiamento è totale e duraturo. Un gesto coraggioso, audace, che comporta un certo rischio promettendo un maggior benessere. Isolarsi per un po’ ti permette di pensare meglio, di andare in profondità, di riprendere contatto con la tua voce interiore. Può essere un po’ stordente, ma di sicuro è tonificante perché quando rientri nei ranghi vedi meglio, senti meglio, assapori meglio tutto quello che ti circonda.

Un’isola di per sé può essere selvaggia e splendida o selvaggia e spaventosa. Può essere collegata al mondo o completamente fuori dal mondo. Un’isola può renderti pazzo di felicità o pazzo di dolore. Un’isola può essere rifugio o prigione. Se ci andiamo di nostra volontà è un’avventura, se siamo costretti con la violenza a viverci è una condanna a morte. Come spesso accade la positività o la negatività oggettiva non esiste, esistono le circostanze e le condizioni che determinano e gestiscono gli Esseri Umani che vi capitano in mezzo.

Difficile giudicare, difficile condannare o assolvere. Difficile essere Umani. Difficile essere Umani tra gli Umani, specialmente tra quegli Umani che hanno perso la propria Umanità ergendosi a Déi egoici dell’Olimpo.

Tornate giù, deficienti, tornate giù a prendervi quel che di Umano vi spetta per la vostra superbia e per la vostra crudeltà. Lassù isolati sembra facile, ma noi vi aspettiamo qui e vi sarà difficile ridere quando la vita vi presenterà il conto. Perché siete carne e ossa come tutti noi, dovrete ricordarlo – chi prima, chi poi. Tutti.

 

 

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(715) Tanti

Quanti? Tanti. E la questione non cambia perché la quantità – il concetto di quantità – ci sovrasta. Quando è Tanto significa che siamo vicini al limite. Quando è Troppo il limite è stato superato, ma il Tanto ti mette in allarme e ti fa presente che qualcosa devi fare. 

Si potrebbe pensare che funzioni così soltanto per le cose negative, che tanta felicità non sia rischiosa, ma c’è chi è morto per troppa felicità – bisognerebbe ricordarselo.

Il nostro cervello quando si trova ad avere a che fare con il Tanto si allerta, sa che bisogna attendersi qualcosa. Se il Tanto cala naturalmente il vuoto della differenza può essere devastante. Ecco perché il tanto benessere teme anche il minimo calo, si aspetta un crollo subitaneo. Il panico fa scattare il meccanismo o-io-o-te e tutto va in vacca (per dirla in modo elegante).

Non l’ho mai sperimentata “la tanta ricchezza” – lo desidererei sinceramente – eppure credo che da lassù il Tanto prenda forma ben più feroce. Ma potrei sbagliarmi, certo.

Siamo in tanti e abbiamo tanti problemi, abbiamo tanti desideri, abbiamo tante ambizioni contrastanti e ognuno di noi contiene moltitudini (cit. Walt Whitman), per la serie: siam messi proprio bene.

A volte il Tanto mi mette a disagio, mi fa sentire le formiche addosso, anche se il Tanto riguarda qualcosa di bello. Sarà che i miei sensori si sono progressivamente fusi con l’età avanzata… bah. Vorrei avere un rapporto migliore con il Tanto, ma non so da dove cominciare. Forse il Tanto che vorrei mi spaventa ed è per questo che mi sfugge. Un bel dilemma Watson.

Tanto vale che mi faccia una bella dormita sopra. Tanto domani nulla sarà cambiato tra me e il Tanto e magari a mente fredda potremmo discutere meglio. Tanto lo so che sarà lui ad avere la meglio e che rimarrò nel mio dilemma a farmi tanto male. Bah.

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(714) Decantare

E poi ci sono quei verbi che ti lasciano un po’ di stucco. Decantare le qualità del tuo ristorante preferito e lasciar decantare il giudizio per non mancare di obiettività. Usato nel primo modo enfatizza lo slancio e nel secondo modo posa a terra lo slancio per la riflessione e la rivalutazione della faccenda. Eh.

Ci sono periodi in cui pratico la decantazione e sembra che il mio cervello sia partito per altri lidi. Funziono per metà. Succede perché tutto quello che ho assorbito vivendo ha intorbidito le acque del mio delicato ruscello mentale e non ci capisco più niente. Ma non è uno stato che riconosco coscientemente, quindi ho sempre paura che il rincoglionimento sia definitivo.

Fino a ora m’è andata bene. Speriamo il gioco regga ancora per un po’.

La parte interessante arriva quando l’acqua ritorna quasi limpida e il vederci attraverso mi fa riprendere il nervo giusto. Ecco: penso di trovarmi in quel preciso momento. Non è la prima volta, ma questa volta vorrei proprio scriverlo perché è una sensazione intensa e gratificante e mi dispiacerebbe dimenticarmela alla prima incazzatura in programma – che potrebbe verificarsi tranquillamente anche tra cinque minuti a mia insaputa.

Non so come spiegarlo, però, perché spesso le parole lasciano troppo spazio vuoto e invece mi piacerebbe saperlo colmare. Sì, è una sensazione che potrebbe essere paragonata a quella di quando hai le mani sporche e te le lavi con un sapone profumato. Ti cambia l’umore, ti cambia i pensieri. Come nuova. Ecco, in questo momento mi sembra che a vederci meglio, capendo meglio, gestendomi meglio, io abbia iniziato un nuovo periodo della mia vita. Non so ancora dove mi porterà, ma lo riconosco come inizio e posso abbracciarlo come tale. Perché? Semplicemente perché mi fa stare bene. Anche se sono stanca morta, anche se andrei a Bali a farmi una vacanza, anche se domani le cose da fare non saranno mille ma duemila. Pazienza.

Questo è un inizio vero, non dev’essere facile perché nessun inizio è facile, dev’essere intenso. E questo inizio lo è.

Un bel respiro e via!

 

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(713) Telefonare

Quando non c’era ancora internet – sì, sono piuttosto antica – il telefono era l’unico modo per mantenere i contatti con gli amici. Scrivevo moltissime lettere, giuro, ma se scrivi a chi non ti risponde perché non ama scrivere diventa piuttosto frustrante.

Passavo ore al telefono, per ascoltare e per raccontarmi, amavo il posto che avevo nella vita dei miei amici, mi sembrava fosse importante esserci anche se mi ero trasferita a quasi 500 km di distanza.

A un certo punto, però, ho scoperto che non era un posto per sempre perché la lontananza fisica aveva fatto perdere le mie tracce e la mia voce non bastava più. Facevo fatica a raccontarmi, facevo fatica a farmi capire, facevo fatica a esserci. E dopo anni mi arresi sfinita, come se tutte le energie fossero state succhiate via per sempre.

Non era una questione di pensiero, li pensavo tutti i giorni, né d’affetto perché erano sempre le persone con cui ero cresciuta e avevo condiviso tutto della mia infanzia e della mia adolescenza solo… solo che loro non riconoscevano più me e io non riconoscevo più loro. La vita ci aveva masticato e ci aveva modellato diversi. Riconoscibili solo nei dettagli.

Ora prendere il telefono per chiedere “come stai?” mi fa strano. Il telefono adesso non mi aiuterebbe a riattaccare i pezzi persi, e quei vuoti li temo se si palesano in vuoti di silenzio. Non lo so, sento che raccontarmi a loro – per come sono oggi – andrebbe solo a confondere i ricordi.

Vorrei capirne di più della vita, per fare meno errori, ma al momento tutto quello che posso fare è riconoscere le cose per quel che sono e accettare i cambiamenti per quello che devono essere. Mi fa tristezza, comunque. Da piangere.

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(712) Apparecchiare

Spendo molta della mia energia nella preparazione. Credo sia la parte migliore, il momento in cui le idee possono splendere. Immagini che ogni dettaglio sia perfetto, che ogni cosa sia al posto giusto, che tutto-proprio-tutto vada come vuoi tu. Per me è il momento in cui posso curare le mie idee affinché siano accoglienti e creino benessere per chi ne usufruirà.

A ben pensarci non ho fatto altro che apparecchiare il mio presente per tutta la vita, e non è poco. Davvero non è poco.

Mi sembra addirittura di non saper fare altro, e questo è di certo un limite. Faccio fatica a smettere, non riesco a stare con la testa ferma e godermi quanto ho fatto, sono sempre spinta oltre, devo sempre pensarne una nuova e arrovellarmi per riuscire a rendere il pensiero concreto, reale. Stachanov mi fa un baffo. Su tutta la linea. Non so se esserne orgogliosa o dolermene, sinceramente non lo so.

Tanto per cambiare sto apparecchiando un’altra tavola, e già non mi do tregua: immagino, strutturo, schematizzo, distribuisco il fare… Sì, una macchina da guerra. Non è per la guerra che mi sto preparando, però, questo spero farà la differenza. Fidarsi delle persone – alla mia età – non è facile, ti domandi sempre come e dove stavolta ti colpiranno, ma alla fin fine ci vuole una bella tenuta di nervi a stare perennemente sul chi-va-là. I miei nervi già sono oberati per tutto quello che devono affrontare, non posso trascinarli anche nel girone infernale dei cinici ad oltranza. Eh!

La vita, dopotutto, è un atto di fede. Se ci sei e non ci credi che resti qui a fare?

 

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(711) Presupposti

A volte penso che siamo fatti di anelli, come gli alberi. Ogni persona vive la propria vita a periodi e ogni periodo si sviluppa allo stesso modo: inizio-crescita-apice-decrescita-fine. Un anello. 

Se facessimo attenzione a questo particolare ci renderemmo conto che non è affatto facile leggere gli anelli che compongono una persona, non sono evidenti sulla pelle che la ricopre, bisognerebbe far entrare il nostro sguardo fin nelle viscere e allora sì potremmo avere una mappa veritiera del suo Sé, potremmo dichiarare: la conosco.

Ogni anello è una storia, una storia lunga anche anni perché non tutti i cicli hanno la medesima durata. Ogni storia parte da premesse conosciute per incasinarsi con incidenti di percorso e sorprese varie, leggere ogni anello comporta una conoscenza intima del Essere Umani. Solo pochi possono affrontare un’impresa del genere.

Quando raccontiamo agli altri i nostri anelli ne dobbiamo per forza fare un riassunto, tralasciamo le cose che non ci sembrano importanti e magari ci dilunghiamo su particolari che amiamo o che riteniamo fondamentali. Non siamo obiettivi, non possiamo esserlo. Mettiamoci poi il carico del pudore, della cautela, del buonsenso, del buongusto ecc. – tutto sacrosanto e lecito – come possiamo pensare che il nostro modo di raccontarci sia verosimile? In tutta buona fede, sarebbe comunque impossibile.

Chi riceve il nostro racconto si porta appresso i suoi anelli e il suo modo unico di mettersi all’ascolto – chi più distratto, chi meno – e anche lì in tutta buona fede, come possiamo pensare che riescano a leggerci in modo verosimile?

La comunicazione tra Esseri Umani non si può basare sull’ascolto o sul raccontarsi, bisogna spingerla oltre, bisogna spingerla oltre con l’intento dell’incontro. I nostri anelli e quelli del nostro prossimo se confrontati risulteranno molto simili per forma, non per suono forse, ma per forma sì.

Ogni albero differisce dall’altro, per specie se non altro, ma se li tagli scopri che gli anelli sono gli stessi. Ogni albero è un magnifico esemplare di vita, esattamente come noi. Mi domando, quindi, se non sia una questione di presupposti quella che fa crescere alcuni di noi storti. Se così fosse è da lì che bisognerebbe iniziare a lavorare, sui presupposti. Sarebbe già qualcosa, no?

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(710) Sassi

I sassi si possono tirare. E fanno male a riceverli, se non li prendi al volo. I sassi che ti colpiscono ti vien voglia di rimandarli al mittente in presa diretta, se non lo fai è perché non sei fatta così, tu i sassi non li tiri.

Non li tiri un po’ perché non ti viene in mente, nel senso che sei impegnata a fare altro, un po’ perché sai che fanno male e alla fin fine fare il male con intenzione non ti farebbe dormire bene la notte, e un po’ perché i sassi son come boomerang, tornano indietro facendo un bel giro largo e ti colpiscono con precisione svizzera.

Con i sassi ricevuti ho riempito diversi vuoti, soltanto perché non sapevo dove metterli e li ho messi lì dove pensavo mi sarebbero stati utili a qualcosa. In realtà, i sassi non si deteriorano, si fanno prove eterne di ciò che hai ricevuto e non è un bel servizio che ti fanno, ricordare fa persistere il dolore.

Fatto sta che con tutti questi sassi non sapevo che fare, e li ho messi un po’ qua e un po’ là. Ogni tanto li conto e non ne manca mai uno. Si sono proprio affezionati. Vorrei trovare un posto lontano da me per lasciarli liberi, per farli respirare un po’, ma non è che posso buttarli addosso a qualcuno come se la cosa non mi riguardasse. C’è scritto il mio nome sopra, eh.

Quando li guardo vorrei rilanciarli ai mittenti, perché non sono buona e il pensiero vendicativo lo conosco bene, ma poi lascio sempre perdere e non lo so neppure io il perché. Ora che ci penso: e se li togliessi dai miei vuoti e li raggruppassi per farne una montagnetta? Dall’alto la visuale migliora…

Ecco, forse ho capito a cosa mi possono servire. Ora mi arrampicherò fin lassù per vedere che aria tira. Una volta raggiunta la cima un’altra idea mi verrà di sicuro. Sono pronta.

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(709) Veliero

Mi sento come un veliero parcheggiato. La baia è carina, certo, ma stretta. Niente venti, niente profumo di mare, non arriva fino a qui. 

E non è il periodo, non è una sensazione passeggera, mi sento così da sempre. Non so dire altro, l’immagine della baia e del veliero penso che sappia rendere l’idea. Ciao.

(…)

Sarebbe un ***Giorno Così*** troppo breve se finisse qui, devo per forza metterci ancora qualche riga e temo di aver preso diretto un bel vicolo cieco.

(…)

Qualche tempo fa scrissi un romanzo dove il vento era il protagonista silente della storia, comprai un libro per saperne di più e più leggevo quelle pagine piene zeppe di informazioni più ne volevo leggere. Sentivo che sapere tutto quello che potevo sapere sull’argomento sarebbe stato per me di vitale importanza al di là del romanzo che stavo scrivendo. È stato come scoprire di punto in bianco una mancanza che ignoravo di sentire.

Le vele accolgono il vento opponendogli quella giusta resistenza affinché il veliero possa muoversi. Se il vento è troppo si squarciano, se è poco non si gonfiano e lo stallo permane. Semplice. Quindi ognuno di noi ha bisogno del suo vento per muoversi, giusto?

Rimanere al sicuro nella baia ti può consumare di nostalgia. Il fatto che ogni viaggio – in realtà – sia consumato nella solitudine piena di noi stessi è la contraddizione più affascinante che c’è perché raramente quando viaggiamo siamo davvero soli. Come al solito più cerco di chiarirmi le idee e più queste mi ballano attorno la macarena. Dovrei rassegnarmi allo sberleffo. Prima o poi lo farò.

Va bene, ora le righe sono sufficienti – pure troppe – e mi stanno cascando le dita sulla tastiera dallo sfinimento. È venerdì e anche questo è un tema.

Già.

 

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(708) Chicchessia

Oggi, in una presentazione di un piano di comunicazione aziendale, ho davvero usato il termine chicchessia. L’ho fatto con la mia solita quieta spavalderia e l’ho fatto solo perché suonava talmente opportuno che qualsiasi sinonimo mi risultava cacofonico.

Non nascondo che qualche dubbio l’ho avuto, dopo. Durante la revisione mi sono domandata se fosse il caso di lasciarlo lì. Mi rendo conto che è una leziosità per certi versi fastidiosa, mica sto facendo letteratura è un umile documento informativo, ma in quella frase, per il contesto che stavo descrivendo… no, non riuscivo a sostituirlo. Così l’ho lasciato.

Già mi immagino la faccia del cliente, già mi immagino il sorriso che mi nascerà e già immagino cosa dire a mia discolpa, eppure non lo toglierò.

Credo sia proprio una questione di amore viscerale per quello che sto facendo. Solitamente devo rimaneggiare idee e lavori per accontentare chi pagando vuole avere qualcosa che gli risuoni perfettamente anche quando non funziona, anche quando è una mossa catastrofica in fatto di comunicazione. In quei casi sfodero la mia migliore dialettica cercando di far comprendere le mie ragioni di professionista, spesso devo ritirarmi in silenzio nonostante gli sforzi profusi perché chi paga ha sempre ragione. Ecco, oggi ho voluto essere libera. Completamente libera di gestire la situazione, dopo tanto tempo mi sono detta: “Se per te va bene, significa che va bene e basta”. E dopo tanto tempo a sacrificare concetti e parole per volere altrui, è stato un delizioso sollievo. Decido ed eseguo. Liberamente eseguo… meraviglioso.

Mi rendo conto che sto parlando di cose piccole, eppure se applico questa mia piccola libertà una volta al giorno mi sento meglio. Un esempio? Ok, decido di farmi un toast e qualcuno mi dice: “Perché sistemi in quel modo il formaggio?”. La risposta ovvia (“Perché lo voglio esattamente così”) e l’affermazione della scelta continuando sulla mia strada, è un altro esempio di come voglio fare le cose: A-MODO-MIO.

Il vecchio Frank (Sinatra) lo ha cantato e io nel mio piccolo ho raccolto la sua eredità mettendola in pratica sempre a-modo-mio.

A me sta bene il consiglio, la condivisione, il fare meglio, l’imparare… va tutto bene, ma ci sono delle cose che preferisco fare a-modo-mio. Scrivere è una di queste, quindi se qualcuno vuole mettere mano a qualcosa che ho scritto io non la prendo benissimo. Magari la migliori, ma diventa tua e non mia. Nonostante i tanti anni di scrittura è ancora così. Quindi oggi mi sono ribellata e ci ho messo un bel chicchessia dove nessun altro al mondo avrebbe osato.

Sì, è una cosa da nulla, una sciocchezza è vero. Ma l’ho fatto. E l’ho fatto a-modo-mio. Grazie Frank.

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(707) Traffico

Il mio personale traffico mentale spesso sovrasta ogni cosa che mi riguarda. Mi impone l’immobilità più che estatica attonita. Guardo i pensieri che si tagliano la strada senza curarsi della segnaletica e mi domando: “Com’è possibile che ancora non si sia verificato il più grande e catastrofico crash della storia stradale planetaria all’interno del mio umile cervello?!”.

Niente, sembra che tutto abbia un suo senso che viaggia in concerto con il senso degli altri e anche se alcuni sensi unici si risolvono in nulla, ad un certo punto, come se niente fosse, arriva l’Epifania. Mi appare l’immagine o il concetto o l’idea che non solo è soluzione, è addirittura soluzione efficace e definitiva. Con una logica, con una solidità, con una ricchezza di contenuto che mi lascia senza parole… come se fossi una piccola Einstein che si ridesta dopo secoli di pensiero obnubilato. Non so se rendo: è una sensazione particolarmente vicina a quella che si può provare quando ti chiudi un dito nella portiera dell’auto. Stelle e cosmogonia in un istante ti si palesano come fossero sempre state lì – solo per te – ad aspettare quel momento con la tua stessa trepidazione. Commovente.

Al di là di tutto questo, riprendendo il concetto di traffico mentale, voglio precisare che anche se le mie non sono in realtà delle genialate, il fatto che prima sia un casino e ad un tratto tutto sia chiaro, lucido, cristallino, rimane. Ripeto: prima un casino – che ti viene voglia di sbattere la testa contro il muro tanto per sincerarti che ci sei ancora – poi il Nirvana. Non è un episodio che sto sintetizzando, è la prassi. Cioè io vado da momenti in cui non so neppure come mi chiamo a istanti in cui il senso del tutto prende forma manifestandosi nella sua giustezza – senza fare una grinza – e mi permette di avanzare. Sarà pure solo un passo, ma intanto è un passo avanti e non indietro. Mica poco, no?

Arrivata alla fine della scorta di energia della giornata, posso concludere con un’affermazione pregna di significato (almeno per me): so solo io quanto sia impegnativo e snervante essere me stessa. Non lo auguro a nessuno.

Buonanotte.

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(706) Giudizio

Il giudizio scatta quando c’è una valutazione da fare. Va bene-non va bene, quando va bene-quanto non va bene, quanto va male… Ci serve per muoverci, per prendere delle decisioni, per attrezzarci. Ci fa muovere con cautela laddove il giudizio non si palesa con chiarezza perché mancano elementi per valutare la complessità della situazione, del contesto, delle questioni umane. Il giudizio è una forma di cautela che ci aiuta a proteggerci. Stop. 

Quando perdiamo il controllo e lo facciamo diventare un’arma per aggredire chi differisce da noi – per qualsiasi ragione – si trasforma in un problema. Un problema personale, una questione che va a toccare la nostra autostima che si scopre debole e tentennante. In poche parole: abbiamo un problema Houston di gestione emotiva interna. Se rimanesse questione interna i danni sarebbero circoscritti alla persona, il punto è che questa rabbia che monta la vomitiamo addosso agli altri. Da interno il problema diventa esterno, totale, globale. Un disastro. Letteralmente un disastro. Si confondono i confini del va bene-non va bene, del mi piace-non mi piace, del lecito-non lecito. Non c’è più discernimento, non c’è più ascolto, non c’è più voglia di comprendere. Un disastro.

Se ci posizioniamo in modalità Giudizio, dovremmo per lo meno essere certi di non essere portatori di pecche, perché mettiamo in circolo una dinamica  a boomerang che ci potrebbe vedere perdenti. “Chi è senza peccato scagli la prima pietra” – e non l’ho detto io – è un monito che spesso dimentichiamo ma che faremmo bene a riprendere in considerazione.

Siamo ben al di là dell’essere Divini, siamo tutti bucherellati da vuoti, mancanze, cedimenti, vulnerabilità, limiti, incertezze, collassi più o meno evidenti: giudicare le magagne degli altri è quanto meno incauto. 

Ho imparato a disciplinare quel tipo di pensiero che fa del confronto la sua bandiera. Non sempre mi riesce perfettamente, ma almeno riconosco il pericolo e inizio col prendermi meno sul serio. So che mi scoccia cadere nella trappola del dito puntato, piuttosto mi astengo dal formulare una sentenza che infognarmi in questioni che non conosco. E ci sono anche gli alibi, perdio! Ne vogliamo parlare?

No, non adesso, magari in un altro ***Giorno Così***, sono sfinita. Buonanotte.

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(705) Monumenti

Ci siamo abituati a guardare certe cose come se fossero lì per rimanere. Per sempre. Un tempo parlavano di noi, ora non più, ora ci ricordano chi eravamo (forse), ma potrebbero tranquillamente andarsene anche dalla nostra memoria che non cambierebbe quel “chi siamo” di cui tanto abbiamo bisogno per vivere.

Sono dei monumenti che abbiamo adottato, o abbiamo costruito, apposta per appenderci un pezzo di noi. Per sicurezza, per scaramanzia.

Facciamo fatica a staccarci, facciamo fatica a pensarli sorpassati, facciamo fatica a distruggerli. Eppure non ci servono più. Facciamo fatica anche ad ammettere questo dettaglio da nulla, in fin dei conti darci torto ci rode un bel po’. Piuttosto li teniamo lì e li spolveriamo, piuttosto facciamo finta che gli assomigliamo ancora. Se così non fosse ci mancherebbe un puntello, ci sentiremmo scivolare via come sabbia, saremmo costretti a chiederci “E ora chi sei?” e dovremmo arrovellarci per trovare una risposta plausibile, credibile, utilizzabile. Panico.

Ma noi siamo diversi da quello che eravamo, seppur gli stessi, siamo cambiati. In meglio o in peggio non fa differenza, siamo comunque diventati altro anche se chiunque si fermi alla superficie ci riconosce e ci riporta al monumento che si è fatto di noi. Un gioco che è una gabbia. Difficile uscirne, difficile restare dentro. E allora ci pieghiamo un po’ per non dare troppo nell’occhio. Non sappiamo neppure il perché, forse lo abbiamo visto fare e lo stiamo riproponendo come da istruzioni date ai nostri neuroni specchio, piccole inconsapevoli scimmie come siamo… mah!

Non mi piaccioni i monumenti eppure ne ho costruiti tanti e ne ho avvallati altrettanti durante i miei anni. Che brutta abitudine, che squallido modo di pensare a me e al mondo che mi gira attorno…

Ora prendo martello e scalpello e inizio a ritoccare quel che posso, quel che non può essere modellato lo butto giù. Facciamo un po’ di spazio, è tempo.

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(704) Violino

Si dice “essere tesi come una corda di violino”, ma il violino non è l’unico strumento a corde che se non le tendi non riesci a suonare. Hanno preso il violino come esempio? O la tensione delle corde del violino – producendo un suono secco e lamentoso – sono le uniche che necessitano di una tensione spasmodica per poter suonare come suonano?

Ebbé, se qualcuno si basasse su questi miei pensieri per capire l’intensità della mia intelligenza sarei spacciata. Lo so. Per fortuna un Essere Umano è molto più di quello che dice, di quello che scrive e persino di quello che pensa – anche se un Essere Umano che pensa da schifo fa venire zero voglia di indagare sul resto che lo riguarda.

Ormai tutti sanno della mia incapacità congenita di fermarmi e restare immobile a meditare, così mi sono scaricata un’app splendida che ti permette di entrare nel mirabolante mondo della meditazione come in un sogno e farti vivere questa esperienza come mai prima l’hai saputa immaginare. Fantastico.

Ok, oggi potevo iniziare. Me l’ero pure imposta, l’avevo programmato, non vedevo l’ora di iniziare… non so cos’è andato storto, ma mi sono persa nel vortice di pensieri spumeggianti di questa prima domenica di fine estate dove vorrei che il tempo si fermasse perché si sta così bene e… mi sono scordata dell’app e della promessa che mi ero fatta.

Non è detto che prima di dormire io non lo faccia, ma per il momento ho altre dieci cose in programma e nessuna la coinvolge. Non è cattiveria, credo, è proprio che mi sembra una perdita di tempo. Odio perdere tempo e una voce nel mio cervello mi dice che posso fare altro anziché perdere tempo meditando… magari sfidarmi a Parole Collegate (un giochetto idiota eppure impegnativo, che mette in crisi anche chi con le parole ha una certa dimestichezza). Cosa si vince? Nulla. Allora si perde tempo? Ehmmmmm… ni… quasi… insomma…

Ok, la mia tensione cerebrale ha molto a che fare con le corde di un violino, lo ammetto. Ora mi faccio una doccia e poi inizio con l’app meditativa, programma: anti-stress. Se entro due minuti non funziona mi butto su Netflix.

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(703) Spirale

Arriva la pioggia, scende la temperatura e il mio cervello si rifà vivo. Molto rincuorante, giuro, pensavo di averlo perso per sempre. Un’afosa e infinita estate questa, temevo non sarei più stata la stessa, invece ho fatto l’appello e i neuroni che c’erano son rimasti e stanno ricominciando a respirare. Bene.

E a settembre si ricomincia a progettare. Inevitabile. Bene pure questo.

Per un anno me ne sono rimasta buona in disparte perché volevo concentrarmi su quello che stavo professionalmente vivendo. Non è stato facile, pensavo non sarebbe stato un problema, ma probabilmente zittire la mia parte artistica è stata una sofferenza pesante che ha influito sulla mia capacità di ritenermi soddisfatta di me stessa, intera. Ora, sembra, io possa ricominciare a esserlo: soddisfatta e intera.

Basta già questo pensiero a mettermi di buon umore, pare impossibile ma è così. E non lo so perché questa spirale non si rassegna e non mi fa scappare, non lo so, so soltanto che se le cose stanno così significa che così deve andare. Ogni volta che mi sono rimessa in gioco è stato un salto nel vuoto, questa volta no. So cosa posso fare, so cosa voglio fare, so dove voglio andare e so che non voglio andarci da sola ma con le persone giuste, quelle con cui si viaggia volentieri, quelle con cui si può condividere, quelle che se ci sono rendono tutto più bello.

Ho ancora e sempre bisogno di bellezza, avvolgente e appagante, e sono ancora convinta che la bellezza si possa creare con la forza delle visioni ben nutrite e con il fare insieme. Non ho intenzione di cambiare idea perché sarei infelice. Smettere di credere in quello in cui credo mi renderebbe cinica, arida, rabbiosa, pronta a scagliarmi contro tutto e tutti. Non voglio trasformarmi in un recipiente di amarezza e veleno. Voglio continuare a credere.

Come andrà? Eh. Se avessi la sfera di cristallo mi farei chiamare Madame Babsie e venderei le mie consulenze magiche come noccioline. Dico, però, che andrà bene. Comunque andrà bene. Per le premesse, per le possibilità, per la musica e per i sentimenti che il viaggio ha in sé. Sarà faticoso? Eh. Anche senza la sfera di cristallo posso rispondere senza dubbi che: sì, dannatamente faticoso. Eppure ne varrà la pena. Come lo so? Non è mai stato diversamente da così nella mia vita. Non vedo perché dovrebbe cambiare proprio ora.

I’ll sleep when I’m dead… e si ricomincia a cantare.

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(702) Rischio

Corri il rischio se pensi che ne valga la pena. Corri il rischio quando il danno che ne potrebbe derivare è comunque maneggiabile, sopportabile. Il rischio calcolato non lo è mai fin nei dettagli, arriva fino a un pezzo e poi boh. Sia quel che sia.

Se giochi con la tua vita e non coinvolgi nessun altro, hai carta bianca per quanto mi riguarda e in certi casi hai anche la mia ammirazione. Se non sei solo, se il danno cadrebbe addosso a chi non c’entra nulla, allora dovresti fermarti. Se non ti fermi qualcuno dovrebbe farlo, dovrebbe fermarti. Con le buone meglio che con le cattive, in ogni caso non si tratta solo di te se ti trascini dietro un’intera nazione. Ci siamo capiti?

Ruba, inganna, mistifica, ingrassati di soldi e potere, ma non decidi con la tua misera coscienza malata per milioni e milioni di Esseri Umani – trattandoli come insetti da schiacciare – impunemente. Qualsiasi troglodita che ti ha votato, e ti ha permesso di arrivare nella posizione di potere in cui ti trovi ora, ha il diritto di essere protetto da te e dalla tua scelleratezza. Un troglodita è pur sempre un Essere Vivente, anche se si meriterebbe una mazzata in testa. 

Alzare lo sguardo al cielo e vedere sfilare sopra le nostre teste le flotte armate come se fossimo stati catapultati dentro un colossal storico hollywoodiano mi sembra semplicemente assurdo, semplicemente inammissibile, semplicemente inconcepibile. E chi pensa il contrario deve essere fermato. Fermato da chi? Da chi ha coscienza civile, umana direi, da chi sa guardare lucidamente le conseguenze e non vuole far finta di niente. Da noi. Siamo in tanti, noi. 

Io lo so che ‘sta cosa del votare democraticamente è una questione delicata, ma bisognerebbe votare a neuroni sani e non andare giù di rabbia e violenza come se non ci fosse un domani. Perché un domani c’è ancora e faremmo meglio a pensare ai rischi e alle conseguenze prima di consegnare le nostre vite nelle mani sbagliate. 

Non credo in chi urla di più e in chi alza di più i pugni o digrigna meglio i denti. Preferisco il ragionamento trasportato su un piano dialettico corretto e pulito, preferisco il confronto onesto allo storytelling da Game of Thrones. Preferisco l’incontro allo scontro, la pace al conflitto, la vita alla morte. E poi detesto i bugiardi cronici che ti pensano un idiota e ti tirano matto con le diverse versioni della stessa minestra. Ah, è vero, dimenticavo: questa è la politica, così dicono. 

No, questa è la brutta politica, e bisognerebbe recuperare quel concetto di buona politica che manca da troppo tempo. Eh, anche questo è un tema che dovrebbe essere affrontato prima o poi e non certo da me. 

In ogni caso, rischiare perché? Perché il margine di miglioramento a beneficio di tutti a cui accedere è talmente certo da riuscire a farti sognare. Anzi: sperare.

  

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